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Mio zio - Mon oncle


Regia:Tati Jacques

Cast e credits:
Soggetto: Jacques Lagrange, Jean L'Hôte, Jacques Tati; sceneggiatura: Jacques Lagrange, Jean L'Hôte, Jacques Tati; fotografia: Jean Bourgoin; musiche: Frank Barcellini, Alain Romans; montaggio: Suzanne Baron; scenografia: Henri Schmitt; arredamento: Henri Schmitt; costumi: Jacques Cottin; interpreti: Jacques Tati (Monsieur Hulot), Jean-Pierre Zola (Charles Arpel), Adrienne Servantie (Madame Arpel), Lucien Frégis (Monsieur Pichard), Betty Schneider (Betty, la figlia della portinaia), Jean-François Martial (Walter), Dominique Marie (la vicina), Yvonne Arnaud (Georgette), Adelaide Danieli (Madame Pichard), Alain Bécourt (Gerard Arpel), Régis Fontenay (commerciante), Claude Badolle (venditore al mercato delle pulci), Max Martel (ubriaco); produzione: Film Del Centauro, Specta Films, Gray Film, Alter Film; distribuzione: Ripley's Film in collaborazione con Viggo; origine: Francia-Italia, 1958; durata: 120'. Riedizione 2016.

Trama:Al centro di un quartiere moderno sorge la villa ultramoderna e imponente del signor Arpel, che vi abita con la moglie ed il figlio Gèrard, di nove anni. Il signor Arpel, ricco industriale e Presidente della società "Pastac", è il perfetto tipo del borghese che la posizione e l'agiatezza rendono importante. La sua esistenza perfettamente ordinata sarebbe ammissibile se gli lasciasse la possibilità di abbandonare, almeno per un istante, i problemi connessi con la sua attività d'industriale per dedicarsi a quelli più semplici creati dalla vitalità di suo figlio Gèrard. Anche la mamma, la signora Arpel, trascura il bambino perché il suo tempo e le sue energie sono dedicati completamente al compito di mettere in ordine e pulire continuamente e perfettamente la casa. In questo ambiente di perfezione appare frequentemente il fratello della signora Arpel, lo zio Hulot, per il quale Gèrard mostra una predilezione che desta la gelosia del signor Arpel. Lo zio Hulot è molto differente dai coniugi Arpel: vive con grande semplicità e quando viene a cercare Gèrard il piccolo ne è felice perché sa che lo zio lo farà uscire dalla monotonia della sua vita dove tutto è previsto e tutto si ripete automaticamente. Per sottrarre Gèrard all'influenza di questo zio così poco conformista, il signor Arpel dà a Hulot un posto nella sua industria mentre la signora Arpel pensa di dargli in moglie una sua vicina. Ma questi tentativi non hanno il successo sperato e il signor Arpel prende una decisione radicale: Hulot sarà un rappresentante della società all'estero. Tutta la famiglia lo accompagna alla stazione e gli addii sono rapidi, ma uscendo dalla stazione il signor Arpel inconsciamente ritrova l'attitudine familiare di Hulot verso Gèrard.

Critica (1):(...) Tati contrappone il culto del comfort e la freddezza tecnologica della nascente società consumista (siamo nel 1958) al candore stralunato di quello zio che vive 'all'antica', esasperando in una girandola di gag e di invenzioni surreali il contrasto fra i limiti del nostro povero corpo e l'apparente perfezione delle macchine che ci circondano. Un gioiello assoluto, di cui si sarebbero innamorati registi diversissimi come Godard e Truffaut, Lynch e Wes Anderson, Wenders e Michel Gondry. Ma a cui sarebbero seguiti solo due film, gli ambiziosissimi e catastrofici Playtime e Traffic,1967e1971.
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 9/6/2016

Critica (2):(...) un altro genio assoluto della Settima Arte (si, in questo caso è Arte con la 'a' maiuscola). (...) Tati faceva cinema ben dentro il sonoro, Mon oncle è infatti un capolavoro del 1958 pieno di suoni, di rumori, di cinguettii, qua e là persino di parole: ma il personaggio di Tati, sempre vestito di impermeabile e cappellino e perennemente armato di ombrello, non parlava mai. I suoi film erano un geniale ricalco dei capolavori muti di Chaplin e di Keaton, geni ai quali Tati può essere paragonato senza alcun timore reverenziale. Per inciso, Mon oncle vinse anche l'Oscar come miglior film straniero, a dimostrazione che allora anche l'Oscar era una cosa seria.
Alberto Crespi, L'Unità, 9/6/2016

Critica (3):Due quartieri contrapposti. Da una parte quello popolare, dove abita Hulot. Dall’altro quello ultramoderno, in cui vive il npote del protagonista, Gérard, con i genitori in un’asettica villa ultramoderna. Una duplicità. Quasi una spaccatura. Come il cinema di Jacques Tati, continuamente sospeso tra classico e moderno, tra la nostalgia del muto e un continuo sguardo sul futuro. Come se con Mon oncle, e soprattutto con Playtime, dovesse già anticipare uno sguardo nuovo, dove lo spettatore all’interno dell’inquadratura dovesse già scegliersi la propria immagine. Ritagliarla, ingrandirla, vederla quasi con effetti 3D.
Il personaggio di Hulot, qui protagonista per la seconda volta dopo Les vacances de Monsieur Hulot del 1953, guardato oggi sembra a più dimensioni. Come la sagoma di un cartoon. Che però ipnoticamente può ingigantirsi, diventare come una specie di King Kong dentro Parigi sospesa tra antico e moderno, tra i colori caldi del vecchio quartiere e quelli grigi e freddi di quello nuovo. Ma anche scomparire. Essere all’interno dell’inquadratura per attraversarla quasi con la discrezione di una comparsa per poi riapparire fugacemente come nello scherzo fatto dal nipote Gérard con i suoi amici con i ragazzini che fischiano per distrarre i passanti e farli sbattere contro un palo.
In Mon oncle Gérard è diviso tra la monotonia della casa ultramoderna dei ricchi genitori, gli Arpel, e l’allegria dello zio Hulot che lo porta a giocare spesso con sé. La sorella e il cognato cercano di inglobare il protagonista secondo dei canoni sociali e lavorativi preorganizzati ma i loro tentativi si rivelano disastrosi.
Vincitore del Gran Premio della giuria al Festival di Cannes nel 1958 e dell’Oscar come miglior film straniero l’anno successivo, Mon oncle, riguardato oggi a distanza di quasi 60 anni, è un film maledettamente profetico su come la tecnologia sta organizzando non solo i nostri comportamenti ma anche i piccoli gesti quotidiani, anche quelli che possono apparire più insignificanti. Quasi una sorta di pre 2.0, su come il progresso stia però spazzando un mondo che rischia di restare come residuo, di essere rappresentato solo attraverso i riflessi di un vetro. E invece iniziano a dominare azioni e rumori ricorrenti come il pesce con l’acqua della villa che si aziona ogni volta che viene qualcuno, i passi della segretaria della fabbrica, il citofono. E da questo punto di vista il lavoro di Tati è stato portentoso, anticipatore di un cinema sensoriale dove il suono ha la stessa importanza dell’immagine. Un cinema che diventa quindi anche uditivo. Non solo visivo. Non è un caso che il cineasta francese scriveva una sceneggiatura parallela per quello che riguardava la colonna sonora. In più tutti i rumori della città, degli oggetti, prevalevano sui dialoghi degli altri personaggi. Da cui emergono soprattutto i suoni delle parole piuttosto che il loro significato.
Hulot non parla quasi per niente. Bofonchia appena. Il suo è un linguaggio prevalentemente del e sul corpo. Ma attraverso la sua impassibilità, mostra con Mon oncle uno tra gli sguardi più spietati della nuova borghesia francese. Come ha sottolineato Olivier Assayas “la rappresentazione sociale degli Arpel e il rapporto con Hulot sono tra le cose più crudeli mai viste al cinema…”
Ancora tra passato e futuro. Dove il comico del muto è ancora il cuore pulsante. La conflittualità di Hulot con gli oggetti rimanda a Buster Keaton e la gag della brocca d’acqua che rimbalza e del bicchiere che si rompe è ancora oggi l’esempio di come possa funzionare alla grande nella sua apparente semplicità e che invece fa emergere il complesso lavoro che ci sta dietro per pensarla, scriverla e poi filmarla. Ma c’è anche l’ombra di Charlie Chaplin. La macchina della fabbrica che impazzisce per una distrazione del protagonista e che fa uscire un tubo di gomma con dei rigonfiamenti simile a delle salsicce richiama quella per far mangiare gli operai di Tempi moderni. Mentre lo sguardo gioioso e al tempo stesso malinconico rilascia emergere frammenti della sintonia tra Charlot e la fioraia cieca di Luci della città.
Ma Mon oncle ha influenzato fortemente anche il cinema del futuro. La maschera di Peter Sellers sembra figlia di Hulot. E forse Blake Edwards non può non aver pensato al ricevimento in casa degli Arpel nei disastri a getto continuo causati dal protagonista di Hollywood Party.
C’è però una scena che rivela tutto il tentativo e l’impossibilità di fermare il tempo da parte del cinema di Tati. Un giorno Hulot si saluta con la figlia della portiera. Lei è improvvisamente cresciuta. C’è un tempo che è passato di cui nessuno si è accorto. E in quel passaggio temporale c’è un tempo che non è stato mostrato. Che il cinema (e la vita stessa) non sono riusciti a catturare. Mostruosa potenza di un cinema gigantesco, un film troppo pieno per essere condensato in ‘solo due ore’. Quasi un kolossal di una comicità perduta e attualissima. Che ritornerà in forme ancora più estreme nove anni dopo con Playtime.
Simone Emiliani, sentieriselvaggi.it, 6/6/2016

Critica (4):
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