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Giorno della Liberazione - Munyurangabo


Regia:Chung Lee Isaac

Cast e credits:
Sceneggiatura: Lee Isaac Chung, Samuel Gray Anderson; fotografia, montaggio: Lee Isaac Chung; suono: Jenny Lund; montaggio: Lee Isaac Chung; musica: Claire Wibabara; interpreti: Jeff Rutagengwa, Eric Ndorunkundiye, Jean Marie Vianney Nkurikiyinka, Narcicia Nyirabucyeye, Jean Pierre Harerimana, Edouard Bamporiki; produzione: Almond Tree Films; origine: Ruanda-Usa, 2007; durata: 85’.

Trama:Ruanda 2006: la storia dell’ amicizia tra due ragazzi Sangwa e Munyurangabo. Il genocidio è ormai lontano, ma i conti con il passato restano in sospeso e i due amici, uno hutu e l’altro tutsi, vogliono risolverli insieme. Prima passeranno a trovare i genitori di Sangwa nel villaggio hutu e poi continueranno verso il villaggio di Munyurangabo per uccidere l’assassino dei suoi genitori. La visita al villaggio di Sangwa e il confronto con il mondo degli adulti e la mentalità delle campagne, metterà a dura prova la loro amicizia.

Critica (1):La storia produttiva del film è semplice, ma sintomatica di un interesse profondo verso la realtà ruandese e di un “colpo di fulmine” cinematografico. Dopo studi in biologia, Chung si è infatti avvicinato al cinema alla Yale University, dove ha conosciuto i suoi compagni di avventura. Nel corso di uno stage di cinema tenuto in Ruanda nell’estate del 2006, in un’associazione di volontariato cristiana, Chung e i suoi collaboratori hanno deciso di realizzare un film che raccontasse l’esperienza dei ragazzi di strada, orfani del genocidio, con i quali avevano lavorato. Girato in 11 giorni, nelle zone di campagna intorno a Kigali, con tutti attori non professionisti incontrati in fase di preparazione del film, Munyurangabo è anche il primo film girato interamente in Kynyarwanda, la lingua nazionale del Ruanda.
Il regista ha scelto di raccontare in modo semplice e poco costruito il dramma del genocidio, visto con gli occhi di chi è sopravvissuto, ma ha altre ferite da far rimarginare: quelle della memoria, della giustizia e del desiderio di vendetta. Anche grazie a un iter produttivo del tutto singolare e indipendente, il film è però basato in gran parte sull’improvvisazione, a partire da un semplice canovaccio che poi è stato man mano rivisto durante le riprese. La macchina da presa si “limita” a pedinare – tra neorealismo ed esistenzalismo da nouvelle vague – i due giovani protagonisti Munyurangabo e Sangwa (interpretati da veri orfani del genocidio), alla ricerca dei genitori e della vendetta. La loro sete di giustizia li porta lontano da Kigali, a casa della famiglia di Sangwa e poi nella casa dell’assassino del padre. Ma alla fine della strada, forse la vendetta non ha più senso.
Più che raccontarci una storia con un inizio e una fine, Chung sceglie di mostrarci la possibilità e la difficoltà di ogni incontro: i due protagonisti, amici per la pelle, dovranno affrontare i pregiudizi di chi ancora continua a dividere il popolo ruandese tra hutu e tutsi. Ma l’incontro sta anche tra le quinte del film: nelle dinamiche comunicative che si sono messe in atto tra un regista americano, di origine coreana e che non parla assolutamente il knyarwanda, e i non-attori che hanno recitato nella propria lingua, mettendo in scena se stessi di fronte alla macchina da presa. Un evento filmico che forse diviene anche un mezzo per esorcizzare il dolore subito. Come nel bellissimo e lunghissimo piano sequenza in cui un poeta ruandese canta guardando in macchina la canzone-poesia che ha composto per la fine del genocidio e che ha effettivamente cantato alla cerimonia per il giorno della liberazione, per celebrare la speranza e la nascita di un nuovo Ruanda.
Il regista sta addosso ai suoi attori, ci fa percepire il loro corpo e i loro movimenti confusi in un paesaggio che ancora porta i segni dell’orrore. Il fuori campo e l’ellissi sono i due segni di stile che la narrazione assume per darci un senso accettabile e comprensibile del reale: ma anche – forse – l’unico strumento per tradurre cinematograficamente lo straniamento di uno sguardo straniero in Ruanda. Uno sguardo che riesce, nonostante qualche ambiguità, a non fare spettacolo con il dolore. E che forse aiuterà a dare un futuro al cinema in Ruanda: il regista ha infatti annunciato che tornerà a Kigali per creare una scuola di cinema e una casa di produzione, perché possano nascere altri film, realizzati da registi ruandesi.
Maria Coletti, cinemafrica.org

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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