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Miserere - Oiktos


Regia:Makridis Babis

Cast e credits:
Sceneggiatura: Efthymis Filippou, Babis Makridis; fotografia: Konstantinos Koukoulios; musiche: Mikolaj Trzaska; montaggio: Yannis Chalkiadakis; scenografia: Anna Georgiadou; costumi: Dimitris Papathomas; suono: Stefanos Efthymiou, Leandros Ntounis, Kacper Habisiak, Marcin KasińśKi; interpreti: Yannis Drakopoulos (avvocato), Evi Saoulidou (moglie), Nota Tserniafski (sorella), Makis Papadimitriou (proprietario del lavasecco), Georgina Chryskioti (vicina di casa), Evdoxia Androulidak (segretaria), Nikos Karathanos (fratello), Panagiotis Tassoulis, Costas Xykominos, Kostas Kotoulas, Marissa Triantafyllìdou, Victor Arditis; produzione: Neda Film, Faliro House, Madants, Beben Films, in coproduzione con Onassis Foundation, Ert, Greek Film Center, Studio Produkcyjne Orka, Film Produkcja, Foss; distribuzione: Tycoon Distribution; origine: Grecia-Polonia, 2019; durata: 99’.

Trama:Un avvocato di successo, che deve accudire la moglie in coma in seguito ad un incidente stradale, è gratificato dalle numerose testimonianze di affetto e compassione da parte di tutti coloro che lo frequentano. Quando però, inaspettatamente la moglie uscirà dal coma e tornerà a casa, egli si troverà del tutto spiazzato e cercherà a modo suo di riconquistarsi la compassione, che gli è venuta a mancare… La storia di un uomo felice solamente quando si sente consolato per la propria infelicità, dipendente a tal punto dalla pietà da sentire il bisogno profondo di evocarla negli altri. Ad ogni costo…

Critica (1):“Molti pianti nei film sembrano falsi, perché gli attori non piangono davvero e il pianto è la cosa più difficile da fingere”. Siamo circa a metà del film, durante una partita a carte tra amici, quando l’avvocato protagonista di Miserere (titolo internazionale Pity), impersonato da Yannis Drakopoulos svela, con un trucco meta-cinematografico, tutto l’impianto costruttivo del lungometraggio di Babis Makridis stesso. Ciò su cui si regge Miserere è infatti il costante sfasamento tra realtà e finzione, tra reazione vera e reazione recitata.
L’avvocato, la cui moglie è di recente entrata in coma, piange spesso, del resto. Piange fin dalla scena di apertura. Eppure il suo pianto sembra sempre forzato, cosa che lascia nello spettatore uno stato di disagio. Che sia dovuto a quello svelamento di cui sopra? Che la causa sia l’impossibilità dell’attore di rendere naturalmente, senza la percezione di un’ostentazione e di una “fatica”, l’atto di piangere? O è forse l’avvocato stesso (personaggio e non attore, dunque) a fingere? Per l’uomo, d’altronde, sedere sul letto tra singhiozzi e lacrime, con lo sguardo rivolto a un meraviglioso paesaggio marittimo, sembra essere quasi un rituale. Attraverso il dolore, o l’esternazione – anche falsata – dello stesso, ritrova se stesso, al punto tale che, nel momento in cui chi lo circonda comincerà ad avere un occhio di riguardo per la sua situazione e il suo momento di fragilità, gli diverrà impossibile liberarsi di quella condizione.
Chi è lui, senza la sofferenza interiore, senza la pietà degli altri? Laddove la pietà è intesa come empatia, anche se spesso, ancora una volta falsata, ostentata, ritenuta obbligata per condizionamento sociale, perché “così è giusto fare”, ma, come sottolinea una delle scritte su fondo nero in apertura, altrettanto difficile da replicare di un pianto stesso. È tra i “non so che dire” e i “coraggio, passerà” di circostanza, allora, che l’uomo crea la sua comfort zone, al punto da non riuscire più a provare gioia, ma neppure, di rovescio, empatia per il prossimo. Emblematico il suo approccio al caso di omicidio a cui sta lavorando: le arringhe che prepara sembrano tutte, inconsciamente, giustificare se stesso.
Il risultato finale è quello di rimanere intrappolato nella condizione di un “male che sembra fare del bene”, fingendo prima che la guarigione della moglie non sia mai avvenuta, e arrivando poi, più oltre ancora – in una chiusa che ricorda molto da vicino Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman – a spingere se stesso al gesto estremo, che lo confinerà irrimediabilmente e in eterno in uno stato di sofferenza.
Un dramma grottesco e ridicolo di un uomo affezionato al dolore e destinato a null’altro che ad esso, allora, quello di Miserere (il cui titolo gioca sull’omonimo salmo), che spinge – sulla falsariga di ciò a cui ci ha abituato Lanthimos per anni – agli estremi, attraverso la lentezza della vicenda e dei gesti, la staticità delle inquadrature, i silenzi, la recitazione meccanica giocata su espressioni ridotte al minimo. E allo stesso tempo un dramma che non abbandona – o tenta di non abbandonare – le radici culturali elleniche più antiche, ruotando tutto su una costruzione tradizionalissima, propria della tragedia classica, che divide la vicenda in capitoli e la intramezza con cori e stasimi (qui replicati dalle scritte su fondo nero).
Katia Dell’Eva, cineforum.it, 28/10/2019

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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