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Dopo mezzanotte

Regia:Ferrario Davide
Cast e credits:
Sceneggiatura
: Davide Ferrario; fotografia: Dante Cecchin; montaggio: Claudio Cormio; musica: Banda Ionica, Daniele Sepe, Fabio Barovero; scenografia: Francesca Bocca; costumi: Paola Ronco; suono: Gianni Sardio; interpreti: Giorgio Pasotti (Martino), Francesca Inaudi (Amanda), Fabio Troiano (l’Angelo), Francesca Picozza (Barbara), Silvio Orlando (il narratore), Pietro Eandi (il nonno), Andrea Romero (il padrone del fast food), Gianpiero Perone (Bruno), Francesco D’Alessio, Gianni Talia, Andrea Moretti (la banda della Falchera), Gianna Cavalla (la ricettatrice), Claudio Pagano (la guardia del corpo), Maurizio Vaiana (Maurizio), Ladis Zanini (lo Strizzapalle), Ivan Negro (Ivan), Lisia Stretto Misdim (la ragazza indonesiana), Alberto Barbera (il direttore del Museo del Cinema); produzione: Davide Ferrario per Rossofuoco/Film Commission Torino Piemonte/Multimedia Park; distribuzione: Medusa; origine: Italia, 2004; durata: 90’.
Critica (1):Un piccolo film gentile. Uno svergognato atto d’amore per il cinema in quanto tale. Con queste due definizioni, complementari e antitetiche al tempo stesso, Davide Ferrario sintetizza bene la volubile umoralità e la completa libertà creativa del suo ultimo film. In bilico tra la discrezione sentimentale e l’istinto appassionato, Dopo mezzanotte traduce in modo molto personale la famosa frase di papà Lumière, che rivolgendosi ai figli Auguste e Louis, non ebbe incertezze e sancì: «Il cinema è un’invenzione senza futuro». Dopo oltre un secolo, Ferrario lo prende alla lettera e ci ricorda che ogni film vive del continuo intreccio tra presente e passato, tra l’eterno “adesso” della storia cui sto assistendo, e brandelli di “prima” con cui mi confronto, si tratti di volti, luoghi, oppure frammenti della propria memoria, personale e/o sociale.
In un gioco continuo di slittamenti e di rifrazioni visive e sentimentali, gli antieroi keatoniani rivivono nelle movenze del contemporaneo Martino; i melodrammi di Pastrone con l’infuocata Menichelli fanno da progressivo contraltare al divampare della passione e svelano l’inaspettata fisicità sempre più dirompente di Amanda, che già nel nome ha il suo destino; le vedute della città di inizio Novecento si alternano con quelle della città di inizio Duemila in un intreccio che se talvolta rischia una certa meccanicità didascalica (ma d’altronde proprio le didascalie sono parte integrante del muto), più spesso crea ponti poetici sul presente estremo di ogni sentimento vero, sia esso per un uomo o una donna, per un luogo, un volto, un film, un’idea. (...) Ferrario ha il merito di perseverare nella libertà di sguardo e di narrazione, senza preoccuparsi troppo di dove si andrà a parare. Con uno spirito molto nouvelle free wave (o new cinema vague, se preferite) e poco Dogma, utilizzando il digitale come strumento di libertà e non come marchio di fabbrica, fa della dialettica tra apparenti opposti il motore narrativo e stilistico del film, lasciando ampi margini di posizionamento allo spettatore. Utilizza uno schema narrativo tipico del melodramma, con l’impossibile menage à trois e la necessità del sacrificio di qualcuno, ma lascia ai suoi attori a possibilità di plasmare i personaggi on il progredire delle riprese. Fa di tutto per tradurre in immagini concrete la sua fiducia nei luoghi fisici, che «raccontano le storie meglio dei personaggi», ma fa ampio uso della voce narrante di Silvio Orlando per offrire altri squarci sui suoi eroi e, soprattutto, per rielaborare analiticamente il rapporto tra lo stile del racconto e la storia narrata, quasi a ricordare le radici da critico del regista. (...)
La stessa scelta della Mole come luogo topico della storia è perfettamente congrua a questo gioco di deriva del senso e dei sentimenti: un tempio che non fu mai sinagoga e oggi celebra il culto del cinema; una mole di nome e di fatto, che vive però di vuoto assoluto nel suo interno; un luogo di verticalità che esalta i cunicoli e gli anfratti, una linearità verso l’alto che svela improvvise spirali, prospettive che conducono l’occhio in tutt’altre dimensioni. (...) Infine, in un film così visivo e bello da vedere in senso proprio, che recupera la magia e la meraviglia del guardare che forse era la vera specificità del cinema delle origini e del muto, le orecchie sono continuamente solleticate dalle rielaborazioni etno-funebri della Banda Ionica – musiche da funerale per un film d’amore: torna Truffaut nella sua essenza, la passione come flusso irrefrenabile di sentimento e percorso di patimento interiore, eros e pathos (...), dai ritmi colti e caldi di Daniele Sepe, dalle melodie sinuose di Fabio Barovero, il più mistico dei Mau Mau, che nel suo ultimo disco ha registrato preghiere in vari luoghi del mondo, accettando la sfida delle litanie ritmiche fuori dal tempo, rileggendole in modo personale. (...) L’invito di Ferrario, che dietro l’umiltà di un film così leggero non rinuncia mai al piacere della libertà assoluta – non governativo per definizione, quindi – è a suo modo anche politico, visto il contesto contemporaneo. (...) Ecco allora un’idea di futuro, nel finale di un film fatto di passati e presenti. Forse la nottata sarà ancora lunga, ma dopo mezzanotte si può almeno sperare che tutto si trasformi: come il Martino keatoniano che si concede un’uscita chapliniana, come Amanda che usa l’oggettività matematica del caso di Fibonacci per vincere al superenalotto, come la memoria del cinema che è stato, ma non va celebrato o rimpianto, per il semplice fatto che il nostro sguardo può renderlo immortale trasformando squarci di visioni in sensazioni del presente, che dallo schermo entrano negli occhi e non escono più.
Michele Marangi, Cineforum n. 435, 6/2004
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Critica (3):
Critica (4):
Davide Ferrario
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