RETE CIVICA DEL COMUNE DI REGGIO EMILIA
; Archivio film Rosebud; ; Archivio film Rosebud
Torna alla Home
Mappa del sito Cerca in Navig@RE 

 > Aree tematiche > Cultura e spettacolo > Archivio film Rosebud > Elenco per titolo > 

Angeli perduti - FallenAngels / Duoluo Thianshi


Regia:Kar-Wai Wong

Cast e credits:

Soggetto e sceneggiatura: Wong Kar-Wai; fotografia: Christopher Doyle; musica: Frankie Chan, Roel A. Garcia; montaggio: William Chang, Wong Ming Lam; scenografia: William Chang; interpreti: Leon Lai Ming (Killer), Michele Reis (Agent), Takeshi Kaneshiro (Ho), Charlie Young (Cherry), Karen Mok (la ragazza bionda), Chan Fai Hung, Chen Man Lei, Saito Toru, Kong To Hoi, Kwan Lee Na, Wu Yuk Ho; produzione: Cheng Yi-Cheng; produttore esecutivo: Wong Kar-Way; produttore associato: Jacky Pang Yee-Wah; distribuzione: BIM; origine: Hong Kong, 1995; durata: 95’.

Trama:Due trame principali si intrecciano nell'ambiente angusto e frenetico del paesaggio della metropoli. In una vediamo un killer professionista intenzionato a cambiare vita, ma intrappolato da un legame ambiguo e irrisolto con la propria socia. Dietro al rapporto professionale si nasconde un legame sentimentale tormentato che si nutre di piccoli indizi e di una musica struggente. Adescato ma non sedotto dalla ragazza Punkie in cerca di una identità, non riuscirà a svincolarsi in tempo.
Il secondo intreccio segue un ragazzo muto (per una scatola di ananas scaduto, con una citazione evidente a "Hong Kong Express") e senza lavoro, che gira la città in moto e si guadagna da vivere occupando temporaneamente negozi in orario di chiusura. La sua muta caparbietà gli permette di avvicinarsi a Cherry, una ragazza in cerca di un appoggio affettivo.

Critica (1):C'è chi paragona il nuovo autore di culto orientale Wong Kar Wai, venuto da Hong Kong in occhiali neri, a Tarantino, ma ancora più eccentrico, più jazz freddo. Si prosegue il racconto di Hong Kong express: è rigorosamente notte, morale e materiale; ancora delusioni d'amore, killer pronti alla strage nevrotica e improvvisa, ragazze by night, tutti angeli perduti. E il vecchio centro di Hong Kong, dedalo fatiscente che si scontra col materiale pop spot offerto anche in ralenti: i fast food, l'imperante e falsa luce al neon, la videocamera e i video auguri, i pub, i ristoranti, il juke box, il cibo, insomma la video generazione. Le immagini non sono dolci, ma agitate come in una partita di football, spinte a collisioni emotive fatali. Duoluo Thianshi(Angeli perduti n.d.r) non prende le cose alla leggera e ha il pregio di mescolare fino alla fine, con abilità visiva e qualche colpo di genio, l'impatto narrativo a quello emotivo. è il limite dell'operazione, un po' criptica, che getta via la ragione e il sentimento del pubblico. Il regista dice che il film si degusta come un gelato (altri sono come l'oppio o la Coca Cola), ogni leccata un'emozione, si lavora senza script, volutamente senza pensarci sù : si gira e basta. Basta farsi precedere da un assioma spirituale alla Wenders: i folli si avventurano dove gli angeli non osano. Non sono i fatti che interessano Kar Wai, né l'apparato schizoide con cui li racconta, bensì il loro riflesso nel cuore, allenato al peggio ma sempre pronto a una bella scenata di gelosia. L'indagine si fa minimalista: "Controllare la spazzatura di qualcuno ti fa scoprire molte cose"; "anche un assassino ha avuto i compagni di scuola". Esce, vivissimo, il tessuto sociale della metropoli ed è bello naufragar nella confusione sentimentale, con finale all'alba tra i grattacieli. Angeli perduti esaspera la forma. il grandangolo è la superstar del subconscio: una lente Cinemascope serve alla distorsione orizzontale, pur in una città da leggere verticale. come la sostanza: ne esce un film ingegnoso e affascinante, forse meno ricco del precedente, ma sempre in grado di porre domande essenziali cui a loro volta risponderanno dubbi essenziali. Si tratta di materia di cinema puro: ma ora servono le regole per la conquista del pubblico. Se fosse Hollywood a chiamare, la prossima volta?
Maurizio Porro, Il Corriere della Sera, 4/05/1996

Critica (2):A volte ci chiediamo cos’è che rende un film “diverso” dagli altri, che ce lo fa amare oppure odiare completamente. Perché ci piace (o non ci piace) un film? Atteggiamento razionale. Quel carrello “significante”, quel primo piano “espressivo”, quel piano sequenza “inquietante”? Oppure meramente “fisico”? Intestini rivoltati, sguardi veloci, dolly, panoramiche e macchine a mano che ci scombussolano il corpo? 0 magari dipende tutto dal nostro stato d’animo di spettatori, più o meno distratti (o concentrati) dalle nostre vite, dai nostri problemi, dalle nostre ansie, gioie, preoccupazioni. Quante volte ci scopriamo “distratti” dal film dalla storia, e immersi nelle immagini a pensare ai “fatti nostri”? In fondo non dovremmo neanche vergognarcene troppo, anzi! Bello il cinema che ti spinge a pensare... Eppure l’industria dello spettacolo ha sempre pensato ad un cinema che, in qualche modo, “distraesse” il pubblico dalla vita quotidiana, dai problemi di ogni giorno. E allora: ci piace il cinema che ci spinge (non costringe!) a pensare (magari ad altro, non importa) oppure quello che per due ore ci scaraventa in atri mondi, altri universi, che ci permette di vivere altre vite (e il cui punto limite sono i viaggi-squid di Strange Days)?
Se si dovesse definire, circoscrivere in qualche modo il piacere della visione si rimarrebbe in silenzio, o si direbbero sciocchezze. Perché il piacere della visione di un film è talmente complesso, legato a molteplici fattori, che non necessariamente rimanda soltanto a ciò che vediamo sullo schermo. I nostri umori, la poltrona dove ci sediamo, l’impianto dolby, gli spettatori che ci sono vicini, ecc.. tante sono le variabili che influiscono sul nostro percepire un film… Eppure in vari modi ognuno di noi riesce a trovare dei segnali, dei percorsi personali, dei segmenti vitali che ci permettono di inseguire un certo modo di fare cinema, che ci fa annoiare o disgustare di fronte a certi prodotti (il cinema italiano! Oppure le produzioni medie hollywoodiane di quest’anno, tipo Copycat, Il giurato o altra robaccia simile) o che ci fanno letteralmente adorare altre visioni (Eastwood, Friedkin, Mann, Bigelow, Loach, Van Sant, Carpenter, Lee, Gilliam, ecc...).
Ma il cinema di Wong Kar-Way è altro ancora. È davvero qualcosa che va oltre il “semplice” piacere del cinema (e dello spettatore). È il cinema che si fa “piacere” allo stato puro. Può un film, un regista, piacere al di là di tutti i discorsi possibili, anche e soprattutto perché ha uno stile inconfondibilmente “bello”? Ok lo so che è strano e forse anacronistico in epoca post-strutturalista, post-semiotica e post-moderna mettersi a parlare di un estetica del “bello”, eppure, come di fronte agli occhi della persona che ami, tutte le coordinate interpretative, le categorie di pensiero, le logiche, ecc... insomma tutto salta.
Con questo regista honkonghese siamo di fronte, e lo diciamo oggi nel 1996, con tutte le possibilità di essere smentiti nei prossimi anni e di rimediare una bella “figuraccia critica”, al cineasta più originale e innovativo dell’intero cinema mondiale. Il suo stile sgrammaticato, le sue immagini nervose, rallentate, fluttuanti, rappresentano meglio di ogni altre il senso di sgretolamento, di angoscia, solitudine e voglia di vivere degli uomini (e delle donne!) contemporanei.
Ciò che più stupisce in Wong Kar-Way è questa autentica “moralità” della messa in scena. Nessuno riesce a “chiudere” le sequenze come lui. In As Tears go By (ma sequenze analoghe ci sono in tutti i suoi film) spinge un carrello in primo piano su un volto che viene letteralmente “saltato” dalla mdp, che poi gira su se stessa e mostra in un totale i due protagonisti che si incontrano. Oppure, al contrario, dai due protagonisti in totale con un carrello avanti sino al primo piano della ragazza, cioè un addio; ma anche qui la mdp va oltre il volto, lo supera, le è dietro e in lontananza si vede anche l’altro: entrambi ritornano (rimangono) nel quadro. Perché Wong Kar-Way ama a tal punto i suoi personaggi da volerli tenere insieme più della storia stessa.
Hong Kong Express ci aveva sbalordito, con quelle storie parallele, che solo per un attimo si sfioravano, con quegli sguardi insieme colpevoli e innocenti dei suoi personaggi, persi, naufraghi nel loro mondo, eppure “vivi”, come raramente ci capita di vedere nel cinema di oggi. E Fallen Angels è invece un’illuminazione, una folgorante visione. Seguito ideale del film precedente, o meglio parte integrante eppure diversa, questa volta Kar-Way non sceglie la via dei due episodi vicini eppure separati, due storie ai confini, con gli attimi che si sfiorano. Qui Killer e Agent, Ho, la bionda e Cherry si intrecciano ed intersecano per tutto il film. Le storie non si sfiorano più: si toccano, mescolano, contaminano, quasi inconsapevolmente. Nessun cineasta riesce a dare una idea di narrazione come “flusso” come Wong Kar-Way. Flusso narrativo, flusso esistenziale, flusso visivo. Il film è come un fiume, che scorre ora delicato ora impetuoso per le sue sponde infinite.
La metropoli, i neon notturni, Hong Kong. La città come luogo deputato all’intrecciarsi delle storie, dei percorsi esistenziali delle solitudini. Non ricordiamo un’immagine diurna di Fallen Angels, perché le creature che animano le storie di questo film sono anime notturne, angeli della notte che vagano con le loro disperazioni urbane. Un killer di professione, a cui non piace dover pensare, organizzare, ecc... tutto gli è già organizzato dalla sua donna Agente, che gli confeziona i “pacchetti”, lui deve solo andare lì, fare fuoco e uccidere tutti. Mai si era visto tanto “distacco” emozionale nel descrivere il lavoro di un killer. Non sono corpi che muoiono quelli che egli crivella di colpi di pistola, ma semplici bersagli, il suo non appare un orrendo crimine, ma semplicemente un “lavoro”, come quello di un impiegato, che svolge con estrema cura e precisione. Non è cinismo, mancanza di rispetto per le vite umane. Egli è un killer perché la storia necessita di un personaggio così. E la non-storia d’amore tra Killer e la sua Agente ha senso proprio in un contesto di tale “durezza”, di tale crudeltà di vita quotidiana. Si uccide, si organizzano stragi, ma quel che conta sono i sentimenti che i due protagonisti provano. Mai mescolare il lavoro con i sentimenti, ed è dura quando questo avviene. Killer “abbandona” il suo lavoro e la sua donna Agente, e si perde con una ragazza bionda incontrata per caso.
È curioso questo mescolarsi del lavoro con l’amore. Quello di Wong Kar-Way è “necessariamente” un cinema dei sentimenti, ma i luoghi dove essi si esplicitano sono sempre quelli che passano attraverso il lavoro. Killer e Agent sono soci, Ho invece fa i lavori più strani e diversi, macellaio, gelataio, barbiere, ecc.. e incontra Cherry proprio durante uno di questi suoi lavori. E Cherry è a sua volta persa dietro al suo uomo, che ormai l’ha lasciata per un altra donna. Ed ecco che insieme si mettono alla ricerca di questa Blondie, e questa ricerca per un attimo li unisce, e li mette vicino vicino. Ma più si avvicinano tra loro i personaggi dei film di Kar-Way, più si allontanano definitivamente. Killer e la bionda passano notti insieme in albergo, ma alla fine rimangono sempre due solitudini. Killer torna da Agent solo per morire, e paradossalmente è proprio la ragazza bionda a combinare il loro incontro. Ho e Cherry alla fine si perdono, lei non ha saputo rinunciare al suo primo amore e Ho rimane nel suo mutismo folle, che gli è venuto dopo aver mangiato una confezione di ananas scaduta (se vogliamo è un gioco/rimando al primo episodio di Hong Kong Express, ma in verità tutto il film è un continuo gioco/rimando con i suoi precedenti film, ma mai forzati, mai allusivi, mai autoreferenziali).
Ma quello che realmente conta in queste storie che si incrociano, che si intersecano tra loro è la comunicazione. Che ormai è “deviata”, i corpi utilizzano altri strumenti per comunicare. E i messaggi arrivano attraverso un fax, il telefono, il juke-box, oppure tramite una videocamera. Tutti strumenti in cui la freddezza della comunicazione, teoricamente, dovrebbe prevalere. Eppure, rovesciamento totale, questi strumenti emanano un “calore comunicativo” inusuale. Pensiamo alla canzone nel juke-box che Killer lascia ad Agent (“Forget Him”), per comunicargli il suo abbandono, oppure alle sequenze girate con la videocamera da Ho, che riprende ossessivamente il padre, prima scocciato dal gioco del figlio e poi, di notte, sorpreso a commuoversi di fronte a quelle buffe immagini. Immagini che avranno tutt’altro “sapore” emozionale al momento della morte del padre di Ho. Allora, immediatamente, diventano documento, memoria, qualcosa che ci apparteneva e che oggi non c’è più.
La violenza che circonda le storie parallele del film è solo “ambiente”, è il quadro, la scenografia, il “contorno vitale” delle esistenze dei vari personaggi. Che non sono mai “schematici” o fintamente profondi, ma sono terribilmente dialettici, complessi, ambigui e sfaccettati. Ma soprattutto “vitali”, corpi desideranti alla ricerca di un proprio sogno. Perché in definitiva è questo il cinema di Wong Kar-Way, un tentativo costante, una ricerca continua del desiderio, un lungo rincorrere il proprio sogno (perduto). In questa sua ricerca egli si avvicina a tal punto ai personaggi, con un uso straordinario del grandangolo come categoria espressiva, vicinissimo ai corpi che però ci appaiono lontani, con le loro anime disperate, irraggiungibili, eppure così uguali a noi. “Voglio vedere i personaggi da lontano pur essendo molto vicino a loro” dice Wong Kar-Way, ed esprime qui tutta la concretezza del suo “cinema dei desideri”. Che sono per tutto il film frustrati, inappagati, infranti ma sempre e comunque ricercati, utopicamente e assolutamente voluti. E la ricerca è sempre quella, finale, della felicità. Nel finale Agent è sola in una bar e una rissa le fa da contorno, ma non la scuote dai suoi pensieri. Ho che era parte della rissa ne esce malconcio, ma ottimista, come sempre. Un passaggio in moto, una corsa nel fresco della notte della metropoli. Per lei, per loro, un attimo breve, infinito, di felicità. Questo si che è un cinema “eticamente corretto”!
Federico Chiacchieri, Cineforum n. 354, maggio 1996

Critica (3):

Critica (4):
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
Valid HTML 4.01! Valid CSS! Level A conformance icon, W3C-WAI Web Content Accessibility Guidelines 1.0 data ultima modifica: 09/10/2009
Il simbolo Sito esterno al web comunale indica che il link è esterno al web comunale