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Nostra signora dei turchi


Regia:Bene Carmelo

Cast e credits:
Fotografia
(Ektachrome, 16 mm, gonfiato a 35 mm): Mario Masini; effetti speciali: Renato Marinelli; montaggio: Mauro Contini; musica coordinata da Carmelo Bene: Pëtr Il’ic Cajkovskij (Capriccio italiano), Gaetano Donizetti (Lucia di Lammermoor), Modest Musorgskij (Una notte sul Monte Calvo e Quadri di un’esposizione), Charles Gounod (Faust), Giacomo Puccini (Manon Lescaut e La fanciulla dei West), Sergej Rachmaninov (Concerto n. 2 per pf e orch.), Gioachino Rossini (La Gazza ladra), Igor Fédorovic Stravinskij (Pétrouchka), Giuseppe Verdi (Un ballo in maschera e La Traviata). Citazione dei temi di Lawrence d’Arabia di Maurice Jarre e di Il terzo uomo di Anton Karas; interpreti: CarmeloBene, Lydia Mancinelli (Santa Margherita), Ornella Ferrari (la serva-bambina), Anita Masini (la Madonna e il primo amore), Salvatore Siniscalchi (l’editore), Vincenzo Musso; produzione: Carmelo Bene; distribuzione: IFC; origine: Italia, 1968; durata: 124'.

Trama:Al protagonista, un intellettuale così febbricitante da sembrare patologicamente irrecuperabile, riaffiora un confuso ricordo di una strage compiuta dai turchi a Otranto. Immedesimandosi in una delle vittime, nell'inconscio proposito di sviscerare se stesso, gli appare una donna, Margherita, la quale, sotto le vesti della Santa Maria d'Otranto, lo tratta con pietosa amorevolezza. Nell'allucinante susseguirsi di ricordi intrecciati con i fatti avvenuti storicamente, il protagonista si ritrova a contatto del suo ambiente, la sua terra, il suo paese.

Critica (1):Diversissimo per temperamento, per curiosità intellettuali, per formazione culturale, Bene in almeno un aspetto si può paragonare a Schifano: entrambi chiedono allo spettatore un rapporto diverso con le loro opere, addirittura una complicità. Ciò vale soprattutto per Bene, i cui film – Nostra Signora dei Turchi (1968), Capricci (1969), Don Giovanni (1970) – non ammettono mezze misure: o l’adesione dello spettatore è totale, e allora si ottengono, con l’esperienza estetica, aumento di vitalità, scoperte impreviste, effetti ludici, oppure scatta l’insofferenza, e l’impossibilità di una risposta critica. Pur sviluppandosi verso un sempre più cristallizzato "principio di stilizzazione", che è, come in certe rappresentazioni teatrali, un metodo per conoscere ed insieme è uno "schermo" dietro cui si vuole nascondere la realtà conosciuta, i tre film sono al fondo un’opera sola, dedicata ad un solo tema: Carmelo Bene come "oggetto" e come soggetto del proprio discorso. Appunto perché meno "stilizzato", meno "studiato"; rispetto a Capricci, che contiene più "divagazioni", e rispetto a Don Giovanni, che contiene più "maschere", Nostra Signora dei Turchi consente di scorgere meglio l’essenza del cinema (e del mondo) di Bene, aldilà della singolarità, pur molto pronunciata, dei diversi film. Nostra Signora dei Turchi è un’esplosione di narcisismo dichiarato, è l’apoteosi, ora comica ora tragica, dell’"io" dell’autore (e dell’attore) che, anche con il cinema sembra volere tutto mangiare e tutto digerire. Film sempre in prima persona, ma senza essere autobiografico, è anche una sfida tra l’essere (nel mondo e nel cinema) del regista e tutto ciò che è fuori di lui. Si spiegano così le ridondanze, le iterazioni, le dilatazioni espressive che caratterizzano, anzi, che sono lo stile del film: Bene è costretto sempre a ribadire la sua superiorità sul mondo come replica alla verificata impossibilità di un equilibrio, di un’armonia tra il mondo stesso e la propria individualità. La vita è sogno (e incubo), ma la mia vita è anche questa corposità e questo comportamento: io (Carmelo Bene) che mangio, che cerco la soddisfazione sessuale, che vomito, che aspetto un miracolo che non viene mai, che impreco, che rincorro, che fuggo. È ciò che il regista fa emergere dal suo film, il cui movimento vorticoso e fittizio – come se Bene inseguisse la propria ombra in un labirinto – è reso ancor più drammatico dalla raffigurazione tutta soggettiva della realtà rappresentata; un mondo visto come in uno specchio, che a sua volta è anche una barriera. In Nostra Signora dei Turchi (come del resto negli altri due film) succede ogni genere di evento, ma questa serie di accadimenti, questo "caos" interiore "proiettato" – secondo un ordine formale – all’esterno, non comporta delle spiegazioni esaurienti: le azioni ad un livello esistenziale primario non si spiegano, ci sono, ecco tutto. E anch’esse fanno parte del décor: il cinema così barocco di Bene, con le sue immagini così piene e tagliate a sangue, viene prima (è precategoriale) rispetto ad una realtà "sistemata", cioè resa convenzionalmente comprensibile, abitabile, accettabile. Nemico, sfuggente, vessatorio, soffocante, distruttivo, il mondo esterno costringe chi non scende a patti a muoversi con impaccio, a cercare sempre il contatto senza mai averne la certezza, a molte cadute e ricadute, proprio come nei sogni. Ma se si assume come punto di vista non piú l’"io" dell’autore-protagonista ma tutto ciò che lo circonda, insomma se non si privilegia alcun punto di vista particolare, Nostra Signora dei Turchi diventa anche, per felice contraddizione, una satira feroce, una beffarda parodia dell’interiorità, dello stesso solipsismo che pure è il suo tratto ideologico più marcato, poiché il film è, anche, la visualizzazione di ciò (fantasie, desideri, paure) che interiormente preme per trovare un’uscita (un’espressione?) verso quello che può rappresentare un appagamento (o una sicurezza). Se questo non avviene, si rimane nell’orbita dell’inespresso e della morte, e si è tragicamente ridicoli.
Anche per Carmelo Bene fare un film è un rito terapeutico, i cui sacerdoti e le cui formule magiche gli sono però forniti dalla Cultura che infatti nelle sue opere gioca sempre un ruolo determinante, come complicazione e come ausilio. L’incessante lotta con il "doppio" che è in ognuno di noi e con chi fuori di noi ci oppone resistenza, in definitiva la lotta contro l’"impotenza", nei film di Bene passa sempre attraverso il mondo delle Idee e delle Creazioni estetiche; un mondo ricco di ambiguità e di promesse per chi, come Bene, non si accontenta di conoscerlo, ma vuole viverlo e reinventarlo. La Cultura – che in Nostra Signora dei Turchi assume prevalentemente la forma della Tradizione, in Capricci quella della Cognizione e in Don Giovanni quella del Mito – è per Bene il familiare Regno dei Morti dove si può, se si sanno ascoltare le sue voci, ritrovare la Vita, proprio come Alice nel paese delle meraviglie o nell’universo nascosto dietro lo specchio. Ma se i film di Bene sono un rito terapeutico, bisognerebbe anche verificare quanto, in essi, lo sperimentalismo non sia solo autotelico bensì trascendente, cioè quanto valga come terapia del linguaggio malato con cui si esprime (falsamente) una umanità malata per contribuire alla guarigione (alla rinascita) di quello e di questa. E si avrebbe la conferma che il cinema di Bene – come quello di Schifano – merita una qualificazione più alta di quella che solitamente sottintende il termine "sperimentale", e invece dovrebbe essere definito, come già si è detto, di autentica avanguardia, di autentica creatività rivoluzionaria: per le risultanze che ha sul piano delle sovrastrutture espressive, ed anche perché modifica, assieme al modo di pensare e di fare, pure il modo di vedere il cinema.
Bruno Torri, Cinema italiano: dalla realtà alla metafora, Palumbo, Palermo, 1973

Critica (2):L'eccezionale talento cinematografico di Carmelo Bene è esploso immediatamente con Nostra signora dei turchi, opera prima dell'estroso regista pugliese, non sufficientemente compresa dalla critica ufficiale che qualche anno fa l'accolse a Venezia con freddezza, in realtà capolavoro difficilmente superabile; una vera apparizione nell'uniformità della sia pur interessante "nuova maniera" realistica del cinema attuale. Solo apparentemente confuso e caotico il film richiede una visione attenta, una notevole concentrazione, per la molteplicità dei temi, per le multiformi risoluzioni, per la profusione di elementi e di argomenti, per le soluzioni stilistiche. La sua unitarietà, alla fine, ha infatti del prodigioso e c'è da rammaricarsi se per indolenza non la si fosse afferrata. Il film è l'autobiografia sarcastica e autocritica di un intellettuale meridionale (ma solo per lo stile), di Carmelo Bene che si sdoppia e si osserva impietosamente ed ha il coraggio di smitizzare anche il proprio lavoro. Il tema fondamentale, articolato policentricamente, è la distruzione del Mito, e quindi la distruzione giustificata del tipo di società in cui viviamo di qualsiasi fede. Didatticamente il film è divisibile in alcuni eventi principali, sui quali si innestano ipotesi ed invenzioni di originalità pura. L'intellettuale tra virgolette tenta un goffo suicidio, naturalmente non muore e, durante la convalescenza grottescamente bendato, rivede i nodi emergenti della sua esistenza, le esperienze "che contano", mescolate a situazioni che il delirio ricorrente fa affiorare dal subconscio: l'ambizione adolescenziale della gloria artistica; l'educazione religiosa presso i frati; il fanatismo magico-religioso del suo paese; l'ambizione della maturità (eredità infantile) della grandezza cavalleresca; l'amore di una Santa per un uomo; l'amore di un uomo per una donna. Ogni argomento in funzione della sua negazione con mancanza di alternative (vedi Capricci dove la falce e il martello si incrociano solo per combattersi). Il pregio strutturale del film sta nel fatto che si può iniziare a parlarne partendo da diversi angoli ottici con la medesima efficacia: veramente "uno per ogni spettatore che vede e ascolta". Intanto la costruzione, che è dantesca: punto che si muove e si allarga a spirale fino ad un massimo per restringersi di nuovo a punto: due coni uniti per la base, da percorrere spira per spira, bolgia per bolgia.
[...] Il grande pregio di Nostra signora dei turchi come dei successivi film di Bene è proprio in questa facoltà di non fallire mai la distanza focale, di saper colpire col sarcasmo, ma immediata mete dopo colpire di sarcasmo il donchisciottismo clamoroso e ampolloso tipica mente latino-mediterraneo dell'accusa facile. Le matrici culturali meridionali, le secolari mescolanze arabe e bizantine consentono a Bene una serie continua di recuperi che non era facilmente immaginabile. L'apparente e sgangherata sbracatura è trattenuta da questa prospettiva implacabile grazie alla quale Bene vive nella realtà ciò che è nei suoi film, dove del resto l'opera prima e non solo quella è sempre autobiografica. un altro rischio non meno grave del primo stava nell'incorrere nel settorialismo culturale: costruire una storia meridionale, con una logica particolare comprensibile soltanto d'un certo tipo di mentalità. ma grazie al controllo continuo delle soluzioni contenutistiche, sempre attraverso la permanente autocritica, è stato evitato anche questo pericolo. Infatti obiettivamente non si può intendere Meridione nelle vicende di Nostra signora dei turchi (e neppure in Capricci e Don Giovanni): è completamente assente la sottile malinconia di Tommasi di Lampedusa per esempio o la nostalgia classica di Quasimodo, la ricerca di antichi splendori morali cara agli intellettuali meridionali. La struttura formale recupera l'uso di colori violenti, di squarci di luce, di bagliori e di contrasti netti (certi tagli di luce ricordano la parte a colori della Congiura dei Boiardi) con la paradossale abitudinarietà delle situazioni evocando e delineando l'atmosfera precisa della più impietosa e beffarda smitizzazione. Soltanto Carmelo Bene riesce ad introdurre la cinepresa per un'ora in una stanza senza darcene l'assuefazione, la sensazione delle dimensioni, la localizzazione tipologica precisa. Quelle sue stanze emergenti dal buio si dilatano attraverso profondità incredibili, si distorcono e si muovono insieme al protagonista. Muovere la cinepresa continuamente, con intenzioni precise, senza procurare fastidio è difficilissimo ed indice di padronanza assoluta, naturale. Nonostante poi l'impressione di estrema dovizia formale il cinema di Carmelo Bene è realizzato con assai limitati mezzi: pochissimi attori, interni ed esterni in economia. Ritengo personalmente Nostra Signora dei Turchi uno dei migliori film in assoluto del dopoguerra.
Mario Abati, Cineforum n. 104 giugno 1971

Critica (3):

Critica (4):
Carmelo Bene
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