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Muffa - Küf


Regia:Aydin Ali

Cast e credits:
Sceneggiatura: Ali Aydin; fotografia: Murat Tunnel; montaggio: Ahmet Boyacioglu, Ayhan Ergürsel; scenografia: Meral Efe; interpreti: Ercan Kesal (Basri), Muhammet Uzuner (Murat), Tansu Biçer (Cemil); produzione: Motiva Film-Yeni Sinemacilar, in coproduzione con Beleza Film; distribuzione: Sacher; origine: Turchia-Germania, 2012; durata: 94’.

Trama:Il 55enne Basri lavora duramente come guardiano delle ferrovie e quotidianamente controlla a piedi chilometri di binari. Tuttavia, il suo pensiero fisso è il ritrovamento del figlio Seyfi, scomparso misteriosamente diciotto anni prima, quando studiava all'università di Istanbul e venne fermato dalla polizia per le sue opinioni politiche...

Critica (1):La muffa è un segno di decomposizione e di marcescenza. Solitamente si forma sulle cose vecchie, in ambienti chiusi ed è un indizio che rivela che qualcosa non va, che manca la ventilazione, che l'esposizione solare è troppo scarsa, che non ci è presi cura del luogo, degli oggetti, di chi ci vive. La metafora racchiusa nel titolo dell'opera prima di Aydin è particolarmente efficace nel cogliere la condizione della Turchia di oggi, così come è stata suggerita anche da altri cineasti (dall' Ömer Kavur di Hotel Madrepatria del 1987 all'Özcan Alper di Sonbahar del 2007): un universo sospeso nel tempo, chiuso, privo di orizzonti, in cui non ci si può che sentire spaesati, fuori posto.
Basri è un uomo di cinquantacinque anni che di mestiere controlla ogni giorno chilometri di binari. Schivo e silenzioso, è appesantito dalla tristezza di un dolore senza fine. Abita da solo in una povera casa isolata in un villaggio di montagna e mantiene contatto con il mondo ascoltando i notiziari con una vecchia radio di fabbricazione sovietica. Ma di fatto si tiene distante dalla realtà. Ogni quindici giorni invia una lettera al commissariato di polizia per chiedere notizie del figlio, studente all'università di Istanbul, scomparso misteriosamente. Quando raggiunse anni prima la città con la moglie, gli fu detto semplicemente che il figlio era un ribelle antigovernativo di cui si erano perse le tracce. La sua testardaggine si è trasformata in un'attesa che è l'unica risorsa che gli permette di sopravvivere. Conserva gelosamente il segreto di soffrire di epilessia e, quando viene scoperto, realizza la vergogna della propria fragilità e affronta un collega più giovane, ubriacone, attaccabrighe e lo lascia morire. Il nuovo ispettore di polizia lo cerca dapprima a casa per convincerlo che le sue lettere non otterranno mai risposta. Ma Basri non demorde. Allora lo convoca e lo affronta (un lungo straordinario piano sequenza a camera fissa di circa quattordici minuti che arricchisce di sfumature e di verità personale il confronto): seduti uno di fronte all'altro agli estremi di un grande tavolo illuminato non fiocamente solo al centro, i due si scrutano, si studiano, misurano parole e silenzi. L'ispettore decide di occuparsi della faccenda. Rintraccia una sbiadita e consunta carta d'identità del figlio del ferroviere e gli consegna un documento per il ritiro di quanto rimasto di lui. L'attesa è finita, anche l'ultimo motivo che aveva permesso di sostenere le fatiche quotidiane aspettando un altro giorno si è estinto, la solitudine è ancor più esasperata dal senso di colpa.
Aydin, con una notevole qualità e omogeneità stilistica, sviluppa senza smagliature una vicenda che è parte integrante espressivamente degli ambienti, sempre ripresi con tagli che schiacciano gli interni, o come fossero magazzini o scantinati, o annullando negli esterni ogni orizzonte, ogni sensazione della presenza di una via di fuga. I personaggi si incontrano sempre controvoglia, mantenendo una distanza che diviene incolmabile; sono i rumori, le luci fioche, il buio, le scansioni di parole essenziali dure come fossero cose a esprimere con forza l'oscurità, il vuoto, tutte le muffe opprimenti che la Storia con i suoi eventi ha prodotto nelle vicende di ognuno. Il ritmo narrativo disteso, con silenzi e movimenti misurati per riflettere la stanchezza e il disorientamento dei vari personaggi, accompagna alla scoperta di una infelicità che pare il clima esistenziale latente di un intero mondo.
Gianluigi Bozza, Cineforum n. 518, 10/2012

Critica (2):Muffa, quella patina che cresce sottile ma implacabile, che divora lentamente le cose e i luoghi sgretolandoli o risucchiandoli in un'invisibilità. Ed è lungo i contorni di questa «invisibilità» coatta che Ali Aydin costruisce il suo film, premio De Laurentis per la migliore opera prima all'ultima Mostra del cinema di Venezia (era nella selezione della Settimana della critica), e ora in sala con la Sacher di Nanni Moretti. Un film duro, e dichiaratamente politico, quello del trentenne regista turco, a cominciare dalle scelte narrative e di regia che rifiutano le opposizioni più evidenti del cosiddetto cinema «Impegnato» per scavare invece nel profondo di una violenza celata e permeante.
La «muffa» del titolo sembra esprimere il senso della vita di Basri, ricoperta negli anni dall'involucro costante dall'ingiustizia, e costretta a un quotidiano di uguale ritualità. Guardiano dei binari, l'uomo ormai anziano percorre ogni giorno decine di kilometri lungo la vecchia ferrovia periferica in Anatolia, solitario, silenzioso, costretto a subire le minacce di un collega più giovane e arrogante. E, soprattutto, i controlli della polizia che gli arriva in casa con puntuale tracotanza. Il figlio di Basri è scomparso diciotto anni prima, era un militante nell'opposizione al governo turco, lo hanno arrestato a Istanbul durante una manifestazione senza dare alcuna spiegazione. Di lui Basri non ha più saputo nulla, la moglie è morta dopo qualche anno per il dolore, mentre Basri ogni mese continua da allora a scrivere lettere al ministero dell'interno e al questore. Per questo lo hanno spesso arrestato, torturato, e messo ai margini lasciando che il silenzio, come appunto una sorta di muffa, ricopra la sua rivendicazione. Un giorno arriva un nuovo questore, che, colpito dall'uomo e da questa sua disperata resistenza, decide di rivelargli la verità .
Tra i riferimenti della storia, di cui Aydin è anche lo sceneggiatore, ci sono le «Cumartesi Annelari», le madri del sabato che in Turchia ogni settimana manifestano chiedendo al governo di rivelare loro la verità sui loro figli o mariti scomparsi, anche se l'universo del film è tutto maschile, un confronto quasi «western» tra uomini che incarnano un modo di essere al mondo.
Però il passato del protagonista non è mai posto in evidenza, affiora invece lentamente, nei frammenti della sua vita, e negli scontri con l'esterno che punteggiano la sua esistenza. La politicità dunque non viene rivendicata dal soggetto ma da una messinscena che ne racchiude la sostanza. La scommessa del regista si gioca sulle persone e sulle cose, i paesaggi taglienti e gli interni opachi degli uffici con la loro burocrazia, la sospensione tra le mura domestiche, quelle di Basri, del tempo in attesa di poter rimetterlo in moto col diritto al lutto. Il corpo del figlio scomparso, inghiottito anch'esso dalla muffa che impedisce la memoria, la giustizia, il sacrosanto lutto.
L'occhio di Aydin, che tra i suoi riferimento cita anche Dostojevski col suo bagaglio letterario di umiliati e di idioti, è lucido e sicuro, sa scavare nelle pieghe liberando in ogni immagine insieme a un vero talento da regista, la potenza emozionale della sua storia, cupa e anche avvicente, tesissima sul filo di una visualità che diventa suspence. E che ci mostra un immaginario e un paese, la Turchia, fuori da ogni luogo comune, profondamente radicati in un presente (e in un passato) irrisolti.
Cristina Piccino, il manifesto, 1/5/2013

Critica (3):

Critica (4):
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