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Passione d'amore


Regia:Scola Ettore

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Ruggero Maccari, Ettore Scola, dal romanzo Fosca di Igino Ugo Tarchetti; fotografia (Eastmancolor): Claudio Ragona; scenografia: Fiorenzo Senese; costumi: Gabriella Pescucci; musica: Armando Trovajoli; montaggio: Raimondo Crociani; interpreti: Bernard Giraudeau (Giorgio Bacchetti), Valeria D'Obici (Fosca), Jean-Louis Trintignant (l'ufficiale medico), Massimo Girotti (il colonnello), Laura Antonelli (Clara), Bernard Blier (il maggiore Tarasso), Gerardo Amato (il tenente Baggi), Sandro Ghiani (l'attendente di Bacchetti), Alberto Incroci (il capitano Rivolti), Rosaria Schemmari (la dama di compagnia di Fosca), Francesco Piastra (l'attendente del colonnello), Saverio Vallone (il tenente biondo), Franco Committeri (il marito di Clara); produzione: Franco Committeri per la Massfilm (Roma)/Les Films Marceau/Cocinor (Parigi); origine: Italia, 1981; distribuzione: Industria: durata: 118'.

Trama:Fine Ottocento. Giorgio, giovane e aitante ufficiale piemontese di cavalleria ha una promettente storia d'amore con Clara ragazza di buona famiglia. Ma l'incontro con Fosca, una ragazza epilettica, non bella e dal carattere difficile, comprometterà il futuro del giovane preso da una passione morbosa...

Critica (1):[...] Ripescando un romanzo ottocentesco di Igino Ugo Tarchetti, "Fosca", dove i temi della "diversità estrema" (nel caso, la bruttezza fisica) e della conseguente infelicità occupano l'arco di ogni possibile speculazione, Scola recupera una "dialettica" più consona alle sue corde intimistiche e crepuscolari, in linea con gli entusiasmi suscitati da Una giornata particolare. Quest'altra storia "particolare" è Passione d'amore (1981), ambientata nell'Italia (da poco unitaria) del 1863.
Ci vuole poco a capire che un simile oggetto appartiene alla categoria delle mine letterarie vaganti, pronte a scoppiare sulla chiglia dell'incauto navigatore cinematografico (o televisivo) che solo si azzardi a sconfinare nel pietismo; nulla di peggio del ridicolo involontario. Ma il disagio che Scola prova nel frequentare le terrazze romane è qui sobrietà di stile e linguaggio, scavo psicologico autentico, inattesa e felicissima credibilità emotiva. La bruttezza è in natura: nessun alibi sociale, dunque, e nessuna possibile ricetta ideologica. La bruttezza, al cinema, è poi controindicata, specie quando riguarda la protagonista femminile. Come uscirne? Unicamente dando spazio alla forza (magari perversa) dei sentimenti, agli slittamenti introiettivi, a quei gesti, sguardi e rossori che esprimono le battaglie di dentro: la normalità di Giorgio che scivola impercettibilmente verso l'anormalità di Fosca, l'anormalità di quest'ultima che s'aggrappa istericamente, convulsamente alla normalità di Giorgio. In questa contaminazione di "stati", l'ovvio è sfidato a duello e colpito a morte, inesorabilmente, mentre va restringendosi, poco per volta, la linea di demarcazione fra salute e malattia, realtà e follia. Evitando truculenze, macchinosità e colpi di scena, il regista quotidianizza il fantastico, cosicché «l'horror si insinua nella storia a bagliori stupendi» (Roberto Silvestri, "il manifesto", 17/05/1981). Non solo non vi è pietismo, che è già molto, ma grazie a Dio neppure pietà, quella pietà a buon mercato che il cinema distribuisce ai "diversi" quando decide di non inchiodarli al macchiettismo. La vicenda, "che altrove sarebbe stata avvolta da tetri banchi di nebbia, brividi agghiaccianti, funerei presagi, incubi ossessivi" (Mino Argentieri, "Rinascita", 29/05/1981), è resa con realistico buon senso, caricando i personaggi di forza implosiva autentica.
Ancora una volta, l'apporto degli attori è centrale, ben oltre l'aura dello star system se proprio Jean-Louis Trintignant, nel ruolo dell'ufficiale medico, è fra tutti il meno credibile. Attendibile, viceversa, lo stupito smarrimento di Bernard Giraudeau, che è Giorgio, e decisamente ammirevole la Fosca di Valeria D'Obici, qui alla sua prima (e rischiosissima) prova di rilievo. Brutta e sgradevole dall'inizio alla fine ("con grande rigore, Scola non le concede neppure quell'istante magico che tocca a tutte le donne brutte nel cinema americano", Giuliano Muscio, "Scena", n. 6-7 giugno-luglio 1981), l'attrice incarna la "passione d'amore" dell'eroina tardo-romantica di Tarchetti con stupefacente verosimiglianza e naturale trasporto, conferendo alla propria ripugnanza fisica il valore della rivolta esistenziale estrema. È questa carica, nonostante tutto vitalistica, a disarmare gradualmente la ritrosia di Giorgio, a determinarne il "sacrificio", minandolo dal di dentro come una malattia. Ciò che in lei è desiderio, nel giovane tenente non può che essere abbrutimento, e tuttavia un abbrutimento vissuto, da un certo punto in poi, come necessario, ineluttabile. Perché questo processo sia plausibile sullo schermo, occorre veramente che il fascino dell'orrido soffochi ogni possibile resistenza estetica, eluda la ragionevole politica dei sensi, ribalti la concretezza in astrazione.
Più che le affermazioni del regista ("credo che i concetti di bello e brutto siano relativi, in realtà non esistono: chi è in armonia con il proprio corpo è sempre bello", da un'intervista rilasciata a Maurizio Pocco, "La Domenica del Corriere", 11/05/1981), valgono al proposito quegli inestricabili e straordinari intrecci di bellezza e orrore che caratterizzano la pittura nordica o, più di recente, certi film di Andrè Delvaux dove capita di sentire che "una ferita è una finestra aperta sulla bellezza, su un mondo meraviglioso chiamato carne" (è la frase che si insinua nella mente contorta del Govert Miereveld de L'uomo dal cranio rasato, De man die zijn haar kort liet knippen, 1965, pronunciata dal medico nel corso dell'autopsia sul corpo di un annegato). Siamo certamente ancora distanti dalla complessità formale e concettuale di quei; modelli, ma è indubbio che la grandezza di un film come Passione d'amore, non troppo amato dalla critica e di buon grado ignorato dal pubblico, risieda nel lavorio dell'irrazionale, il quale - poco per volta - s'impossessa della quotidianità, svuotandola di realismo. "È questo il fantastico, il non poterne più fare a meno" - osserverebbe ancora Delvaux - e, infatti, una volta che Fosca ci coinvolge nella "sua" realtà, ci vediamo costretti - come Giorgio - ad andare fino in fondo.
Roberto Ellero, Scola, La Nuova Italia, gennaio/febbraio 1988

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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