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Ultimo cinema del mondo (L') - Viento se llevó lo que (El)


Regia:Agresti Alejandro

Cast e credits:
Sceneggiatura: Alejandro Agresti; fotografia: Mauricio Rubinstein; montaggio: Alejandro Brodershon; interpreti: Angela Molina, Jean Rochefort, Vera Fogwil, Fabian Vena; produzione: DMVB Film/Agresti film, Studio NIEUWE Gronden; distribuzione: Pablo; origine: Francia/Argentina/Olanda, 1998; durata: 88’.

Trama:Argentina, anni Settanta. Soledad, che è tassiste a Buenos Aires, decide un giorno di rubare l'auto con cui lavora e di fuggire senza meta nel sud del paese. Il suo girovagare finisce bruscamente con un incidente in Patagonia. Cerca aiuto dagli abitanti del paese più vicino, ma presto si accorge che l'isolamento in cui vivono li ha lasciati fuori dal tempo. Nel paese non ci sono né radio né televisione e l'unica forma di comunicazione e di contatto con la realtà è un piccolo cinema che presenta film molto vecchi che arrivano con rulli scambiati e scene invertite. Questo provoca una narrazione caotica delle storie che invadono le menti degli abitanti, i quali assumono, nella loro quotidianità e nei loro rapporti, modi di dire e fare disordinati come quelli dei film

Critica (1):Non fosse per i festival nemmeno conosceremmo Alejandro Agresti, prolifico autore argentino con base in Europa, finora ignorato dalla distribuzione italiana. Non fosse per la Pablo, non sarebbe arrivato sui nostri schermi nemmeno questo lavoro, che pure vinse nel 1998, con merito, la Concha de Oro a San Sebastián. Il titolo originale è un curioso (e insensato) anagramma di Via col vento, che rende da subito esplicito il lato metacinematografico della storia e l’omaggio di Agresti al cinema. La vicenda è invece un’allegoria dell’Argentina e anche una riflessione più generale sulla frammentazione e manipolazione dell’informazione, sugli effetti distorsivi e stranianti cui queste possono dar luogo.
Agresti, aiutato dalla distanza fisica che ha messo per qualche tempo tra sé e la patria, riesce a contemplare il suo paese con il giusto distacco. Senza rinunciare ai propri temi di sempre, compreso quello argentino per eccellenza, i desaparecidos, trova risultati felici: il rivestimento allegorico gli consente di essere ora morbido ora pungente e di cercare momenti di suggestione e di sintesi. Come nell’episodio – che cristallizza lo smarrimento dell’uomo di fronte all’ingiustizia – in cui lo stralunato inventore del villaggio marcia alla volta della capitale per brevettare “l’idea dell’uguaglianza”. Sul versante stilistico, il regista sfrutta la luce e i riverberi che gli offre la Patagonia, ma aggira i rischi dell’effetto-cartolina. Si concede solo il vezzo, nei momenti di stanca, di indugiare sui volti di Angela Molina (“deliziosa cattedrale in rovina”) e Jean Rochefort, divi di un affiatato cast multiculturale, che mescola professionisti e patagonici occasionalmente prestati al cinema.
In Spagna il film ha evocato paragoni importanti: con il monumento autoctono Luis Berlanga, per lo spirito insieme delicato e corrosivo che pervade la storia: con gli italiani Risi, Monicelli e Comencini (sempre citati insieme dalla critica iberica, quasi si trattasse di una triade indivisibile), di cui ricorda l’immediatezza nel raccontare e la non ostentazione di una matrice autoriale; con Tornatore, che cantò di un altro cinema in un altro Sud. Probabilmente l’unico accostamento davvero giustificato è quello con il regista siciliano, per un altro paio di punti comuni: l’attenzione, nel film, a un modo di consumare il cinema che si è perduto e l’utilizzo di una sala cinematografica di provincia come finestra per guardare il mondo. Ma quelli che in Nuovo Cinema Paradiso erano elementi costitutivi votati a una rivisitazione dolceamara dei costumi nazionali, in L’ultimo cinema del mondo sono pretesti per uno sguardo più ampio sulla realtà argentina e sui suoi mali, presenti e passati. Diversi gli obiettivi, e diversa anche la sintassi: Agresti procede per accumulo di episodi che non cercano un centro di gravità né una conclusione, in cui la stessa grammatica delle singole scene, diverse per ritmo e tono, risponde a questa esigenza di autonomia autoriflessiva. Il debito maggiore Agresti ce l’ha allora nei confronti della letteratura sulla terra “alla fine del mondo”. Non tanto verso quegli scrittori che ne hanno tracciato descrizioni epiche, come Chatwin, Coloane, Fajardo o Sepúlveda, quanto per un funambolo come Osvaldo Soriano, cantore (in Un’ombra ben presto sarai, in Mai più pene né oblio) di vagabondi esistenziali che ripercorrono all’infinito i labirinti del continente sudamericano. Dove le storie si intersecano, finiscono in vicoli ciechi, tornano indietro. Oppure, senza altre pretese, continuano semplicemente ad essere raccontate.
Enrico Danesi, Duel, febbraio 2000

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Alejandro Agresti
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