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Creature del Cielo - Heavenly Creatures


Regia:Jackson Peter

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Frances Walsh, Peter Jackson; fotografia: Alun Bollinger; musica: Peter Dasent; montaggio: Jamie Selkirk; scenografia: Grand Major; costumi: Ngila Dickson; suono: Michael Hopkins, Greg Bell; miniature: Richard Taylor (superv.); effetti speciali: George Port, Richard Taylor; interpreti: Melanie Lynskey (Pauline Parker), Kate Winslet (Juliet Hulme), Sarah Peirse (Honora), Diana Keni (Hilda), Clive Merrison (Henry), Simor O'Conor (Herbert), Jed Brophy (John/Ni. cholas), Peter Elliott (Bili Perry), Gilber Goldie (dr. Bennett), Geoffrey Heath (rev Norris), Kirsti Ferry (Wendy), Ber Skjellerup (Jonathon), Darien Takhh (Miss Stewart), Elizabeth Moody (Mis; Waller), Liz Mullane (Mrs. Collins); produzione: Jim Booth e Peter Jackson per Wmgnut Films/Fontana Film Prod. The New Zealand Film Commission; distribuzione: Academy Pictures; durata: 99'; origine: Nuova Zelanda, 1994.

Trama:Nel 1954, nella cittadina neozelandese di Christchurch, Pauline Parker, di famiglia popolana, vive un'adolescenza aspra ed inquieta, in scontroso attrito con la madre Honora e priva di rapporti affettivi con i familiari. Ricevuto in dono per Natale un diario, vi si rifugia come ad unica alternativa all'ambiente monotono e deprimente, riservandosi le sue bizzarre fantasie di quindicenne. Iscritta ad una scuola superiore di Christchurch, in cui vige una disciplina di tipo militare e nella quale spadroneggia un corpo insegnante di donne arcigne ed acide, vi conosce Juliet Hulme, un'inglesina benestante, in ritardo con gli studi per motivi di salute, che la colpisce per la sua arroganza provocatoria e con la quale stringe ben presto un'amicizia esclusiva, trovando negli atteggiamenti e nel linguaggio insolente di costei una piena consonanza con il proprio temperamento ribelle ed il completamento della propria indole negata alla comunicazione, chiusa e torva. Il mondo fantasioso di Pauline diventa il mondo di Juliet, un irreale castello medioevale, popolato di guerrieri, principi e principesse, che le due materializzano plasmando statuine di plastilina e facendole protagoniste di storie complicate, che isolano sempre più le due ragazze dalla realtà. L'amicizia assume frattanto toni sempre più devianti ed equivoci: non sopportano di vivere separate, neppure quando Juliet deve andare in sanatorio per qulache mese. E quando l'inglesina sorprende la madre Hilda, impegnata in un rapporto sessuale con uno sconosciuto, e il padre Henry è deciso a lasciarla ed a tornarsene in Inghilterra, la situazione di Juliet si fa sempre più precaria: dovrà riparare in Sudafrica. Tutto congiura per rendere irreversibile l'infatuazione morbosa delle due ragazze, fino al finale truce: poichè le viene negato di seguire l'amica, Pauline va macchinando con lei, fredda e determinata, il cinico tranello per eliminare la madre Honora.

Critica (1):Che un film di Peter Jackson fosse in concorso all'ultimo festival di Venezia era una notizia sorprendente. Che avesse vinto un Leone d'argento, poteva suonare preoccupante. Che l'autore di Bad Taste e di Brain Dead il non plus ultra dell'horror del corpo, pietra tombale del genere splatter si fosse imborghesito, diventando una Campion coi pantaloni (come faceva sospettare la storia di due ragazzine semilesbiche e omicide?) Vedendo finalmente il film, non si può rispondere né sì né no, ma solo manifestare curiosità per la carriera futura di questo regista. Creature del cielo, effettivamente, potrebbe anche essere stato scritto per la Campion, o per qualunque regista neozelandese, di quelli/e che amano i toni esagitati (ormai si assomigliano tutti: Alison MacLean, Lee Tamahori: più arrabbiati e meno leccati degli australiani che andavano di moda quindici anni fa, ma ugualmente pronti a essere assorbiti da Hollywood). Ma Jackson, per fortuna, non rinnega il proprio passato, anche se lo depura iconograficamente. Il risultato è curioso: un film da festival girato con lo stile di un horror, spesso debitore di Sam Raimi, e incurante di cadute iconografiche che non temono il ridicolo. Della storia delle due ragazzine ribelli, vittime del perbenismo e della repressione (non è anche la storia, con qualche cambiamento di sesso, dell'ultimo Tavernier?), francamente non potrebbe importare di meno, nel 1995. Importa, invece, che Jackson, dopo Brain Dead, continui a tornare alla Nuova Zelanda degli anni Cinquanta, periferia dell'impero britannico e brutta copia della madre patria (scuole finto-gotiche, tè alle cinque del pomeriggio), vero luogo horror come una Twin Peaks ready-made. La Nuova Zelanda di Jackson è abitata da mostri, ma al contrario di quelli della Campion, non sono neanche casi umani degni di simpatia e oggetto di lirismo. Con crudeltà sorprendente e genuina sensibilità horror, Jackson comincia e giocare invece sulla repulsione dei corpi. Le sopracciglia inarcate e sagomate di Juliet, la bocca piccola e le guance paffute dì Juliet sono gli emblemi di due personaggi repellenti. Come parteggiare per due esaltate che si ritengono superiori al resto dell'umanità, e vivono in mediocri fantasie popolate da Mario Lanza e da pupazzi di plastilina?
La scelta di Jackson di visualizzare le fantasie delle due ragazze, col regno di Borovnia e i suoi fantocci verdognoli (che a un certo punto di mettono addirittura a simulare un'orgia colossale), è appunto una resa al ridicolo: non la messa in scena delle meraviglie dell'immaginazione, ma della sua mediocrità. Già regista di un film di pupazzi di gusto scatologico (Meat the Feebles), Jackson crea alcune delle sequenze più genuinamente brutte viste nel cinema recente giustapponendo corpi veri ad attori coperti da guaine di gomma: cose che Lucio Fulci non se le immagina neanche. E' un senso di disagio, più che di gioia anarchica, quello che sa trasmettere Jackson, quali che siano le intenzioni di partenza. Se sequenze come quelle di Pauline e Juliet che corrono a braccia aperte imitando gli aeroplani (straviste anche in televisione fin dai giorni del festival) o che si spogliano in mezzo ai boschi riescono a rendere un senso di sregolatezza adolescenziale, il tono si incupisce man mano, e non c'è più gioia in questi due mostri che passano il tempo a odiare il prossimo. Il sesso è sempre sgradevole (l'episodio di Pauline con l'affittacamere) o oggetto di prudenti ellissi (Pauline e Juliet). Da odioso, il personaggio di Honora la madre di Pauline, diventa patetico, anche se Jackson ne mette in scena l'omicidio con una concitazione (e quindi un compiacimento) da horror, a partire dal montaggio a raffica (complicato da un flashforward in seppia - Pauline che va a salutare per l'ultima volta Juliet che parte). I carrelli vorticosi alla Raimi fanno perdere il baricentro alle immagini, tutto ribolle - anche quando la macchina da presa va a sbattere contro il volto corrucciato di Pauline - ma non c'è catarsi né liberazione. Le omicide sono vittime, ancora più antipatiche dei carnefici su cui si vendicano. Il "quarto mondo" color caramello che, grazie alle immagini digitali, si dispiega d'un tratto attorno a loro, è irrimediabilmente cartolinesco. Jackson rappresenta in modo mediocre una coppia di adolescenti maledette e mediocri. Mediocre non perché sciatto o televisivo, ma perché legato a un'iconografia imbarazzante. Il contrario di quanto farebbe qualunque Campion. Jackson crede che siano belle le carrellate vorticose che dedica alle sue anti-eroine? Non sono, a loro modo, altrettanto pacchiane, banali, effettistiche (in inglese c'è un vocabolo difficilmente traducibile per tutto ciò: sleazy) del romanzo scritto dalle due ragazze? Se lo zoom non fosse scomparso dal lessico dei registi degli anni Novanta, Jackson probabilmente lo avrebbe usato. Nel suo piccolo, Peter Jackson ha percorso la stessa strada di Cronenberg e dei fratelli Coen: è diventato un regista rispettabile. Ma sta facendo del suo meglio per non farsi ingabbiare anche lui.
Alberto Pezzotta, SegnoCinema 73, maggio-giugno 1995

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