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Profeta (Il) - Prophète (Un)


Regia:Audiard Jacques

Cast e credits:
Soggetto: Abdel Raouf Dafri; sceneggiatura: Abdel Raouf Dafri, Nicolas Peufaillit, Jacques Audiard, Thomas Bidegain; fotografia: Stéphane Fontaine; musiche: Alexandre Desplat; montaggio: Juliette Welfling; scenografia: Michel Barthélémy; costumi: Virginie Montel; interpreti: Tahar Rahim (Malik El Djebena), Niels Arestrup (César Luciani), Adel Bencherif (Ryad), Jean-Philippe Ricci (Vettorri), Hichem Yacoubi (Reyeb), Antoine Basler (Pilicci), Leïla Bekhti (Djamila), Pierre Leccia (Sampierro), Foued Nassah (Antaro), Jean-Emmanuel Pagni (Santi), Frédéric Graziani (direttore del carcere), Slimane Dazi (Lattrache); produzione: Why Not Productions-Chic Films-Page 114-Bim-France 2 Cinéma-Ugc Image; distribuzione: Bim; origine: Francia, 2009; durata: 149’.

Trama:Il 19enne Malik El Djebena viene condannato a sei anni di prigione. Giovane e fragile, ma estremamente intelligente nonostante sia analfabeta, Malik inizia a svolgere 'missioni' per un gruppo di detenuti corsi che ha imposto la propria legge all'interno dell'istituto penale. Con il passare del tempo, il ragazzo si guadagna la loro completa fiducia riuscendo ben presto a sfruttare la situazione a proprio vantaggio.

Critica (1):«Sarebbe una banalità dire che la vita è una prigione. Ma che la prigione sia metafora della vita è evidente: quello che impari dentro, lo utilizzi fuori». Sorride Jacques Audiard dopo aver passato l'esame di una Cannes finora sonnolenta in concorso. Il suo Un prophète (...) è un film ad orologeria, una bella prova di regia, fotografia e scrittura - per parole e immagini- che ha entusiasmato molti critici con i suoi 150 minuti di grande cinema. E lui, il "profeta" del cinema di genere francese, autore di Sulle mie labbra e, soprattutto, del remake di Fingers di James Toback, Tutti i battiti del mio cuore, sa di aver fatto centro con la sua pellicola più bella, matura, completa. «Avevo due grandi nemici: il rischio di uno stile troppo documentaristico e il prison drama all'americana, che con i suoi stereotipi ha segnato questo genere nell'immaginario collettivo». Li sconfigge tutti e due, scrivendo il suo Romanzo criminale tra le quattro mura e le mille porte di un carcere interamente ricostruito sul set, una sorta di stato indipendente in cui le regole le decide il vecchio e paternamente crudele Cesar Luciani (un Niels Arestrup in gran forma), boss della criminalità organizzata corsa che continua a tenere le fila del suo impero anche da dietro le sbarre. Un boss di scorta, l'imperatore è fuori e sempre elegante, e lui, pur servendolo fedelmente in carcere, briga per poterlo spodestare. In questa lotta di potere e sopravvivenza si inserisce Malik (Tahar Rahim, versione maghrebina dell'attore feticcio del cineasta Romani Duris e gran bella scoperta), franco- arabo che a 19 anni finisce in cella per scontarne sei. La sua colpa, non ben identificata, sembra essere un piccolo reato aggravato dall'aver aggredito un poliziotto. Una vittima del sistema, un perdente che al primo approccio con la detenzione si trova incastrato in un ricatto più grande di lui, costretto a uccidere per conto terzi e per non morire. Da qui parte la cavalcata di Audiard e del suo protagonista in una vita infame, in cui questo ragazzo che conserva una perversa innocenza nel sorriso e negli affetti, si fa sempre più efferato e cinico. Intelligente e intraprendente guadagna la fiducia del capo, sarà il suo "postino" nelle giornate di permesso ottenute per buona condotta. Scende agli inferi accompagnato dalla sua prima vittima, che lo ha messo, facendosi ammazzare, sulla cattiva strada e contemporaneamente gli ha indicato anche quella buona, imparare a leggere e scrivere. Audiard piace perché non c'è nulla di etico e moralista nel suo cinema (basta guardare il finale in parata, ironicamente trionfale), si limita a raccontare una storia con una completezza visiva e narrativa che rende la lunga durata assolutamente necessaria, evita gli stereotipi e cerca gli archetipi. E, pregio grande nel nostro cinema assopito, se ne frega del politicamente corretto. «Mi sono documentato e attenuto ai dati sulla popolazione carceraria. Non ho nulla, ovviamente, contro corsi e arabi ». Noir, gangster movie, film carcerario, opera intimista e sociale (vedi i ritratti appena accennati ma illuminanti del "mondo fuori"), è un puzzle che si compone con lenta e puntuale precisione. Tra Scorsese e Gabin, il regista francese, che già molti vedono lanciato verso un premio importante, ci regala un film di altissimo livello e che col tempo lieviterà nella coscienza di spettatori e critici.
Boris Sollazzo, Liberazione, 17/5/2009

Critica (2):Primo film francese in concorso qui a Cannes e primo fragoroso applauso alla proiezione per la stampa (anche se con qualche ostinato ululato di disapprovazione) per questo romanzo di iniziazione carceraria diretto da Jacques Audiard, che ha come protagonista il disorientato diciannovenne dalle evidenti origini arabe Malik. Perché si intitola Un prophète (Un profeta) lo si capisce dopo quasi due ore di proiezione (in totale il film ne dura due e mezza), quando Malik sembra prevedere l' investimento tra un cervo e l' auto su cui viaggia, ma questo è forse l' unico punto debole di un film teso, compatto e angosciosissimo nel descrivere l' involuzione del suo protagonista da occasionale manovale del crimine a astuto e determinato boss. Quando Malik entra in carcere, nella prima scena, Audiard non si preoccupa di farci conoscere le colpe o i soprusi che ha subito (intuibili dai segni che porta ancora evidenti sul corpo). Fedele a uno stile nervoso e minimalista (che aveva già dimostrato di controllare alla perfezione nei precedenti Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore), Audiard ci fa arrivare le informazioni essenziali, che Malik non ha famiglia, praticamente non sa leggere né scrivere e che nessuno sembra preoccuparsi per lui. Un «cane perduto senza collare» si sarebbe detto in un altro, più caritatevole contesto. Invece nel carcere diventa solo l'oggetto passivo o attivo della violenza che guida i comportamenti di tutti. «O uccidi un detenuto disposto a collaborare con la polizia o io uccido te», gli dice senza tante perifrasi Cesar Luciani, boss corso che sembra fare il bello e il cattivo tempo tra carcerati e carcerieri. E Malik fa l' unica scelta che gli permette di sopravvivere: ubbidisce. Inizia così una specie di «iniziazione alla malavita» che Audiard racconta con una macchina da presa molto mobile, che incombe su Malik un po’ come sembra incombergli addosso un destino che lo vorrebbe ridurre a ingranaggio di un gioco più grande di lui e che lui cerca di orientare a proprio favore. Man mano che il film procede prendono forma altre dinamiche importanti della vita in carcere, dalla possibilità di svolgere anche lì attività illegali (come lo spaccio di droga) all' intreccio tra orgoglio razziale, appartenenza ideologica (i «fratelli» arabi) e lotta per la supremazia. Ma su tutto al regista interessa raccontare l' evoluzione molto darwiniana del suo protagonista, che giorno dopo giorno imparerà a stare sempre meglio a galla. Senza vere radici né di clan né di razza, nonostante le sue evidenti origini arabe, il protagonista cerca di barcamenarsi tra tutti, subendone gli scoppi di violenza e ogni volta facendo un passo avanti nella comprensione dei rapporti di potere e delle molle che li guidano. Pronto a fare il «figlio» per un padre/boss che forse ne sottovaluta l' intelligenza e capace di trasformarsi lui stesso in «padrone» quando il risultato può fargli comodo. Oltre che a elaborare nel proprio inconscio gli incubi e i sensi di colpa così da poterci tranquillamente convivere, come mostrano alcune scene «fantastiche». E alla fine, anche grazie a un gruppo di attori straordinari dove svettano Niels Arestrup (è Luciani) e il meno conosciuto ma non meno efficace di Tahar Rahim (Malik), Audiard ci racconta non solo la nascita di un nuovo Mackie Messer (come sottolinea esplicitamente la musica finale) ma soprattutto l' universo senza speranza che si annida dentro il mondo delle carceri, dove si impara solo a essere più violenti e più avidi di quanto non si fosse prima di entrare.
Paolo Mereghetti, Il Corriere della Sera, 17/5/2009

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