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Senza lasciare traccia


Regia:Cappai Gianclaudio

Cast e credits:
Soggetto: Gianclaudio Cappai, Lea Tafuri; sceneggiatura: Gianclaudio Cappai, Lea Tafuri; fotografia: Fabio Paolucci; musiche: Teho Teardo; montaggio: Alessio Doglione; scenografia: Alessandro Bertozzi; costumi: Sandra Cianci; effetti: Ercole Cosmi; suono: Carlo Missidenti Riccardo Spagnol, Roberto Cappannelli; interpreti: Michele Riondino (Bruno), Valentina Cervi (Elena), Elena Radonicich (Vera), Vitaliano Trevisan (Giulio), Giordano De Plano (fuochista), Fabrizio Ferracane (ufficiale giudiziario), Luciano Curreli (proprietario canile); produzione: Massimo Ruggini, Lea Tafuri, Gianclaudio Cappai per Hirafilm; distribuzione: Hirafilm e Il Monello Film; origine: Italia, 2016; durata: 93'.

Trama:Bruno ha cercato di dimenticare un passato di cui porta i segni sulla pelle e dentro di sé, nella malattia che lo consuma lentamente: di quel passato non ha mai parlato con nessuno, neanche con la sua compagna. Fino a quando Bruno non ha l'occasione di tornare nel luogo dove tutto è cominciato: una fornace ormai abbandonata, diventata il rifugio di un uomo e della figlia. Nessuno dei due riconosce quell'intruso, né immagina le sue intenzioni. Per guarire, Bruno deve trovare un colpevole, guardare in faccia l'origine del suo male. Cercare tracce, cancellarle, per tentare di fermare l'intruso che è in lui.

Critica (1):Il passato non ci abbandona e basta pochissimo per farlo tornare a visitarci. Nel film di Gianclaudio Cappai in realtà, la traccia il passato l'ha lasciata e anche pesante; Bruno (Michele Riondino) è segnato nell'anima e nel fisico e l'occasione di tornare nel suo paese di nascita scatena la voglia di chiudere il conto.
In parallelo a questa ricerca di riparazione c'è il restauro di un quadro che la sua compagna Elena (Valentina Cervi) deve compiere proprio in quel paese, all'oscuro delle vicende dell'infanzia di Bruno. Mentre la pulizia del dipinto procede, in aperta campagna una fattoria con fornace annessa è il teatro dell'operazione di chiarezza che il personaggio interpretato da Michele Riondino cerca di mettere in opera, ritrovando la situazione lasciata quando era un bambino.
Personaggi fondamentali sono Giulio e Vera, interpretati da Vitaliano Trevisan, cupo e rassegnato uomo di campagna alle prese con una grave crisi finanziaria ed Elena Radonicich sua figlia, sfuggente e segnata da una curiosità che potrebbe essere maniacale.
Il film di Cappai, scritto con Lea Tafuri, entra nei personaggi senza invaderne la personalità e lasciando intendere con delicatezza eventi e situazioni che possono essere la causa dei loro disagi. La fotografia, diretta da Fabio Paolucci, appare vera e ruvida come i colori sofferti della campagna d'autunno e descrive con precisione il tormento che oscura il volto e il corpo del protagonista.
Stefano Amadio, cinemaitaliano.it, 11/04/2016

Critica (2):Bruno, sofferente e squarciato sul ventre, è Michele Riondino. Giovane marito, si è ammalato di rabbia compressa, tanto gravemente da non sapere quanto gli resti da vivere. Da piccolo è stato vittima di abusi, e, per un caso che la vita inaspettatamente gli offre, decide di affrontare il suo mostro. Parte per accompagnare la moglie Elena, un’inappuntabile Valentina Cervi, a occuparsi di un restauro di un dipinto a lei molto caro, in un luogo che lui conosce bene, avendoci trascorso l’infanzia. Così, mentre lei è incomprensibilmente ignara di fronte a tanto male e distrattamente impegnata dinanzi a vernici e pennelli, lui va nella tenuta di campagna dove tutto è accaduto anni prima, dove ogni cosa è rimasta com’era e il tempo, che ha camuffato i volti e gli aspetti, sembra sospeso nella morbosità di un amore filiale tra Giulio, un enigmatico Vitaliano Trevisan e Vera, interpretata da Elena Radonicich. Bussa alla loro porta inventando di avere l’auto in panne e comincia ad attuare il suo diabolico piano, lanciando ogni tanto qualche allusione al passato.
“La sento ancora qui dentro, la malattia, che cresce. Come un intruso”.
“Un intruso?”
“Sì un intruso, che potrebbe entrarti in casa, da un momento all’altro, senza che tu te ne accorga, avvicinarsi mentre dormi. Ti potrebbe infilare una mano nel petto e strapparti gli organi senza lasciare traccia”.
Con questo ritmo incalzante e noir, Bruno finge di volerli aiutare acquistando la proprietà e si fa portare all’interno della fornace per verificare che funzioni. Qui, in balìa di un sadico desiderio di vendetta, lega padre e figlia e li consegna alle fiamme. Ma il rimorso prevale, la forza della vita lo richiama, facendolo tornare sui suoi passi.
(…) Senza lasciare traccia è un’opera prima profonda e dura, che catapulta nel roboante fuoco di una fornace dove cuociono mattoni, metafora della fiamma viva dei ricordi, spesso dolorosi, sepolti dentro ognuno di noi. La tensione da thriller psicologico, la libertà registica e la buona sceneggiatura, che lascia in bocca solo qualche incertezza narrativa, compongono un racconto di 91 minuti, carico di suspense, dal quale si spera di uscire illesi, aggrappati alla forza dell’arte e della musica e alle potenti interpretazioni dei protagonisti.
All’inizio si prova a combattere: con i ricordi sepolti, con l’infanzia protetta, con le convincenti motivazioni sulla propria futura cremazione. Ma, poi, si soccombe e ci si arrende, realizzando che ognuno può salvarsi soltanto da solo. Per questo motivo il film di Gianclaudio Cappai ha la forza di un appello e la serietà che solo i bambini conservano nel difendere a tutti i costi la verità. (…)
Ivana Porcini, Artribune, 20.4.2016

Critica (3):Malato di cancro, Bruno (Michele Riondino) decide di seguire la fidanzata (Valentina Cervi), impegnata in un trasferimento dovuto al suo lavoro di restauratrice. Non è però l'amore a spingere l'uomo, quanto una misteriosa necessità che ha a che fare con un passato non del tutto dimenticato. Durante una sosta in campagna apparentemente casuale, finirà in un casolare abitato da un padre e una figlia (Vitaliano Trevisan e Elena Radonicich). Sarà l'occasione per una inaspettata resa dei conti, con cui Bruno è convinto di liberarsi anche della malattia del presente.
Il regista Gianclaudio Cappai, che qui esordisce nel lungometraggio, ha all'attivo un cortometraggio che ha vinto vari premi, Purché lo senta sepolto (2006), e un mediometraggio presentato al festival di Venezia, So che c'è un uomo (2009). Tutti e tre i lavori hanno in comune un'ambientazione brontiana, brulla ma lirica, in cui si avverte una tensione fra una natura aspra eppure apparentemente placida e tutta una serie di vibrazioni sotterranee, fornite dal vissuto dei pochi personaggi che abitano queste terre desolate. I tre film possono dunque essere considerati l'uno lo sviluppo dell'altro, in un percorso sicuramente di grande coerenza.
Con questo Senza lasciare traccia il regista affronta la sfida di un racconto più disteso, senza però voler rinunciare al suo carattere espressivo introverso, ermetico, quasi autistico. In totale contravvenzione con le mode del momento, che sembrano voler imporre un cinema al contrario sempre più strettamente narrativo. Dal punto di vista drammaturgico, la sceneggiatura scritta dallo stesso regista insieme a Lea Tafuri accosta alcuni elementi eterogenei in modo molto suggestivo. Abbiamo un'indagine, una regressione nella memoria e una situazione cechoviana in cui un padre e una figlia devono liberarsi di un terreno che costituisce un peso evidentemente non solo economico, ma anche esistenziale. Nel passato dei tre c'è d'altronde una storia di abusi mai del tutto risolta e chiarita. Il risultato è una sorta di thriller dell'anima, che per il suo modo azzardato ma affascinante di intersecare il piano antropologico e sociale con quello tragico e soprattutto quello psicanalitico, rievoca vagamente l'opera di un regista altrettanto oscuro e ingiustamente dimenticato, Giulio Questi, attivo negli anni Sessanta e Settanta.
Lo stile registico di Cappai però è molto personale, e riesce a coniugare un montaggio brusco come l'universo che descrive con un uso dell'inquadratura e dei movimenti di macchina che viceversa danno stabilità al racconto. Il quale rimane affidato soprattutto proprio alla forza visionaria della regia, procedendo dunque a sbalzi, e seguendo l'istinto del momento. Ciò che riesce meglio al regista sardo è la descrizione di una violenza ritualistica che per il protagonista diventa una sorta di cerimonia pagana con cui spera di liberarsi anche della malattia. La violenza però, significativamente, non verrà portata alle estreme conseguenze, anche perché la memoria in parte è stata ingannevole. E in questo gesto di rinuncia, molto più cristiano che pagano, il protagonista troverà forse la tanto anelata catarsi. La malattia del corpo probabilmente non verrà curata, ma quella interiore sì.
Alla fine del film la sensazione è che non tutto il potenziale drammaturgico sia stato sviluppato. Cappai, con la sua reticenza, rischia infatti di essere sin troppo introverso e di soffocare un po' le emozioni. Mentre in altri momenti cede alla tentazione di compensare l'ermetismo con un simbolismo al contrario un po' didascalico (la figura salvifica della fidanzata restauratrice). Così come la direzione degli attori benché sia un elemento secondario in un cinema come questo poteva essere meno trascurata, anche perché gli interpreti hanno tutti la giusta presenza, a partire da un tormentato Riondino, visto di recente in prodotti ben più leggeri come Il giovane Montalbano televisivo. Ciò che più conta, però, è che il lavoro di Cappai ha personalità, e lascia nella memoria dello spettatore singole immagini di primordiale potenza, prima fra tutte la fornace in cui i protagonisti decidono i loro destini. E più in generale, quella di una realtà umana inquietantemente marginale e in gran parte imperscrutabile.
Emilio Ranzato, L'Osservatore Romano, 28/4/2016

Critica (4):La scansione ruvida degli eventi che ci legano all’infanzia, i vissuti come fossero carta vetrata su cui graffiare la realtà del mondo adulto. E in più l’idea di una corrispondenza tra le cicatrici interiori e le ferite del corpo, i mali che attanagliano i nostri organi vitali. Senza lasciare traccia, opera prima di Gianclaudio Cappai, è un film scritto su questa dimensione rabbiosa della verità, che cerca una reazione piuttosto che una ragione: non facile, scostante e introflesso, sia nella tensione emotiva che cerca e produce, sia nella definizione narrativa dei personaggi, prettamente dimensionati sulla loro funzione rabbiosa, prima ancora che sulla loro linea drammaturgica. Ma va bene anche così, già troppi ne abbiamo di film che scrivono col compasso i personaggi: Cappai preferisce buttarli in scena come fossero galli da combattimento, un po’ ottusi nella loro determinazione ad agire, eppure sanguinanti nelle ferite che si procurano e ci offrono. Bruno (Michele Riondino), il protagonista, sta lottando con un cancro che lo consuma non meno di quanto faccia la memoria di una violenza subita in infanzia, di cui porta le tracce nell’ustione che sfregia la sua spalla destra. L’ombra è un vissuto di rancore, che la quotidianità della vita adulta, di uomo sposato, ricopre senza dare spazio alla riconciliazione con quel se stesso bambino che, nell’infanzia trascorsa ai margini di una fornace, era inciampato nelle torbide attenzioni di un fuochista seguendo l’attrazione per la compagna di giochi Vera. L’evento è il riflesso oscuro di uno specchio in cui Bruno si riflette ancora e dove non cessa di rivedere la sua vita, compreso il male contro il quale sta combattendo. Così, quando la moglie Elena (Valentina Cervi), restauratrice, accetta un lavoro proprio nel paese della sua infanzia, per Bruno è inevitabile seguirla: tornare, ritrovare, rivivere, rimarginare sono le tracce che decide di seguire segretamente, per rettificare una memoria che non gli dà tregua. E ritrova la fornace, ritrova Vera (Elena Radonicich) sbattuta ma non sfiorita, stretta a quel luogo e al padre Giulio (Vitaliano Trevisan): i due combattono, a loro volta, con un loro cancro, quello dei debiti che si stanno mangiando la fornace.
Il tempo trascorso maschera Bruno e gli permette di introdursi in casa di Vera e Giulio come uno sconosciuto, innescando un gioco lento in cui il malessere è l’unica vera regola alla quale si attiene Cappai. Il film instilla amarezza nella tensione che produce in scena, cerca e ottiene dai suoi personaggi una furia interiore che non ha nulla di razionale e risponde a una ragione del filmare che è tenacemente aggressiva, fisica, intransigente nella sua pregnanza emotiva tanto quanto lontana da evoluzioni psicologiche. In questo Gianclaudio Cappai lascia persino che il film soffra nella sua dimensione drammatica, non si preoccupa di dare delle coordinate plausibili alle relazioni, preferendo che tutto sia gestito dalla furia del fuoco riacceso nella fornace. Senza lasciare traccia vibra così di una pulsionalità pura, naturale, senza remore, che divora i personaggi e li lascia sconfitti nella loro mancanza di pietà. La grana della fotografia di Fabio Paolucci, esaltata dalla scelta di girare in Super16 mm, è scorticata come i corpi, i fumi che esalano dalla fornace intossicano la tensione psicologica, rendendola meramente primaria: rabbia, rancore, violenza c’era già molto in So che c’è un uomo (Venezia 2009) e anche in Purché lo senta sepolto (Torino 2006), i due corti realizzati dal regista cagliaritano. Cappai non rinuncia a immergersi nella tensione, preferisce usarla invece di gestirla, anche a costo di non governare sino in fondo un film che non è certo esente da rischi e da difetti. Del resto l’elemento meno convincente del film, perché il più incongruo, è il versante che vorrebbe essere integrato, razionale: il controcampo offerto dalla figura della moglie, Elena, didascalica nella sua funzione di restauratrice, donna che ripara il danno alla quale Cappai consegna il finale nella sua oscurità, nella sua non dichiarata né mostrata violenza definitiva.
Massimo Causo, duels.it, 3/5/2016
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