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Adieu au langage - Addio al linguaggio - Adieu au langage


Regia:Godard Jean-Luc

Cast e credits:
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard; fotografia: Fabrice Aragno; montaggio: Jean-Luc Godard; interpreti: Héloïse Godet, Zoé Bruneau, Kamel Abdelli, Richard Chevalier, Jessica Erickson, Christian Gregori; produzione: Wild Bunch; distribuzione: BIM; origine: Francia-Svizzera, 2014; durata: 70’.

Trama:Una donna sposata e un uomo single si incontrano. Si amano e litigano altrettanto appassionatamente. Nel frattempo, un cane randagio vaga per la città; le stagioni passano e un altro film ha inizio...

Critica (1):Nel documentario di Alain Fleischer del 2007 Morceaux de conversations, Godard dice che il cinema è una macchina che serve per vedere quello che i nostri occhi non sono in grado di vedere, così come il telescopio e il microscopio ci rendono visibile l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande. Parafrasando la frase di Monet che ci guida in Adieu au langage: «Non si [fa cinema] né di quel che si vede, né di quel che non si vede. Si [fa cinema] del fatto che non si vede». Cioè, si fa cinema a partire dal luogo dove i nostri occhi non possono arrivare. Perché il cinema è questo: immaginare senza la realtà. Si deve andare contro la nostra visione naturale. «Sono qui per dire no e per morire», dice Godard. «La realtà è solo il rifugio per chi non ha immaginazione», si dice all'inizio del film. È la macchina che ci fa andare contro la realtà.
Godard sappiamo che è abituato ai gesti di rottura. E il suo cinema si è sempre basato sull'idea che l'immagine non deve fare uno, non deve congiungersi allo spettatore e gettarsi nella sua braccia: deve dividere, deve spezzare, deve frustrare le false unità. Il visibile è divisione. E infatti il 3D non serve a potenziare la sensazione di identificazione all'immagine, ma funziona come se fosse una seconda macchina da presa che si mette contro e di traverso alla prima (come avviene genialmente in paio di punti del film dove il 3D mette letteralmente due immagini una sopra l'altra). Adieu au langage è un film che ci parla del rapporto tra immagine e linguaggio e ci rimanda quest'idea tipicamente godardiana della visione come divisa e antagonista, che è l'unica secondo Godard che appartiene specificatamente alle potenzialità del cinema. Il cinema però se n'è dimenticato preferendo sottomettersi alle richieste pacificanti della narrazione e diventando una pratica di illustrazione di romanzi. È l'accusa che viene mossa al cinema nelle Histoire(s) e che ritorna ancora qui: l'immagine è morta quando è diventata tutt'uno con la parola e ha rinnegato la sua libertà. Perché la liberta è quella di essere separati ed estranei: «Solo gli spiriti liberi sono estranei l'uno all'altro».
Il problema è allora quello di riconoscere questa separazione e fare come Frankenstein di Mary Shelley, che diventa un oggetto senza spessore e che opera una divisione dell'umano da sé stesso. Vedere è una conseguenza della divaricazione di parola e immagine. La parola non serve più a dirci cosa c'è sull'immagine, come fa il cinema illustrativo che vuol dirci dove andare a guardare. Anzi, in questo film le parole, come accade spesso in Godard ci confondono la visione e si sovrappongono l'una sull'altra – il 2D sotto al 3D – perché parole e immagini non si uniscano e diventino un segno, che invece è proprio quello che indica dove andare a guardare (e quindi acceca il visibile). Il film è diviso in due capitoli – che ritornano due volte –, la natura e la metafora. Godard vuole dirci che non c'è la natura e poi dopo il linguaggio che ci dice com'è la natura (cioè la doppiezza di immagine e significato). Questa è l'idea del linguaggio di Dio che accoppia a una a una parole e immagini (Ah dieux! Oh, langage!) e che vela e svela come la coppia protagonista del film che infatti viene continuamente vista tra il vestito e il nudo. Invece dobbiamo andare verso un'immagine e una realtà che sono già divise in sé stesse e che non hanno nulla da scoprire o da coprire, come insegnano gli onnipresenti cani «che infatti non sono né vestiti né nudi». È un mondo che va oltre la divisione di natura e metafora: un mondo e un'immagine che sono infiniti in se stessi, come si dice nel film citando Badiou («Lo zero e l'infinito sono le più grandi invenzioni della storia») o come mostrano i romanzi di fantascienza di A.E. Van Vogt (a un certo punto compare La Fin du ?, che è un romanzo giocato tutto sulle logiche non-aristoteliche, dove coesistono le contraddizioni di A e non A). È un mondo che ha detto davvero adieu au langage.
Pietro Bianchi, Cineforum n. 535, 6/2014

Critica (2):È uno dei tanti luoghi comuni dell'anticritica: i film di Godard sono incomprensibili, e la sua ultima regia (...) ne sarebbe l'ennesima dimostrazione. Potrebbe essere vero se ci si accostasse a un suo film come a un'opera tradizionale, ma sono anni che Godard ha abbandonato questo tipo di linguaggio cinematografico per percorrere altre strade. Così è anche per Adieu au langage. Verso i due terzi del film la donna «protagonista», seduta davanti a un video dove scorre Metropolis di Lang, dice di aver «sempre odiato i personaggi». È Godard che parla per bocca sua e ci vuole dire che questo film non ha una trama (con dei personaggi) ma piuttosto vuole dare forma e immagine ad alcune idee che gli stanno a cuore. E lui che ha sempre usato i suoi film per fare i conti con la Storia, affronta anche qui lo scontro tra Natura e Storia come ha sempre fatto col suo cinema: da una parte come capacità di racconto, dall'altra come capacità di intervento. La dialettica Storia/Natura (all'inizio del film, le persone che agiscono, che fanno versus i panorami che si ammirano, che si fanno osservare) si riflette nelle due «anime» del linguaggio cinematografico, la finzione e il documentario, il montaggio e il piano-sequenza, Sergej Ejzenstejn contro Dziga Vertov. Con gli anni, però, Godard sembra aver perso fiducia nella Storia, nella sua capacità di «guidare» la Natura. Come spiega con il paradosso del 1938, quando Hitler andò al potere e nacque la televisione: perché è vero che la Storia ha sconfitto il nazismo ma poi Godard ci dice che le sue idee hanno vinto proprio grazie alla televisione. Ecco perché in questo film la Storia è ridotta a poche scene «prive di senso» (corse, fughe, colpi di pistola) mentre la Natura conquista più spazio, come mostra un cane che scorrazza allegro. Godard ha sempre raccontato storie di coppie, dai tempi di Fino all'ultimo respiro, ma ogni volta accentuando un suo percorso di «semplificazione». Anche qui c'è una coppia, ma senza nome e spesso senza vestiti, ultimo stadio di un processo d'astrazione che ha «cancellato» i personaggi a favore della loro essenza. Ecco il perché dei primi piani sul ventre di lei e la sua «foresta» di peli (...) o di lui seduto in bagno: la donna e l'uomo «ridotti» alle loro funzioni vitali. Senza Storia, solo con la loro Natura. Ma siccome Godard è prima di tutto uomo di cinema, ecco che non può dimenticare il nesso tra linguaggio, storia e tecnologia, che trova la sua sintesi nell'uso del 3D, letteralmente la capacità di sovrapporre due immagini per farne una. A volte perfettamente fuse, altre volte impossibili da decriptare (bisogna guardare con un occhio solo, alternando destro e sinistro), perché il processo dialettico capace di «unire gli opposti» - in questo Godard 'è rimasto un marxista - ha ancora molta strada da fare. Tutto è perduto allora? No, perché il film si chiude sul vagito beneaugurante di un neonato, mentre i versi cantati all'inizio e alla fine da Pino Masi (...) sono un inno alla speranza. Adieu au langage non è un addio, è un nuovo inizio.
Maurizio Porro, Corriere della Sera, 17/11/2014

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