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Uomo in uniforme (L') - I Love a Man in Uniform


Regia:Welligton David

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: David Wellington, Walter Donohue; fotografia: David Franco; musica: Ron Sures, The Tragically Hip; montaggio: Susan Shipton; scenografia: John Dondertman; costumi: Beth Pasternak; interpreti: Tom McCamus (Henry Adler), Brigitte Bako (Charlie Warner), Kevin Tighe (Frank), David Hemblen (il padre di Henry), Alex Karzis (Bruce), Graham McPherson (Mr. Pearson); produzione: Paul Brown, per Miracle Picture Prod.; distribuzione: AB Film; origine: Canada, 1993; durata: 97'.

Trama:In un’indefinita metropoli americana Henry Adler fa il Bancario. È un giovane cittadino afflitto da una passione sviscerata per gli abiti e i modi della polizia, tanto che mette in scena davanti allo specchio di casa dialoghi improvvisati di ambiente poliziesco copiati dai serial TV. Viene ingaggiato in uno di essi per la parte di un agente senza macchia e senza paura ma deve rendersi conto ben presto che vita e set coincidono e che non c’è più scampo per lui se continua a tenerli divisi. Accompagnato da un’altra attrice improvvisata, di cui si innamora, tenta di dare sempre maggior lustro a quella “parte”, rispondendo fedelmente agli ordini del regista. Dopo aver subito una rapina nella sua banca, è preso nella spirale della personificazione dell’agente e spara ad un trafficante di droga. Si uccide davanti allaTV con la sua pistola di (finta) ordinanza.

Critica (1):Negli Stati Uniti non è pensabile girare in auto senza identificarsi nel poliziotto di pattuglia che ferma un sospetto e con fare sbrigativo gli urla di mettere le mani sopra la testa. È quanto succede al giovane Henry (Tom McCamus) nel film di David Wellington L’uomo in uniforme. “Metti le mani sopra la testa, stronzo” esordisce il giovane e prosegue il florilegio con parole d’“ordine” della polizia quali “se fai un movimento ti ritrovi con una pallottola nel cervello”. Così a lungo andare quei modi diventano veri, anche se all’inizio il nostro protagonista li vede e stravede alla TV. Quando poi egli stesso girerà un serial in cui inpersona un agente di polizia le cose si complicano. È lì che si impersona nella parte e non può più fare a meno di quei modi ed è lì che diventa un personaggio dell’oleografia dei police cops. Per di più il bell’Henry si innamora sul set di Charlie, l’adorabile, buona prostituta (nel serial), che sembra proprio uscir fuori dalla TV. Cerca anche di liberarla dal mestiere cui è costretta (nel serial) da un giovinastro di non troppo belle speranze. Morale: quando il set diventa vita Henry si ingelosisce e capovolge le cose. Da quel momento la sua vita diventerà un perenne set da serial, uno schermo TV attraverso il quale rivedersi mentre si dice “metti le mani sopra la testa, stronzo”.
David Wellington, canadese, come pure la produzione del film, gioca con la Tv americana (ma siamo lontani da Miami Vice così solare-californiano) e instaura nel film la sua personale finzione e ossessione per gli specchi e la macchina da presa. Nel buffo gioco il personaggio viene sradicato dal “prezioso” mondo dei bancari e catapultato nella trucida realtà di una rapina - proprio nella sua banca - con tanto di bionda esplosiva. Orrore e delizia insieme. Chi nella realtà non sa agire al momento opportuno, con decisione e coraggio, sembra dirci Wellington, ha sempre bisogno di un residuo di finzione per sparare davvero contro il destino avverso e cose del genere. Ma qui non siamo in atmosfera Fritz Lang e il film si snoda sull’intreccio sempre più insondabile tra i due piani della personificazione e della differenza tra set e vita reale.
Tagliente, godibile, a tratti anche inquietante, il film fluisce tra sparatorie finte e primi piani affilati del protagonista e la regìa conduce con alquanta destrezza in porto sia la vicenda triste di Henry, sia quella del suo alter-ego, con la storia di passione per Charlie. Lei dovrà per forza lasciarlo, quando si accorge che le cose sono andate oltre e che Henry “fa” il poliziotto anche nella realtà. Apologo sulla violenza metropolitana, ma soprattutto film sui modi della polizia, L’uomo in uniforme dà l’impressione di trovare la corda giusta, esattamente a metà strada tra la “crudeltà” di un Lusting e i giochini d’immaginario di Kathryn Bigelow. Del resto è un po’ che il cinema più nuovo si industria nella messa in scena dei volti e dei costumi della polizia (vedi Impatto imminente, ove il gioco è rovesciato perché dalla realtà della polizia si passa alla finzione della vita del protagonista). Forse perché il bisogno di ordine e rassicurazione passa anche per la mostra del bieco atteggiamento sadomaso, di cui L’uomo in uniforme poco risparmia.
È una sadismo annacquato certo quello di Wellington, ma c’è, se si fa caso ai rumori fruscianti degli abiti policeman che il personaggio maniacalmente ordina e indossa. Rimangono in mente le lapidarie battute di qualsiasi film poliziesco, quel “tieni le mani dietro la schiena se vuoi ancora sentire quali sono i tuoi diritti” etc., che tradiscono il nostro personaggio, proprio quanto quei motti diventano realtà. Funzionali tutti comprimari, dal sergente di polizia corrotto che porta Henry a fare un giro nel vero inferno cittadino dei bassifondi, ai finti poliziotti sul set ricostruito, nonché Charlie, voce della ragione di Henry che invece l’ha smarrita da tempo. L’atmosfera buia e finta del film contribuisce alla sua speditezza.
Paolo Vernaglione, Segno Cinema n. 68 lug-ago. 1994

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
David Welligton
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