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Novecento


Regia:Bertolucci Bernardo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci, Franco Arcalli; fotografia (Technicolor): Vittorio Storaro; scenografia: Ezio Frigerio; costumi: Gitt Magrini; musica: Ennio Morricone; montaggio: F. Arcalli; interpreti: Burt Lancaster (Alfredo Berlinghieri), Sterling Hayden (Leo Dalcò), Robert De Niro (Alfredo Berlinghieri nipote), Gérard Depardieu (Olmo Dalcò), Donald Sutherland (Attila), Laura Betti (Regina), Stefania Casini (Neve), Stefania Sandrelli (Anita Foschi), Dominique Sanda (Ada Fiastri Paulhan), Francesca Bertini (suor Desolata), Werner Bruhs (Ottavio Berlinghieri), Romolo Valli (Giovanni Berlinghieri), Anna Maria Gherardi (Eleonora, moglie di Giovanni), Ellen Schwiers (Amelia, sorella di Eleonora), Alida Valli (signora Pioppi), Paolo Branco, Giacomo Rizzo, Antonio Piovanelli, Liù Biosizio, Maria Monti; produzione: Pea; origine: Italia, 1976; durata: 310’ (atto I e II)

Trama:All’inizio del novecento in un paese della pianura emiliana nascono Alfredo Berlinghieri, futuro erede dei possedimenti della famiglia, e Olmo Dalcò, figlio di una contadina dei Berlinghieri. I due, crescendo, cementano l’amicizia, nonostante la differenza di classe e nonostante gli avvenimenti scavino un fossato sempre più profondo tra padroni e contadini. Olmo prende come compagna Anita, una fervente socialista che muore nel dare alla luce una figlia. Dopo essersi opposto alle squadre fasciste che scorrazzano per il paese, fugge per evitare rappresaglie. Alfredo, divenuto padrone, dopo il suicidio del nonno e la prematura morte del padre, sposa Ada, che però lo abbandona quando si avvede che il marito è irrimediabilmente diventato succube della nuova realtà politica. A maggior colpa di Alfredo va il fatto di non aver allontanato il fattore Attila, fascista crudele e arrivista, amante di Regina, cugina di Alfredo. Alla Liberazione, nel 1945, Olmo guida i contadini contro l’antico amico: Attila viene ucciso e Alfredo condannato simbolicamente a morte. Ma l’amicizia tra Olmo e Alfredo sopravvive ancora.

Critica (1):Novecento costò una decina di miliardi e fu prodotto con i capitali di tre majors americane. È probabilmente il film più lungo della storia del cinema italiano, anche se presentato in due parti per motivi commerciali. Bertolucci persegue come sempre lo scopo di ricavare il massimo possibile dalle strutture produttive messegli a disposizione, e ci riesce. Il film ha un andamento circolare, inizia e termina con il 25 aprile 1945, tutto il suo contenuto – esempio tipico di incorniciatura – è costituito quindi da una sorta di flash-back (o, all’inverso, risultando l’inizio un flashforward), e racconta la storia di due famiglie, i Berlinghieri e i Dalcò, l’una ricca e borghese l’altra povera e contadina, emblematizzate in due loro esponenti, Alfredo e Olmo. Nati lo stesso giorno, saranno uniti prima nell’amicizia, poi nella rivalità, e ancora nell’indifferenza; infine l’uno, Olmo, diverrà giudice dell’altro. Novecento è quindi un film fortemente politico e in tale chiave va letto, nonostante le effusioni sentimentali e le intrusioni melodrammatiche debordino a volte – malgrado Bertolucci – in un simbolismo che pecca di retorica trionfalistica, come nelle scene finali della festa dopo la liberazione (il movimento di gru a salire, e a scoprire la distesa della campagna sommersa dalla immensa bandiera rossa portata dai contadini). Il respiro del film è epico: il ritmo e l’intonazione vi si adeguano in molti punti, anche dove prevale l’indignazione moralistica (il massacro compiuto dai fascisti, la carretta con i morti che attraversa il paese), mentre in altri stridono e producono cadute o incongruenze.
25 aprile 1945. Un filare di pioppi maestosi su un alto argine, delle pecore che pascolano, il sole attraverso i pioppi. Un giovane cammina un poco barcollando, cade, muore. Nello stesso tempo un gruppo di contadine dà la caccia attraverso i campi a un uomo e una donna che fuggono, li raggiungono, li ammazzano a colpi di forcone. Ancora, nello stesso tempo, un ragazzi si impadronisce di un fucile, entra in una villa, prende di mira un uomo di mezza età che se ne sta a tavola, facendo colazione. Poi sullo schermo appaiono le parole «Molti anni prima». Adesso dunque sapremo il motivo di questi eventi terribili e incomprensibili; lo sapremo, come avviene nel cinema, grazie ad un lungo, lunghissimo flash-back, ovvero, come si diceva una volta, un passo indietro.
E infatti il passo indietro lo facciamo addirittura di cinquant’anni, nell’atmosfera patriarcale e sonnolenta della campagna emiliana, all’inizio del secolo. Dunque, ben presto sapremo il motivo di quell’assassinio, di quella caccia all’uomo, di quel fucil e puntato. Evidentemente, qualcuno in quell’alba del 1900, ha commesso un delitto rimasto impunito per ben cinquant’anni e adesso, mezzo secolo dopo, è chiamato a pagarne il fio.
Ma no, niente di tutto questo. Il proprietario di terre Alfredo Berlinghieri sta aspettando la nascita di un nipote, erede del suo ingente patrimonio terriero e la stessa attesa si verifica nella vita di Leo, vecchio e fedele bracciante. Il Berlinghieri è un tipico proprietario di terre paternalista e quasi feudale. Come gli nasce il nipote, va a cercare nella cantina delle bottiglie di spumante, le mette in una cesta che affida alle braccia robuste di un suo buffone privato, che va in giro vestito da Rigoletto (tutto questo avviene il giorno della morte di Verdi, uomo-simbolo della vecchia e, almeno a giudicare dal Berlinghieri, retriva Italia del Risorgimento) e fa una di quelle cose che oggi ci farebbero accapponare la pelle dalla vergogna e dal disagio, ma che, allora, prima della presa di coscienza classista, a quanto pare erano frequenti e innocue; va su un prato dove i suoi braccianti stanno falciando l’erba e offre a ciascuno di loro una bottiglia affinchè bevano alla salute del nipote appena nato.
I braccianti accettano, più o meno; soltanto il vecchio Leo, forse perché si trova nella stessa situazione del Berlinghieri e non può fare a meno di rendersi conto, pur nel suo lealismo di vecchio schiavo, che la sorte dei due bambini sarà molto diversa, nicchia e alla fine rifiuta il vino. Il Berlinghieri insiste, petulante, accorato, autoritario; alla fine Leo si rassegna e beve. Il Berlinghieri, nella sua imbecillità patriarcale adesso è soddisfatto; i miseri braccianti dai volti screpolati dalla fatica, puzzolenti di sudore e di stalla, hanno bevuto alla salute del piccolo vampiro borghese che, come già il nonno e il padre, succhierà il loro sangue. E invece non si rende conto che, in quel prato, quella mattina, è avvenuto qualche cosa di terribile, cioè la lotta di classe è, ufficialmente, cominciata. Questa lotta di classe, con alterne vicende (scioperi, agitazioni, moti di piazza, socialismo, guerra partigiana, da una parte; patriarcalismo, liberalismo, fascismo, regime democristiano dall’altra), arriverà, senza trovare soluzioni, fino ai giorni nostri.
La lotta di classe costituisce la struttura portante di questo Novecento di Bernardo Bertolucci; ma non bisogna pensare ad un film collettivo, unanimista. Novecento ha per protagonista di fondo la società italiana; ma questa società si articola, appunto in base al tema della lotta di classe, in una folla di personaggi principali e secondari. Anzi il film racconta, o meglio vuole farci credere che racconta, la storia del privato rapporto dei due che sono nati il giorno della morte di Verdi, il padrone Alfredo e il contadino Olmo. Essi giocano insieme, gareggiano insieme in tante prove grandi e piccole, dalla forza del braccio alla lunghezza del pene, vanno insieme alla guerra del 1914 (o meglio ci va Olmo, Alfredo si fa imboscare), vanno a letto insieme con una puttana di paese, incontrano insieme le donne della loro vita (Olmo la maestrina socialista Anita, Alfredo la ricca, raffinata e velleitaria Ada Fiastri Paulhan).
Intanto la lotta di classe continua imperterrita e inevitabile. Per esempio, i padroni, di fronte alla minaccia socialista, si uniscono; fanno in chiesa una sacrilega colletta per finanziare il fascismo; una squadraccia dà alle fiamme la casa del popolo; i contadini riescono ancora a organizzare un solenne funerale alle vittime dei fascisti, ma sarà l’ultima protesta prima dell’affermarsi della dittatura.
La storia, tra molti caratteri variabili, ne ha uno costante: è serena. Questa serenità per niente affatto giustificata dagli avvenimenti per lo più orribili che la storia ci racconta, deriva dal fatto che gli storici, si tratti di favoleggiatori candidi come Erodoto o di critici eruditi come Rostowzeff, convengono tutti di parlare di cose di cui non hanno avuto diretta e immediata esperienza. E infatti la credibilità dello storico non è di specie sentimentale come quella del romanziere ma intellettuale come quella del critico.
In Novecento la serenità che è propria della storia non c’è perché Bertolucci vorrebbe che la sua scorribanda in mezzo secolo di storia italiana apparisse come una esperienza non già contemplata da lontano ma vissuta e sofferta da vicino e per giunta vissuta e sofferta come storia. In maniera contraddittoria egli vuole che i personaggi pur mentre vivono la loro esistenza privata, sappiano di soffrire la storia in ogni loro anche minima azione. Per ottenere questo scopo Bertolucci ha interiorizzato il passato o meglio ha sostituito il passato con la vicenda della sua vita interiore. Questa sostituzione ha portato a risultati singolari, alcuni convincenti altri meno. Tra i primi, bisogna mettere il rapporto con la natura e quello con il popolo. Il rapporto con la natura si esprime come inesauribile nostalgia della campagna nativa nei bellissimi paesaggi, in molti particolari naturali, nei tanti volti di contadini che ci vengono additati in frequenti primi piani. Il rapporto con il popolo si esprime, invece, in maniera penosa e ossessiva, in un altrettanto inesauribile senso di colpa al quale dobbiamo, oltre a molte scene crudeli e imbarazzanti come quella dello spumante, la generale visione manichea che spartisce il film in due mondi: da una parte il popolo idealizzato in senso positivo, dall’altra la borghesia illuminata da una luce sinistra e disperata. Tutta la vicenda, insomma, è guardata dall’angolo visuale di un privilegio sociale pentito, insicuro, scosso. Più complicate si fanno le cose allorché Bertolucci sostituisce il passato con se stesso, dissociandosi nei due personaggi di Alfredo il padrone e Olmo il contadino. Il narcisismo inevitabile in una simile operazione ingenera un senso di freddezza emblematica, come di apologo didascalico. L’amore-odio di Alfredo e Olmo così simbolico, non si accorda con il contesto realistico nel quale è inserito. Forse soltanto l’omosessualità avrebbe potuto dare un carattere di realtà al rapporto tra i due uomini. Ma allora sarebbe saltato il messaggio del film.
Adesso bisognerebbe parlare della capacità narrativa e, diciamo così, “muscolare” di Bernardo Bertolucci che in questo film viene confermata al di là del necessario. Ci limitiamo a dire che Bertolucci ha cercato disperatamente di esprimere qualche cosa che gli stava a cuore. Di qui la sincerità di Novecento, altro tratto curioso in un film a sfondo storico. Novecento è affollato di attori straordinari. La vecchiaia borghese di Burt Lancaster, quella popolana di Sterling Hayden, la dignità dolente di Maria Monti, la naturalezza simpatica di Gérard Depardieu, il dubbio intellettuale di Robert De Niro, il volontarismo intrepido di Stefania Sandrelli, il filisteismo trafelato di Romolo Valli, la perversità provinciale di Laura Betti, l’erotismo recitato di Dominique Sanda, il sadismo subalterno di Donald Sutherland compongono, pur sullo sfondo collettivo, un mosaico di situazioni e di vicende individuali.
Alberto Moravia, L’Espresso, 19 settembre 1976

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