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Lo chiamavano Jeeg Robot


Regia:Mainetti Gabriele

Cast e credits:
Soggetto: Nicola Guaglianone; sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti; fotografia: Michele D'Attanasio; musiche: Gabriele Mainetti, Michele Braga; montaggio: Andrea Maguolo, Federico Conforti; scenografia: Massimiliano Sturiale; costumi: Mary Montalto; effetti: Luca Della Grotta, Maurizio Corridori, Chromatica; suono: Valentino Giannì; interpreti: Claudio Santamaria (Enzo Ceccotti), Luca Marinelli (zingaro), Ilenia Pastorelli (Alessia), Stefano Ambrogi (Sergio), Maurizio Tesei (Biondo), Francesco Formichetti (Sperma), Daniele Trombetti (Tazzina), Antonia Truppo (Nunzia), Salvo Esposito (Vincenzo), Gianluca Di Gennaro (Antonio); produzione: Gabriele Mainetti per Goon Films con Rai Cinema; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia, 2015; durata: 112'.

Trama:Enzo Ceccotti non è nessuno, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso. Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi e cade per errore in un barile di materiale radioattivo. Ne uscirà completamente ricoperto di non si sa cosa, barcollante e mezzo morto. In compenso il giorno dopo però si risveglia dotato di forza e resistenza sovraumane. Mentre Enzo scopre cosa gli è successo e cerca di usare i poteri per fare soldi, a Roma c'è una vera lotta per il comando, alcuni clan provenienti da fuori stanno terrorizzando la città con attentati bombaroli e un piccolo pesce intenzionato a farsi strada minaccia la vicina di casa di Enzo, figlia di un suo amico morto da poco. La ragazza ora si è aggrappata a lui ed è così fissata con la serie animata Jeeg Robot da pensare che esista davvero. Tutto sta per esplodere, tutti hanno bisogno di un eroe.

Critica (1): (...) Il cinema di genere in Italia non è mai stato cinema ufficiale, soprattutto perché a noi manca per ragioni storiche una narrativa di genere in qualsiasi forma. C’è un po’ di giallo, ma molto meno che altrove e quasi solo negli ultimi decenni, mentre non ci sono sostanzialmente né fantascienza né horror né avventura. Meglio: tutto questo c’è, ma solo nei fumetti.
È proprio partendo da una cultura che è fatta di fumetti e di generi, e stando lontano dai colossal hollywoodiani, che Gabriele Mainetti è riuscito, primo nella storia del nostro cinema, a fare un film popolare italiano di supereroi. L’equilibrio tra l’adesione ai canoni del genere e il coinvolgimento del pubblico è ineccepibile: il film funziona non tanto perché ricorda una storia di genere, ma perché le storie di genere funzionano. Per questo Lo chiamavano Jeeg Robot non è solo per appassionati di fumetti o di quei cartoni giapponesi che a cavallo tra anni settanta e ottanta occupavano i palinsesti delle neonate tv private e della Rai, ma è un film per tutti.
C’è anche un rapporto riuscitissimo tra Roma, la sua lingua, le sue strade, le sue periferie, e un gruppo di personaggi che ne fanno parte, sono vivi e divertenti, ma non ricadono né nella commedia di cui sono pieni i film di Natale, né nel realismo sociale che i nostri registi impegnati amano frequentare. Sia la sceneggiatura sia la regia in questo senso sono impeccabili, perché si muovono con grazia e naturalezza senza mai lasciare intendere quanto siano controcorrente.
Per chi apprezza i racconti di genere di qualsiasi tipo, Lo chiamavano Jeeg Robot sarà un’esperienza di goduria e sollievo. Per anni abbiamo dovuto sottostare all’idea per cui le storia di genere in Italia non potevano funzionare, figuriamoci quelle di supereroi. Gabriele Mainetti dimostra che non è assolutamente vero, e riscatta una fetta di pubblico che si era quasi rassegnata. Per farlo, dirige in maniera magistrale un cast che non sbaglia mai niente. Claudio Santamaria è perfetto nel contrasto tra il carattere dimesso e il ruolo impostogli dai superpoteri. Luca Marinelli interpreta un giovane malavitoso con lo slancio di un diavolo della Tasmania con i tacchi a spillo. Ilenia Pastorelli sembra trovare l’unico modo di tenere insieme la ragazza sexy, il disagio della borgata e gli occhioni delle eroine dei manga.
Questo è un film appassionante, che esalta, diverte e commuove con uno stile, una cura e un’onestà ai quali non siamo abituati. Quando si parla di cinema d’autore, si parla di questo. (…)
Matteo Bordone, internazionale.it, 3/3/2016

Critica (2):La panoramica su Roma che apre il film, il classico punto di vista del supereroe, scorre su un respiro affannato e ansimante. È quello di un ladruncolo che fugge dalla polizia sul Lungo Tevere e che, per nascondersi, si getta nel fiume uscendone malconcio per il contatto con una sostanza radioattiva, ma con poteri di cui diventa consapevole solo il giorno seguente, dopo una notte di “passione”. Enzo Ceccotti, un nome comunissimo, rinasce supereroe come dopo le doglie di un parto. È un film sulla genesi di questo supereroe, quindi, quasi una origin story da fumetto americano degli anni Sessanta, l'opera prima di Mainetti (dopo le due prove nel corto – Basette (2008) e Tiger Boy (2012) – che gli sono valse parecchi riconoscimenti all'estero). Nascita e formazione di un eroe che è però sempre stato un perdente, come può essere un ragazzo di borgata pasoliniano: ultimo fra gli ultimi, figlio della periferia più povera e nera; grasso, più che “grande”, quasi a suggerire qualcosa di sonnacchioso, sfiduciato, che vive in una sorta di tugurio dominato dai colori del grigio e del nero e che usa il privilegio della forza sovrumana appena acquisita per riempirsi il frigo di budini alla vaniglia e proiettare a tutta parete i suoi amati film porno. Un individuo debole e solo, vittima di pulsioni basiche, un eroe suo malgrado che, a dispetto di quello che ci si aspetterebbe, il genere umano non sopporta. Irrompe nel suo antro buio una fanciulla coloratissima e bizzarra. La violenza della mala l'ha lasciata sola e indifesa, ma forte della lettura che lei sa dare del mondo: i colori che caratterizzano i suoi spazi e la sua figura sono quelli di un anime giapponese che i quarantenni di oggi ricorderanno benissimo. La sua conturbante innocenza contribuirà alla trasformazione del suo personale Hiroshi Shiba in Jeeg Robot d'acciaio, personaggio creato da Go Nagai, che corre “in aiuto di tutta le gente, dell'umanità” (come recitava la sigla del cartoon originale, cantata in modo struggente da Claudio Santamaria sui titoli di coda).
La Tor Bella Monaca bella e dannata – molto cinematografiche, fra l’altro, le sue torri che si stagliano in mezzo al verde – nella quale si muovono personaggi coatti e credibili, pur in un film fantastico, è un punto forte di omogeneità, attraversato da una violenza senza scampo, quella delle cosche e quella trucida dello Zingaro. Delinquente allucinato, quest'ultimo, interpretato dal superlativo Luca Marinelli (che rimanda vagamente alla sua interpretazione di Non essere cattivo di Claudio Caligari): da lui non si riescono a staccare gli occhi di dosso, forse perché mitomane minato da fragilità, che aspira alla fama mediatica come un po' tutti noi, in quest'era folle, forse perché superbo nelle sue esibizioni canore pop anni Ottanta e denotato da un ambiente saturo del colore rosso del sangue e dalla presenza ostile e spigolosa di ganci e guinzagli.
La lotta che Jeeg ingaggia con questa sua nemesi sanguinaria ha risvolti persino comici, pur nel rispetto dovuto ai caratteri di un genere molto amato dal regista. Lo sguardo infatti, pur consentendo momenti addirittura di commozione, rimane esterno, divertito e autoironico. Un altro dei cortocircuiti, questo, che rendono straordinario il film. In modo quasi paradossale, infatti, un genere fra i più costosi oggi, viene realizzato da Mainetti con un budget esiguo e con uso parsimonioso e molto artigianale di effetti speciali: bravi stunt e buone le scazzottate tra i due protagonisti coreografate e provate come fossero passi di danza.
I meccanismi del genere e le scelte registiche, sostenuti da grinta ed energia, funzionano appieno: i piani dal basso a sottolineare la grandezza e la potenza del Jeeg nostrano, i movimenti interni alle inquadrature, il montaggio survoltato, le scene d'azione coinvolgenti. Ogni elemento, allo stesso tempo, supportato da trovate spassose e invenzioni visive, pare venato di una sottile ironia. Ironia condivisa dallo spettatore, che ripercorre tutti i pomeriggi preadolescenziali passati davanti alla TV e anche un po’ della sua vita da adulto aspettando magari che Jeeg Robot arrivi a sconfiggere i malvagi. Tanto che si perdonano anche certe ingenuità (la metafora del palloncino, fucsia come il vestito di Alessia, per esempio, prima “imprigionato” nella delusione di un rapporto sessuale attraverso cui riemergono le violenze subite e poi finalmente libero) che possono addirittura apparire perfette perché da cartoon anch'esse.
Si ride, si provano ribrezzo e raccapriccio (alcune sequenze sono violentissime come fossero mutuate da Gomorra), si vive la catarsi, poi si piange. E si esce sentendosi forti, forti per davvero: sapendo che il mondo fa schifo ma con addosso una maschera, quella di Jeeg. E “chissenefrega” se è lavorata all'uncinetto!
Manuela Russo, cineforum.it. 28/2/2016

Critica (3):Un delinquente asociale di Tor Bella Monaca acquista i superpoteri dopo un tuffo radioattivo nel Tevere e diventa emulo di Jeeg robot d'acciaio, cartone giapponese di culto per i nati negli anni Settanta su una trama così non avrebbe scommesso nessuno, infatti il regista ha cercato fondi per cinque anni e alla fine se l'è prodotto da sé. E invece, dopo l'accoglienza entusiastica della critica al Festival di Roma, Lo chiamavano Jeeg Robot, opera prima di Gabriele Mainetti, sta trionfando in sala oltre due milioni d'incasso in due settimane. Un successo inatteso, soprattutto per un'opera prima, paragonabile alle performance di Se dio vuole e Smetto quando voglio, che però erano commedie, un genere 'sicuro". Come mai questo improbabile spaghetti-manga sta sbancando al botteghino?
La trovata di Jeeg, equivalente dei supererei Marvel nell'immaginario dei giovani adulti italiani, è un'intelligente strizzata d'occhi, ma il successo della pellicola non si fonda sull'effetto-nostalgia: la storia avvince anche chi ignora la saga animata. E il genere dei supererai da noi non è troppo amato (prova ne sia il flop del Ragazzo invisibile di Salvatores). Per stile e contesto, Jeeg ricorda più la serie Gomorra che non Batman e simili. La rappresentazione iperrealista della periferia romana di Tor Bella Monaca richiama da vicino la Ostia di Non essere cattivo di Caligari, con cui condivide l'attore Luca Marinelli: dramma splendido, ma di nicchia.
«Cos'è un eroe?» chiede uno speaker televisivo nell'ultima scena del film: «Un individuo dotato di grande talento e straordinario coraggio, che sa scegliere il bene al posto del male, che sacrifica se stesso per salvare gli altri». Il segreto è tutto qui: Enzo-Jeeg è un eroe, prima che un supereroe. L'archetipo dell'Eroe e il viaggio iniziatico che lo rende tale sono presenti in tutte le culture ed esercitano un fascino immutabile da secoli. Chris Vogler, nel celebre manuale per sceneggiatori Il viaggio dell'eroe, ne decodifica la struttura alla luce degli studi su miti e archetipi di Joseph Campbell e Jung, e spiega che esso continua a "funzionare' perché toccai grandi temi esistenziali: il bene, il male, cosa ci porti a scegliere l'uno o l'altro. Successi planetari come la saga di Star Wars sono variazioni sul tema del 'viaggio dell'eroe'. E così pure Jeeg, che lo adattaa una periferia dell'Italia di oggi, una terra sventurata, quindi assai bisognosa di eroi che, recita il finale, ravvivino la speranza in un futuro migliore. Gli autori hanno assimilato a fondo la lezione del grande cinema americano: lo script è costruito alla perfezione e radicato negli archetipi di cui siamo sempre più affama-ti, in un mondo povero di miti, riti e simboli. Nella Roma di Jeeg sono concentrate tutte le paure del presente: dalla contaminazione nucleare al terrorismo. Lo scontro archetipico bene-male è
attualizzato in chiave narcisista: il cattivo, lo Zingaro, è pronto a tutto pur diventare famoso e avere milioni di visualizzazioni su YouTube, dalla collaborazione con la camorra alla strage allo stadio. Enzo-Jeeg (un eccezionale Santamaria), fallito, emarginato, è il tipico 'eroe riluttante', come il Léon di Luc Besson. Dei super-poteri non sa che farsene, da principio li impiega solo per le rapine; diventa celebre suo malgrado. Non sono i superpoteri a renderlo eroe, ma l'amore. Mentore della trasformazione è Alessia, una ragazza disadattata, figlia abusata di un ex complice di Enzo, che sfugge all'angoscia dei traumi rifugiandosi nel mondo di Jeeg Robot: un'idiota portatrice della saggezza del cuore che ricorda le storielle della tradizione ebraica, uno dei più bei personaggi femminili del nostro cinema recente (Ilenia Pastorelli, già concorrente del Grande Fratello, è una rivelazione). Enzo s'innamora della sua fragilità, desidera proteggerla. Riconosce la propria incapacità di amare, "insegnami tu", le chiede; per la prima volta, incontra qualcuno che creda in lui. L'amore per Alessia si trasforma in qualcosa di molto più grande. Enzo comincia ad agire da eroe non per vendetta (stile Tarantino), né per 'salvare il mondo', ma perché vede il volto di lei dietro quello di ogni persona che ha bisogno d'aiuto. Solo l'amore salva, educa (in senso letterale: tira fuori il meglio) e trasforma, persino nelle realtà più disperate: il messaggio di Jeeg è affine a quello del film di Caligari. L'intuizione felice di Mainetti è alleggerire il dramma con elementi da action movie e fantastici, che sospendono l'incredulità, ci fanno tornare un po' bambini e abbassano le nostre difese ciniche e disilluse. Mainetti e i suoi sceneggiatori hanno manipolato gli ingredienti di un fumettone trash romano come alchimisti, distillando una grande storia di amore e di riscatto capace di toccare il cuore.
Benedetta Tobagi, la Repubblica, 14/3/2016

Critica (4):Anatomia di un film originale e splendidamente riuscito, perla rara nel cinema italiano (...). Contemporaneo, anche: Lo chiamavano Jeeg Robot si fa notare in una cinematografia che guarda al passato come a un’irripetibile età dell’oro – la commedia all’italiana! Federico Fellini! Sergio Leone! la divina Sofia! il divino Marcello! – e quando tenta di imitare i maestri produce film più polverosi degli originali. (...)
Contemporaneo non vuol dire “attuale” – come nella frase cara ai conduttori di talk show “e adesso affrontiamo un tema molto attuale”. Vuol dire contemporaneo, come in “arte contemporanea”. Non nel senso di “questo lo farebbe anche il mio nipotino di tre anni”, ma nel senso che riconosce, per fare un esempio, l’esistenza di un signore che si chiama Banksy e dipinge sui muri. (...)
Nel film di Gabriele Mainetti – classe 1976, quindi esposto all’influenza dei disegni animati giapponesi che alla fine degli anni 70 invasero la tv, oltre a Jeeg spopolavano tra i ragazzini Goldrake e Mazinga, gli adulti come al solito deploravano la decadenza dei consumi culturali – un graffito Banksy-style celebra le imprese del più sorprendente tra i supereroi. Romano di borgata, solitario, il sacchetto della spesa piena di budini alla vaniglia e dvd porno, fuggendo dopo un furto finisce a mollo nel Tevere e invece di beccarsi la leptospirosi diventa fortissimo. Abbastanza per svellere a mani nude un bancomat dal muro, e in quella posa da forzuto viene immortalato dal graffitaro anonimo. (Meno eroico il seguito dell’impresa: i bancomat maltrattati fanno esplodere le bombette di inchiostro, il piccolo criminale scontroso pare l’unico a non saperlo, quindi lava e stende le banconote nel tugurio a Tor Bella Monaca).
Contemporaneo vuol dire che il film, oltre al supereroe suo malgrado – della gente non gli importa, gli amici sino tutti morti malamente, salvare il mondo è l’ultima delle sue preoccupazioni – vanta uno psicopatico riuscito. (...)
Pare facile inventarsi un criminale psicopatico, non lo è per niente. Bisogna dosare bene gli elementi: le isterie, i sogni di gloria, i piani, le vendette di un criminale a una sola dimensione sono poco interessanti. Il cattivo deve affascinare – nel senso di non riuscire a staccagli gli occhi di dosso – e tanto meglio se traspare un po’ di fragilità. Bisogna trovare un tic – per lo Zingaro, una remota partecipazione a “Buona Domenica”, che lascia al nostro la smania di aver successo come cantante. Poiché siamo nella contemporaneità non bisogna riempire le sale ma accumulare visualizzazioni su YouTube (siamo anche un po’ più avanti, nel tempo: Roma è scossa dagli attentati, il telegiornale accenna alla “destra oltranzista”). Bisogna alternare momenti di calma a momenti di furia, e saper lavorare in controtempo: la prima volta che esplode e sbraita è per motivi tutto sommato futili.
Con i suoi occhi spiritati, la catena sul petto, gli stivali con tacchetto (molto chiacchierati ai piedi del candidato Marco Rubio), Luca Marinelli è straordinario. Non pare neanche lo stesso attore che avevamo visto in La solitudine dei numeri primi di Saverio Costanzo. Vuole fare il colpo grosso (quello che dovrebbe svoltare la vita e al cinema è sempre foriero di guai). Canta, nella buona e nella cattiva sorte (“Un’emozione da poco” di Anna Oxa e “Ti stringerò” di Nada), spaccia, tenta un affare di cocaina con Nunzia la zoppa, a capo di una banda di napoletani.
E poi c’è la ragazza. Ragazze così convincenti, dal punto di vista narrativo, ne avevamo conosciute soltanto nel romanzo di Niccolò Ammaniti “Come Dio comanda”, le amiche adolescenti Fabiana e Marina. Questa si chiama Alessia, è scombinata assai, cresciuta nel corpo ma infantile nella mente, e legge il mondo attraverso le avventure e i personaggi di “Jeeg Robot d’acciaio”: i cattivi esistono – e si fanno vivi prestissimo anche con lei – ma confida in Jeeg Robot che salverà il mondo. Quando diciamo “legge il mondo” vuol dire che lo legge proprio: usa i personaggi per orientarsi in un mondo che appare confuso anche a ragazze più sveglie o esperte.
Vale come esempio la scena al centro commerciale, quando descrive i clienti ricollegandoli all’universo mitico di Hiroshi, del doppio maglio perforante, della gente che parla “turchese”. E dunque se ne esce con la frase (la trascrizione fonetica del romanesco di borgata è superiore alle nostre forze, chiediamo perdono): “Dormono in un letto pieno di fiori, ma mica perché son morti, perché sono felici”. Ilenia Pastorelli è l’attrice, proveniente dal Grande Fratello dodicesima edizione. Ha una svagatezza e una presenza che vendica tutte le femmine smaniose e nevrotiche – architette, psicoanaliste, scrittrici, in genere interpretate da Laura Morante o da Margherita Buy – sopportate in questi anni. (...).
Guardaroba limitato ma perfetto, addosso alla tenera e scombinata Alessia, con una preferenza per il rosa e il fucsia. Si apprezza anche il fatto che Claudio Santamaria sia ingrassato venti chili per la parte del supereroe suo malgrado. Prova i suoi poteri piegando a fisarmonica un termosifone, dopo aver notato che le ferite curate con il nastro adesivo a tener fermo uno straccetto non pulitissimo guariscono da sole.
Non è invece tanto buono a scegliersi le scarpe, gli fa notare Alessia e insomma, solo alla fine (…) arriva una sorpresa che non ci sentiamo di rivelare. Diciamo solo che la panoramica conclusiva su Roma, classico punto di vista del supereroe, riprende l’inizio del film. (...)
Se c’è una pistola in un racconto la pistola sparerà – lo insegnano Cechov e Tarantino, in mezzo tutti i geniacci che sanno costruire storie, possente calamita per la nostra attenzione. Anche i ferri da calza hanno il loro bel momento, nella sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Roberto Marchionni in arte Menotti. L’ottima trama e i dialoghi azzeccati fanno sì che anche lo spettatore meno interessato ai manga giapponesi (per sfasamento generazionale o per gusto personale, ne esistono) veda il film senza annoiarsi.
Lo stesso vale per lo spettatore che a sentir nominare Tor Bella Monaca teme di essere risucchiato in un universo pasoliniano fuori tempo massimo. Non lo era, a guardar bene, neppure “Non essere cattivo”, film postumo di Claudio Caligari: le buone sceneggiature tengono lontana l’ideologia come l’aglio i vampiri, e le periferie non sono un’esclusiva della Città Eterna. L’uno e l’altro spettatore sospettoso, e pure chi fatica a collocare Jeeg Robot, troverà nel film motivi per arrivare fino alla fine, oltre che per divertirsi. (…)
Mariarosa Mancuso, Il Foglio, 19/4/2016
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