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My Son, My Son, What Have Ye Done - My Son, My Son, What Have Ye Done


Regia:Herzog Werner

Cast e credits:
Sceneggiatura: Werner Herzog, Herbert Golder; fotografia: Peter Zeitlinger; costumi: Mikel Padilla; interpreti: Michael Shannon (Brad McCullum), Willem Dafoe (Detective Havenhurst), Chloë Sevigny (Ingrid), Udo Kier (Lee Meyers), Grace Zabriskie (Sig.ra McCullum); Brad Dourif (Zio Tim), Michael Peña (Detective Vargas), Irma P. Hall (Sig.ra Roberts), Braden Lynch (Gary), Candice Coke (Agente Slocum); produzione: Industrial Entertainment, Defilm Paper, Street Films; distribuzione: Onemovie; origine: Usa, 2009; durata: 90’.

Trama:Brad MaCallum è un aspirante attore scritturato per recitare in una tragedia greca. Completamente assorbito dal suo personaggio, Brad arriva a commettere anche nella realtà il crimine che è chiamato a compiere sul palcoscenico, ovvero uccidere la propria madre. Dopo il matricidio, Brad si barrica in un edificio insieme ad alcuni ostaggi mentre la polizia, con l'aiuto di alcuni vicini e di amici del ragazzo, cerca di capire quale sia stata la causa scatenante del folle gesto scavando nella vita di madre e figlio...

Critica (1):My Son, My Son, What Have Ye Done? è migliore di Bad Lieutenant. Più ambizioso, più personale, più da Festival. Anche perchè unisce le due anime di Herzog: il cineasta della realtà, sia pure trasfigurata a modo suo (c'e dietro una storia vera), e il regista che si impadronisce del suo nuovo paese, l'America, esplorandola sia in senso geografico che per così dire "mentale" (il film e prodotto da David Lynch e si vede). La struttura e semplicissima: c'e una casa assediata dalla polizia, con dentro un folle che ha trafitto a colpi di spada sua madre (lo straordinario Michael Shannon, gia quasi-Oscar come figlio pazzo in Revolutionary Road). E ci sono i flashback che illustrano, senza chiarirla naturalmente, la sua discesa nella follia. Nessuna suspence, qualche tocco di ironia e un puzzle magistrale che fonde piste diverse. Una psicologica; una 'cronologica'; e una diciamo 'fenomenologica', sicuramente la più cara a Herzog, che alle voci misteriose udite dal folle unisce le suggestioni provenienti dall'esterno, dai grattacieli di San Diego alla giungla peruviana, dall'allevamento di struzzi dello zio ai fenicotteri rosa del giardino della madre. Puro Herzog, a pensarci bene. Come se cambiando paese il regista non cambiasse la sua capacita di trasformare ogni paesaggio in una mappa della nostra psiche e dei suoi più oscuri recessi..
Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 6/9/2009

Critica (2):Un film tira l'altro nello stesso flusso immaginario e si specchia con Abel Ferrara o con David Lynch, più che produttore di My son. Cromatismi messicani, fanta-realismo, magie, alterazioni psichiche, un nano che misteriosamente attraversa il set, distorsioni visive, sogni, delitti... Un po' il (cattivo) tenente Colombo, un po' Twin Peaks, un po' i fratelli Coen con il killer robotico e visionario in missione per conto di Dio, il film si apre su una fiammeggiante San Diego con il taccuino squadernato del detective Willem Dafoe, che da solo basta a suscitare grandi passioni per il caso di un ragazzone suonato, barricato in casa dopo l'assassinio di sua madre. (...) La scatola colorata di My Son assomiglia alle palle di vetro che se le giri piovono neve, variazione hollywoodiana delle avventure herzoghiane in capo al mondo, dall'Alaska al Polo sud. Senza nostalgia, meglio il losangelino Herzog che il muscolare teutonico, adesso sensibile alla pena di morte («non mi sento americano finche ci sarà»), ma dal supereroe di Monaco a quello dei fumetti il passo e lungo.
Mariuccia Ciotta, Il Manifesto, 6 /9/2009

Critica (3):My Son, My Son, What Have Ye Done parte da una storia vera (matricidio a San Diego, California) ma ovviamente non ha nulla di vero: Werner Herzog è pur sempre il regista de L’ignoto spazio profondo, l’illustratore di mondi che si definiscono nello spazio mentale di una visione, nella ricostruzione di scenari che invertono il portato immediato della realtà. E questo suo nuovo film è esattamente l’elaborazione dello spazio mentale del suo protagonista, ruota attorno ad esso come un compasso che fa perno sulle sue ossessioni. Si direbbe la medesima dinamica del suo Cattivo tenente, solo che al delirio pagano del “bad lieutenant” sostituisce la mania religiosa di un giovane uomo; per non dire che qui delle ossessioni di Brad non siamo partecipi (non ci stiamo, non le vediamo), ma le assediamo assieme ai poliziotti e le raccogliamo attraverso le testimonianze di chi gli è stato accanto prima che impugnasse la spada con la quale ha ucciso la madre sotto gli occhi delle vicine di casa; prima che si chiudesse nella sua villetta rosa, dichiarando di avere due ostaggi e costringendo la polizia a un assedio inutile.
Ovviamente non c’è da credere alla detection, ché questo è un film che svela gli eventi senza procedere, con moto concentrico, definendo un preciso raggio d’azione nel quale chiude e rende invisibile il suo protagonista, lasciando che sia il perimetro di chi lo circonda a definire l’area interna… Brad, in sé e per sé, è il perfetto personaggio herzoghiano, l’incarnazione di un bisogno di render sacra e assoluta la propria visione, ma ciò che definisce My Son, My Son… è il rapporto tra il centro e la periferia, il disegnare un universo in cui la verità dei fatti assedia il delirio e l’ossessione di questo moderno Woyzeck. Lo senti che Herzog è interessato a rompere questo disegno, e percepisci anche che sta tracciando una mappa mentale in cui spinge il suo protagonista (il Perù, la Cina, la fattoria dello zio che ha le fattezze “aliene” di Brad Dourif…) per liberarlo dall’assedio di un “cattivo tenente” col volto di Willem Dafoe, che lì fuori sta tracciando le coordinate reali del suo gesto, dimenticando che il punto di fuga è il mito, la tragedia greca: la spada del figlio sul capo della madre… Strana storia questa del poliziotto col volto del figlio di un dio ucciso dal padre (Dafoe, Cristo per Scorsese), che assedia il figlio di un mito che ha ucciso sua madre…
C’è infine da dire che My Son, My Son... porta la firma produttiva di David Lynch, dato questo che ha indotto qualcuno a considerarlo una sottomarca lynchana elaborata da Herzog – come se l’uno avesse davvero bisogno dell’altro per potersi esprimere… Le sospensioni, il senso dell’assurdo nel gioco coi personaggi, le attenzioni astratte nella definizione dello scenario sono solo strumenti che Herzog utilizza per definire proprio quel perimetro che appartiene al fuori scena mentale di Brad, alla sua assenza dal reale.
Massimo Causo, sentieriselvaggi.it, 10/9/2010

Critica (4):
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