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Profundo Carmesì - Profundo Carmesì


Regia:Ripstein Arturo

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Paz Alicia Garciadiego; fotografia: Guillermo Granillo; montaggio: Rafael Castañedo; musica: David Mansfield; scenografia: Monica Chirinos, Patricia Nava, Antonio Muño-Hierro; costumi: Monica Neumaier; interpreti: Daniel Giménez-Cacho (Nicolas Estrella), Regina Orozco (Coral Fabre), Marisa Paredes (Irene Gallardo), Véronica Merchant (Rebeca Sampedro), Julieta Egurrola (Juanita Norton), Rosa Furmán (Mrs. Silverman), Bianca Fiorido (Mercedes), René Pereyra (un poliziotto), Charleen (Teresa); produzione: Miguel Necoechea, Pablo Barbachano per Imcine/Wanda/MK2 Prods.; origine: Messico/Francia/Spagna, 1996; durata: 110’.

Trama:Messico, 1949. L'infermiera Coral, che vive sola con due figli, decide di rispondere ad un annuncio su un giornale ed incontra Nicolas. Coral ne è subito affascinata nonostante questi sia un bellimbusto che deruba donne abbienti in cerca di affetto sulla posta del cuore. Nicolas fugge via con i suoi soldi, ma Coral lo insegue abbandonando i figli in un orfanotrofio.Fingendosi fratello e sorella, proseguono insieme l'attività di Nicolas...

Critica (1):[...] Profundo Carmesì (che i distributori italiani si sono ben guardati da tradurre letteralmente in “Profondo rosso”, per non sconfinare sul territorio di uno dei mostri sacri del cinema nostrano) – che a Venezia ‘96 era stato premiato per sceneggiatura, musica e scenografia – si apre sugli ansimi della grassona Coral, in camice da infermiera, che porta in giro per la sua casa, dove dispensa cure a malati terminali, le sue carni in esubero con l’eccitazione di una ragazzina, donandosi sinceramente a vecchi sdegnanti con un piede e mezzo nella fossa, e ricevendo le invettive furenti di parenti scandalizzati. L’incontro tra Coral e il sosia di Boyer, che si spaccia per spagnolo rafforzando la sua aristocrazia dei modi e si munisce accuratamente di parrucchino («mi dà un’aria alla francese», si compiace assecondando i gusti divistici di lei, con un aspetto tra il Cederna e il François Truffaut), avviene all’insegna del “rosso”. Rossi, infatti, sono l’enorme vestito indossato dalla donna e il cocktail preparato per l’occasione. Ma questi particolari non saranno sufficienti per trattenere Nico, che prontamente guadagnerà l’uscita, non senza prima averle mandato in frantumi uno dei suoi dischi preferiti: Coral gli domanda se è per via del suo fetido alito (ricordate Come l’acqua per il cioccolato?: quello dell’amore handicappato dall’esuberanza scomoda del corpo che “disturba” sembra essere uno dei tratti costanti dell’immaginario messicano), ma non ottiene che una vaga risposta. Sarà presto di ritorno (con tanto di disco nuovo e rose rosse al seguito), attirato, al di là delle caratteristiche fisiche della donna, dalla facilità della preda sia in termini sessuali che economici, visto che appena dopo esserci stato a letto si defila rubandole nella borsetta, illuso dall’apparente sonno di lei, che in realtà è assai zelante a farsi vampirizzare. Farsi vampirizzare e vampirizzarsi, prima del vestito, poi del denaro e infine dei propri bambini, abbandonati davanti a un istituto religioso proponendo loro il miraggio di un’adozione da parte di una famiglia facoltosa e strappando alla più grande la promessa di non ricordarsi mai più di sua madre. Accettata da Nico in nome della sua assoluta devozione anche nelle sue parti più scomode (l’uomo le suggerisce di non rimpinzarsi di pastiglie per l’alito, perché «ognuno ha il sapore che ha»), Coral inizia ad essere la sua partner insostituibile nei raggiri di ricche vedove in cerca di consolazione. Una serie di lunghissimi piani avvolgenti mostrano il teatrino messo in scena dai protagonisti, con Nico che si cucina elegantemente le vittime a tempo di galanterie, efficaci, in verità, non tanto per l’abilità del seduttore quanto per lo zelo con cui le donne sono determinate a farsi sedurre («Io regalo dei sogni», osserva coscientemente l’uomo). Donne destinate a terminare la loro esistenza accanto a una “pozzetta” di liquido orribile, come capita nell’ordine: 1) alla ricca mantenuta incontrata all’Intimo Bar, trovata riversa al mattino sulla panchina davanti al locale, soffocata dal vomito causatole dal veleno per topi propostogli in versione cocktail da Coral; 2) alla religiosissima vedova allettata dal matrimonio – nel cui domicilio i due amanti fanno sesso sfrenato approfittando della sua discretezza un po’ bigotta – che, dopo aver tentato invano di consumare la notte di nozze con Nico («Lascia che il tuo vino si versi nel mio calice»), finisce con la testa fracassata da una statua della Madonna; 3) la giovane e bella proprietaria dell’officina meccanica in cui Nico lavora in prova per un paio di mesi (per proteggerla dagli sguardi penetranti degli uomini, dice lei), con il quale instaura una passionale relazione di sesso (lo fanno selvaggiamente nascosti all’interno di un’auto ricoperta di polvere: in El castillo de la pureza Gabriel punisce severamente i figli sorpresi in rapporti incestuosi in auto) e che finisce accoltellata, dopo aver scoperto di essere incinta, dall’uomo che in tal modo cerca di espiare di fronte all’amata Coral; 4) infine la piccola figlia della “meccanica”, uccisa dalla stessa Coral perché dalla morte della madre non ha smesso di piangere un secondo e perché forse (anche nella sua determinazione a respingerla prontamente per l’alito) le ricorda sua figlia. Così il rosso del film che prevale diventata quello del sangue sui vestiti di Coral, che già si era presentata allo spettatore, nella prima scena, con il grembiule inzaccherato. A questo proposito, non si può non notare che nel corso dell’esecuzione finale, dove i poliziotti eliminano i due amanti in perenne viaggio di nozze e di morte (il film è tratto da una storia vera che nel 1970 ispirò anche il Leonard Kastle di I killers della luna di miele) con la stessa superficiale freddezza con cui i protagonisti hanno compiuto i loro delitti, Coral veste lo stesso abito dell’incontro fatale, prima di cadere, accanto all’amato, tra le pietre del deserto, in un arcipelago di pozzanghere azzurre che presto si tingono di rosso, mentre la macchina abbandona, carrellando all’indietro, i corpi esanimi lasciati a marcire lentamente al sole. Intorno a loro, domina quello stesso nulla che ha segnato l’intera messa in scena del film, attraverso la costante deserticità dell’“attorno” umano, scandito dall’assenza di personaggi di contorno e di una dimensione sociale, a parte l’emblematico esempio dell’amica della cattolicissima vedova, tale signora Silbermann, significativamente «ebrea, anarchica e atea», che polemizza con gli spagnoli in Messico e il conseguente massacro degli indios, ponendosi come unico soggetto di consapevolezza in cotanta indifferente vacuità nei confronti delle cose. Non a caso l’intervento più rimarcabile da parte di Nico nel corso dell’intera storia sembra essere in definitiva quello in cui il personaggio si interroga sulla possibilità di indossare il parrucchino anche in punto di morte.
Umberto Mosca, Cineforum n. 365, giugno 1997

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Arturo Ripstein
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