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Mio domani (Il)


Regia:Spada Marina

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Marina Spada, Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria; fotografia: Sabina Bologna, Giorgio Carella; musiche: Paolo Fresu, Bebo Ferra; montaggio: Carlotta Cristiani; scenografia: Alessio Baskakis; costumi: Sabrina Beretta; interpreti: Claudia Gerini (Monica), Raffaele Pisu (padre di Monica), Claudia Coli (Simona), Paolo Pierobon (Vittorio), Lino Guanciale (Lorenzo), Enrico Bosco (Roberto); produzione: Francesco Pamphili per Film Kairòs, in collaborazione con Rai Cinema; distribuzione: Iris Film; origine: Italia, 2011; durata: 88’.

Trama:Monica, una donna di 45 anni con una vita piuttosto normale ed equilibrata, alla morte del padre – un uomo ossessivamente religioso – che coinciderà anche con la fine della sua relazione con un uomo sposato, si troverà obbligata a mettere in discussione tutto quello che ha costruito fino ad oggi e a fare i conti con il suo passato per cercare la sua identità.

Critica (1):Il suo lavoro è come dare una spruzzatina di Chanel «per coprire la puzza di merda». Non c'è rancore nella voce del collega appena licenziato. Non più di tanto, almeno. Non è Monica che ha deciso di licenziarlo. Monica è solo una rotella dell'ingranaggio: quella messa lì per far accettare al "personale in esubero" il suo amaro destino. Fa la "formatrice", Monica. Tiene corsi di formazione per i quadri a rischio di licenziamento. Tacchi alti e tailleur di sartoria, parla con passione della necessità di fare il vuoto nella propria vita per provare a rinascere di nuovo. Lei parla di exit option come di una scelta filosofica, in realtà per le aziende è quasi sempre solo una questione di profitto. Si tagliano teste, si buttano via vite. Quelle in esubero. Quelle che non servono. Quelle che non fanno quadrare i conti. Anche Monica, all'inizio, appare con la testa tagliata: la regia del film di cui è protagonista sceglie di inquadrarla così, come decapitata. Deprivata di identità. Di autonomia. Come una marionetta, o un robot, Monica ripete la parte che le è stata assegnata. «Sono proprio le crisi che ci spingono ad andare avanti», dice a coloro che frequentano i suoi corsi. Ma la decisione di andare avanti non dipende mai solo da noi. Lo sa bene anche lei, visto che tutta la sua storia è iniziata con un interdetto. «Ferma, da qui non si passa...!», le viene intimato nella sequenza iniziale mentre al volante della sua auto cerca di raggiungere la casa paterna guidando in piena notte con il vetro del parabrezza perennemente appannato. Il mio domani di Marina Spada mette in scena, prima di tutto, proprio questo: la difficoltà di trovare varchi, passaggi, vie d'uscita. L'impasse emozionale. La paralisi esistenziale. L'incapacità di trovare una ragione per andare avanti. «Qual è l'immagine che vi viene in mente pensando alla parola vuoto?» chiede Monica ai suoi corsisti. Vedendo il film, ho provato anch'io a rispondere. Provate anche voi. Non andate avanti a leggere se non dopo aver risposto. A me – lo confesso – non è venuto (e non viene) in mente niente. Perché il vuoto è qualcosa di non visibile. Non di inesistente. Su questo Monica è chiarissima: il vuoto esiste, eccome. È uno spazio reale, può essere riempito. Ma non lo si può vedere. La sfida estrema di un film come Il mio domani è proprio quella di avere per oggetto qualcosa che non si vede.
Qualcuno ha scritto che è un film snervato e tentennante. E che i protagonisti hanno la consistenza di fantasmi. Prendiamola per buona: se anche così fosse, non è affatto detto che si tratti di un limite. Anzi, proprio questo potrebbe essere il pregio maggiore del film: il suo procedere esitante, la sua drammaturgia debole, l'inattualità dei suoi ritmi e dei suoi tempi. Marina Spada si ispira ad Antonioni, certo, e il ricordo di La notte affiora più di una volta nella configurazione delle immagini, assieme a certi echi dei primo Soldini (quello milanese di L'aria serena dell'Ovest e di Un'anima divisa in due) e perfino di certo Olmi (riecheggiato soprattutto nella figura del padre contadino interpretato da un sublime Raffaele Pisu). Ma poi la regia si regala il lusso di inquadrare a lungo le nuvole grigie che ingombrano il cielo di Milano. E di procedere per ellissi, per sincopi, per allusioni. Rispetto al cinema del tutto detto, del tutto chiaro, qui si va avanti nella penombra, tra sfumature e scoloriture. E Claudia Gerini – bruna, sbiadita, mimetizzata come un camaleonte nella città in cui vive – oscilla tra il fantasma di Lea Massari in L'avventura e quello di Jeanne Moreau in La notte, immersa nell'abitudine dei suoi gesti sempre uguali, senza mai un deragliamento, senza un'esitazione, asciutta, rigorosa, anaffettiva. L'unica trasgressione che si concede è un corso serale di fotografia: come se sapesse (e volesse farci sapere che sa) che deve reimparare a guardare. Dobbiamo tutti reimparare a guardare per ambire ad andare alla radice del vuoto. C'è un domani per quelli come lei? Chissà. Certo è che Il mio domani ti si sfrega addosso e ti entra dentro e ci resta a lungo, con i suoi colori grigi, con il suo andamento lento. E con la sua ipnotica ma necessaria cognizione del dolore.
Gianni Canova, Il Fatto Quotidiano, 18/11/2011

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