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Inventario balcanico


Regia:Gianikian Yervant, Ricci Lucchi Angela

Cast e credits:
Sceneggiatura e montaggio
: Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi; musica: Djivan Gasparyan; produzione: La Biennale di Venezia; origine: Italia; origine: Italia, 2000; durata: 63'.

Trama:Materiali datati fra gli anni Venti e Quaranta, girati da svariati e anonimi operatori nei Paesi dell'area balcanica: un toccante e commosso "diario minimo", che rielabora una memoria oggi quanto mai necessaria.

Critica (1):Dichiarazione degli autori
L'accumulazione delle immagini della catastrofe umana e ambientale provenienti dalla ex-Jugoslavia ci spingevano a cercare materiali ed immagini, testimonianze che recuperassero valori vitali preesistenti che non potevano non esservi. Registrazioni della vita 'così come era'. Materiali per un film che celebri la vita prima dei conflitti e delle divisioni. La storia vista dal privato, dalla vita intima, partendo dal 'baso', dal minimo, dal dettaglio. Anni '20 - '30 - '40. Un lavoro di analisi, su formati desueti, non più proiettabili, per rendere indistruttibile la memoria racchiusa nelle immagini ritrovate, girate da amatori, viaggiatori, soldati nazisti dei Balcani.

Da un Inventario balcanico firmato Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi non ci si aspetta certo la documentazione attuale della guerra, della violenza, della puli-zia etnica. Ci ha già pensato la televisione a portare nella nostra intimità il catalo-go degli orrori, col risultato di favorire l'assuefazione piuttosto che destare la rivol-ta. Il cinema d questa silenziosa, paziente coppia armeno-romagnola non soltan-to aborre la guerra, ma si rifiuta di ammetterla. Perciò Inventario balcanico parla della vita che c'era, non della morte che l'ha distrutta. Angela e Yervant fanno un cinema archeologico, restaurando i vecchi documenti e riguardandoli con la co-scienza critica moderna. Altra volta li abbiamo chiamati "pionieri del passato", che non è una contraddizione in termini, ma l'anima del loro operare. Il loro è un cinema sperimentale e d'avanguardia, proprio perché restaura il passato con l'oc-chio rivolto a un possibile futuro. Chi conosce i Balcani di oggi sa che tale possi-bilità è infinitamente ristretta, e non soltanto nei Balcani, ma in tante altre parti del mondo. Non per niente il loro viaggio lungo il Danubio sbocca nel Caucaso. Che è la terra del petrolio, del conflitto permanente tra azeri e armeni, tra musul-mani e cristiani, del confronto a lunga distanza tra americani e russi. Il genocidio degli armeni perpetrato dalle milizie turche nel lontano 1915 ha segnato per sempre la sensibilità di Yervant (e per conseguenza della sua compagna). L'ha segnata attraverso i ricordi di suo padre, che è stato l'ultimo testimone vivente di quella atrocità. Esiste un video privato di cinquanta minuti, ripreso in due giorni del 1986 in una stanza d'albergo di Venezia, che è la chiave per entrare nell'intera produzione dei due cineasti. Unico protagonista l'ottuagenario padre di Yervant, Raphael, un chimico residente a Merano (dove Yervant è nato) che legge in italiano un suo diario scritto in armeno dieci anni prima, quando decise di tornare al suo paese natale, solo, scarponi ai piedi e una Super8 nello zaino. Ritorno a Khodorciur è la testimonianza, di valore etnografico e storico inestimabile, d'uno dei pochi scampati e (allora) dei pochissimi sopravvissuti alla strage del 1915. Ed è anche il solo che la racconta senza divagazioni, senza dialogo, senza neppur essere propriamente "intervistato", e senza che i fatti escano dall'intermediazione di un romanzo, come I quaranta giorni del Mussa Dagh di Franz Werfel. La racconta "sulla propria pelle", diseppellendo la memoria della tragedia personale e collettiva con una lucidità e una calma che sono più impressionanti di qualsiasi grido. La cinepresa rimane ferma, si direbbe attonita davanti al vegliardo e alla sua composta seppur sempre più straziante "lettura". Il documento ci restituisce l'ansia crescente del pellegrinaggio alle sorgenti di una cultura, di una lingua, di un' infanzia, di una famiglia, di una nazione cancellate in tutto, meno che nella memoria. Da un fitto intrecciarsi di ricordi remoti e di notazioni d'attualità, a poco a poco si "libera" nel testimone la possibilità di affrontare il tema rimosso il genocidio - che il padre non aveva mai voluto narrare a nessuno e che ora confida alla cinepresa del figlio. Khodorciur significa "acqua buona", acqua di fonte. Raphael Gianikian desiderava da anni condensarne il sapore e la privazione in un libro, finalmente uscito nel 1995 (precedendo di non molto la sua morte), mentre lui nel frattempo era davvero rimasto l'unico superstite al mondo di quegli avvenimenti. Ma il suo lungo esilio era già stato rotto da quel ritorno e da quel frammento audiovisivo che si faceva dolcissimo e insostenibile canto d'addio. Finché il congedo improvvisamente ci svelava, anzi ci restituiva il paese perduto, attraverso le sette foto da sempre appese in una camera da letto di Merano. Ecco da dove nasce il cinema di Gianikian - Ricci Lucchi: da quale intensità di dolore, limpidezza di cultura, determinazione nel recupero della storia. Inventario balcanico è il film più vicino a quel modello, il più duramente sofferto e il più ricco di nostalgia. Come scrivono gli autori, è "la storia vista dal privato, dalla vita intima, partendo dal basso, dal minimo, dal dettaglio". In questo modo, e non in altro, essi hanno sempre posto al centro della loro ricerca anche la guerra. Sì, perché i fantasmi della guerra sono costantemente presenti nel loro cinema, ne sono addirittura la componente essenziale. Lo sono tecnicamente, fisiologicamente, attraverso la fragilità, la muffa, il degrado della pellicola ritrovata. Lo sono creativamente, quando i pezzi in negativo lasciati da Comerio vengono ristampati tali e quali in Dal Polo all'Equatore, cosicché i soldati della Grande guerra si convertono appunto in fantasmi. Lo sono in Prigionieri della guerra, quando i singoli e i gruppi, che all'inizio sanno di essere ripresi e guardano "in macchina", alla fine sono troppo impegnati a scavare la fossa comune e a depositarvi i compagni caduti per accorgersi della cinepresa che li consegna all'eternità. (Chissà chi mai ha girato, e con quale scopo, questo brano che nel 1916 anticipava Auschwitz, il Ruanda e la Bosnia). Lo sono in Su tutte le vette è pace, quando una fila di soldatini, avviandosi all'assalto, si allontana all'orizzonte, e li scorgiamo laggiù, indistinti, falciati come birilli, punti neri inghiottiti dal maestoso e indifferente candore delle Alpi. Italiani? Austriaci? Che importa? Non sono due eserciti che si scontrano, sono due comunità umane che si fronteggiano vicinissime, l'una invisibile all'altra, l'una che fa esattamente quel che fa l'altra: scrivono a casa, sciano sulla neve, hanno gli stessi volti e gli stessi gesti, praticano gli stessi rituali, condividono le stesse emozioni; e l'insensato "gioco della guerra", quanto mai innaturale al cospetto di quella Natura, li conduce per mano allo stesso destino. Di qualunque parte sia il sacerdote cattolico che li benedice in veste bianca, questa volta il fantasma è lui. O lo è piuttosto quel plotone di nere ombre che riceve il suo viatico? Sosteneva il regista tedesco Slatan Dudow, nel primo convegno cinematografico del secondo dopoguerra a Losanna, che con il montaggio dei loro cinegiornali i nazisti avevano dato la dimostrazione scientifica di come si possa capovolgere la verità. Ebbene, lo scopo fondamentale dei nostri artisti-restauratori è di rimetterla in piedi. Sia quando i documenti mentono, sia quando incontestabilmente dicono il vero. Nel primo caso, lo fanno con un lavoro analitico, con una vera e propria operazione chirurgica che, rispettando la fonte, penetra nella carne viva fino al cuore e arriva a strappare la verità che i fotogrammi deperiti nascondevano. Se Luca Comerio era un cronista primordiale e innocente dell'esotico, gli archeologi sanno che quell'esotismo celava la rapina ecologica e la conquista militare. Ciò che allora era nazionalista e colonialista, sotto lo sguardo moderno diventa atto d'accusa, funebre danza dentro la morte di imperi, di animali e di uomini. La decimazione degli orsi bianchi e della balena, la caccia grossa nel continente nero preludono al massacro della Grande guerra. Si viaggia tra il Polo e l'Equatore e si finisce sul monte Calvario. I materiali di Prigionieri della guerra provengono dagli archivi di due potenze contrapposte nel primo conflitto mondiale: l'impero austroungarico e l'impero russo. I prigionieri, gli internati, i profughi, gli orfani, i morti sono forniti vicendevolmente dagli uni e dagli altri. Spesso riesce difficile, dalle uniformi logore, riconoscere da quale esercito in rotta provengano. Ma questa "intercambiabilità" delle divise è già un segnale di "modernità" che non può sfuggire. Nel contempo gli autori sanno benissimo che la maggior parte delle riprese aveva fini di propaganda e quindi era soggetta a mistificazione; e d'altronde, durante qualsiasi guerra, i cineoperatori hanno appunto il compito di mentire, facendo risaltare al meglio la parte di cui sono al servizio. Questi campi d'internamento, questa merce di trasferimento, questi atteggiamenti di rispetto reciproco, questi balli improvvisati sono frutti evidenti di una realtà edulcorata. Ora, l'inderogabile principio dei nostri film-remakers già lo conosciamo: è quello di non manipolare né falsificare le fonti, ma di scavarci dentro al fine di farle rivivere. Per cui scompongono l'inquadratura, moltiplicano le immagini, rallentano o accelerano il ritmo, reinventano il montaggio, immettono poche didascalie esplicative (luoghi, date), affidano al commento musicale l'unica concessione al sonoro. Così operando, rimettono semplicemente in valore ciò che rimaneva ai margini, nascosto, senza sovrapporvi una spiegazione di comodo, come regolarmente avviene quando un commento parlato fa dire alle immagini il contrario di quanto esse esprimono. Ma le orchestrano in modo tale che esse stesse si contraddicono, entrano tra loro in conflitto, e finiscono con il rivelare quel che volevano nascondere. In una lunga sequenza, il lager austriaco si presenta come un luogo d'accoglienza, ma poi sotto i nostri occhi si trasforma in cantiere, quindi in industria bellica; e tutto conduce a perpetuare la stessa mattanza, che per intanto è scrupolosamente eseguita sulle bestie, nel reparto macelleria. Al tempo della Prima guerra mondiale, il cinema non era ancora attrezzato a documentare lo sterminio di massa, settore in cui si sarebbe impratichito con la seconda. In Prigionieri della guerra i documenti esprimono ancora quel barlume di "umanità" destinato a scomparire col perfezionarsi dei mezzi di uccisione. La sequenza della fossa comune piomba alla fine sulla nostra coscienza come una verità inesorabile. Quel brano era troppo diretto per poter ancora mentire. Invece nel caso di Su tutte le vette è pace, come di Inventario balcanico, il materiale disponibile è di per sé "veritiero", e di fronte a esso Gianikian e Ricci Lucchi possono disporsi con un nuovo respiro tecnico-stilistico. Naturalmente lo restaurano e lo valorizzano coi metodi consueti e sempre meglio elaborati. Ma il montaggio, non avendo più l'esigenza primaria di reinterpretare il senso dei vari frammenti, può anche distendersi in un percorso frastagliato, più organicamente composto.
Nel primo di questi film, la colorazione assume una presenza nuova e determinante fin dall'inizio: il rosso bagliore delle esplosioni notturne è il preludio dell'alternarsi di bianco e di nero alla luce del giorno. Allo stesso modo la musica in forma di oratorio si alterna a una sonorizzazione inedita - sporadica e pungente - che accresce l'effetto di "vicinanza" di questi soldati così "domestici", le cui parole smozzicate si confondono ai rumori del vento e agli scoppi delle granate. Inventario balcanico, datato 2000, promana ancora una volta dalla modestia degli autori congiunta al loro rigore intellettuale, binomio inscindibile che accompagna il loro talento. E ancora una volta è dal passato che traggono l'ispirazione e la forza di fronteggiare un presente che si offre, caotico e brutale, come un'invalicabile montagna di macerie. Davanti alle ondate d'immagini, spesso indecifrabili, sempre terrificanti, che le televisioni hanno rovesciato su spettatori sbigottiti, davanti all'"immane catastrofe umana e ambientale" che ha colpito quella che un tempo si chiamava Iugoslavia (e che, con tutta la sua inadeguatezza, non c'è abitante di queste regioni che oggi in cuor suo non rimpianga), Angela e Yervant si pongono la domanda più innocente e più saggia: che cosa c'era prima? Neanche all'epoca di Tito, poiché vogliono rifiutare ogni semplicismo ideologico e politico. Prima ancora, negli anni Quaranta, Trenta, Venti: com'erano questi popoli, queste etnie, questi agglomerati umani? E se c'era guerra - poiché da queste parti, si sa, non manca mai -, che guerra era? Donde la ricerca, non facile, ma come sempre condotta brillantemente in porto, delle fonti: di quei tesori cineamatoriali sul tipo di quelli degli anni Trenta ch'essi fornirono alla televisione italiana, perché una retrospettiva dedicata a Mario Camerini sotto il fascismo potesse raffrontarli alle sequenze prodotte dalla fantasia del regista. Angela e Yervant erano sicuri che "valori vitali preesistenti (alla catastrofe) non potevano non esservi". E infatti c'erano, e oggi li vediamo. Li vediamo sfilare, questi "valori", in un'incalzante parata di "differenze", in immagini catturate da una casuale ripresa all'aperto, o cesellate come in una pittura d' interni nell'omaggio alla madre che ha appena partorito in casa. Lo vediamo rifrangersi, questo "vitalismo", nel passaggio incessante della folla e nei ritratti incisivi e stupefatti di persone (quei bambini intimiditi, schivi, luminosi); lo sentiamo ritmato con energia da un montaggio trascinante, che ridesta insieme allegria e amarezza, gioia e rimpianto. Ciò che più colpisce, nel susseguirsi dei luoghi e dei tempi, nello sfiorarsi di fisionomie e costumi, è la naturalezza, anzi l'ovvietà dello stare insieme. Genti che hanno la colpa minore nella ferocia della loro storia, dato che da Oriente e da Occidente le imposizioni militari, ideologiche, culturali hanno gravato per secoli sulle loro terre. In questo calderone di religioni e razze, di chiese e moschee, di ebrei e zingari, di Mitteleuropa e "primitivismo balcanico"; in questa pentola ribollente di ogni sorta di provocazione e potenziale conflittualità, alimentata dalle oppressioni esterne e sedimentata in loco tra popolazioni mai libere e padrone di sé; in questo crogiuolo incandescente di fedi e superstizioni antitetiche, di rivalità e rancori ancestrali, davvero non può darsi alternativa - se non quella mostruosa che sappiamo - alla indispensabilità del convivere quale unica forma di sopravvivenza. Il film si confronta direttamente e senza filtri interessati con il paradigma stesso della diversità, con la sensuale trasparenza dei corpi, con la fierezza di ogni singolo microcosmo (le sue feste e cerimonie, abitudini e rituali); e che accostato agli altri costituisce un insieme che sembra creare una ipotetica, insperata, "sacrale" armonia di opposti. In tale contesto, si profila un'ennesima volta la guerra. Non è più quella di trincea del '14-118, è quella radicale e distruttiva dell'aggressione e dei bombardamenti a tappeto. Nel 1940 si è appena agli inizi, e già una città è annientata, già i ponti sul Danubio sono crollati. Ma l'angolo visuale da cui riguardare questa guerra è lo stesso di sempre, il più "privato" possibile: è la piccola cinecamera personale di un militare della Wehrmacht che, a futura memoria degli amici e dei figli, si diverte a riprendere i camerati nelle occupazioni quotidiane, per documentare così l'occupazione di un paese: la Iugoslavia. Uno dei soldati viene immortalato nel tran-tran dei suoi obblighi bellici e poi, soddisfatto del compito eseguito, nell'atto di denudarsi e sdraiarsi al sole, come il più normale dei turisti. Sulla riva del grande fiume che pur viene da una terra dove si parla tedesco, il "nostro" tedesco suscita la muta e compatta attenzione di un gruppo di "locali" che la cinecamera dello straniero - il quale nemmeno si accorge della loro presenza - diligentemente "incorpora" nell'inquadratura.
Il significato è limpido. Per quei tedeschi la guerra è una missione di routine. Soldati che, come in un'immensa fabbrica a cielo aperto, attendono rilassati ai loro strumenti di viaggio. Sorridono, scherzano, sudano, si rinfrescano. Operai di uno strano mestiere, arrivati in sidecar, incomprensibili ai contadini radicati sul posto da tempo immemorabile tra l'invasore che si sente assai più padrone che in casa propria e l'indigeno che soltanto l'oggettività meccanica di uno strumento di ripresa gli ha casualmente accostato, non c'è in realtà alcun contatto, non esiste la minima eventualità di coesistenza. Eppure il titolo Su tutte le vette è pace era anch'esso tedesco, un verso di Goethe. Inventario balcanico è il più poetico film dei coautori, che qualcuno, semplificando, chiama "i" Gianikian. Tuttavia è vero che la struggente melodia che lo percorre, per la prima volta nel loro cinema, si deve a un compositore armeno.
Ugo Casiraghi in Cinema anni vita - Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, ed. Il Castoro, 2000


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