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Kinski, il mio nemico più caro - Mein liebster Feind - Klaus Kinski


Regia:Herzog Werner

Cast e credits:
Sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Peter Zeitlinger; musiche: Popol Vuh; montaggio: Joe Bini; interpreti: Claudia Cardinale, Werner Herzog, Eva Mattes, Beat Presser, Justo González, Benino Moreno Plácido, Guillermo Ríos, Andres Vicente; produzione: Werner Herzog Filmproduktion- Arte-Bbc-Bayerische Rundfunk-Cafe Productions-Finnish Broadcasting Company-Independent Film Channel-Westdeutscher Rundfunk-Zephir Film; distribuzione: Ripley’s HV; origine: Gran Bretagna- Germania-Finlandia-Usa, 1999; durata: 95’.

Trama:Werner Herzog ritorna nella casa di Monaco in cui, intorno agli anni Cinquanta, convisse per tre mesi assieme a Klaus Kinski. Qui racconta ai nuovi inquilini gli episodi e le gesta "folli" di Kinski durante la sua permanenza nell'appartamento. Herzog si reca successivamente sui luoghi in cui girò i film più importanti con l'attore: in Perù per Aguirre, furore di Dio, sul Rio delle Amazzoni per Fitzcarraldo. A distanza di una ventina d'anni, incontra nel suo viaggio attori, comparse e persone che conobbero Kinski e che parteciparono alla lavorazione delle varie opere. Immagini odierne si alternano a sequenze girate sui vari set: Kinski che in preda ad un raptus di follia si scaraventa contro le comparse e le colpisce veramente con la spada fino a ferirne una sulla testa, e che, durante le riprese di Fitzcarraldo, si infuria con il produttore esecutivo a causa del cibo. Tra le attrici che hanno lavorato con Kinski, Herzog incontra Eva Mattes che recitò nel Woyzeck e ClaudiaCardinale che fu protagonista di Fitzcarraldo.

Critica (1):In cima alle montagne peruviane dove girò Aguirre, Herzog racconta della prima volta in cui vi giunse: era al sesto film e aveva ventotto anni. Le nuvole avvolgevano le rocce tutt'intorno, descrivendo un'atmosfera irreale - che sarà la cifra stilistica dell'intero film. Il ricordo di un momento irripetibile, l'idea di assistere a uno spettacolo unico fa sì che Herzog affermi come quel giorno si «sia sentito definitivamente in pace con il proprio destino». Poi abbassa gli occhi e lentamente si volge sulla sinistra, noi seguiamo il suo sguardo e il movimento di macchina si apre sulle immagini delle verdi pareti dei monti peruviani.
Penso che il cinema di Herzog nasca proprio da qui, dall'incontro con un'esperienza forte di vita – autodidatta, visse a lungo isolato sulle Alpi bavaresi, viaggiò giovanissimo per l'Europa e l'Africa – in cui il mezzo cinematografico è unicamente strumento di testimonianza, capace di immortalare per sempre il divenire della realtà.
Herzog diresse Klaus Kinski per ben cinque volte - Aguirre, furore di Dio (1972), Nosferatu - Principe della notte e Woyzeck (1978), Fitzcarraldo (1982) e infine Cobra verde (1988) – lasciando un segno indissolubile quanto indimenticato nel cinema mondiale degli anni Settanta. Da quell'esperienza densa di implicazioni e conseguenze per entrambi, vissuta sulla lama della pazzia e tra reciproci propositi omicidi, nasce l'ultima opera di Herzog presentata fuori concorso a Cannes.
Sulla scena di un teatro, gli occhi allucinati di Klaus Kinski, folle one-man-show, scrutano la platea. Recita «Jesus», proferendo parole di condanna contro l'idolatria: «Non sono la vostra superstar!» Uno spettatore incautamente contesta attore e spettacolo. Chiamato a spiegare le proprie ragioni sul palco, tenta di invocare tolleranza e umiltà, viene invece offeso e maltrattato dallo stesso Kinski che maledicendolo distrugge l'asta del microfono, e andandosene si rifiuta di continuare finché questi rimarrà in sala. Di seguito, dissolvenza in apertura, compare una casa vista da fuori illuminata da una giornata di sole. Herzog di spalle suona un campanello. Due anziani signori aprono la porta e lo lasciano entrare. Per Herzog si tratta di un ritorno al passato – all’epoca aveva tredici anni – a ciò che è stato e che è irrimediabilmente perduto. L'emozione sul volto del regista è evidente. Con una certa agitazione comincia il racconto della sua lunga e travagliata amicizia con il "caro nemico" Kinski.
La rievocazione del periodo di convivenza evidenzia fin da subito la abnorme personalità di Klaus Kinski. Capace di rinchiudersi nel bagno, urlando ininterrottamente per quarantotto ore e devastando ogni cosa nell'intorno. Oppure di scagliare rabbiosamente patate bollenti contro un ignaro critico che, parlando della sua recitazione in una piccola parte a teatro, lo ha definito semplicemente «straordinario», mentre egli si autodefinisce «monumentale». Kinski – racconta Herzog agli increduli ascoltatori – viveva completamente nudo in una stanza ricoperta di foglie morte. Gli attuali inquilini restano quasi allibiti di fronte a tali vicende e, forse per educazione, evitano di commentare ulteriormente (e chissà se hanno mai visto un film di Herzog).
Dalla visita dell'appartamento di Monaco in cui Herzog incontrò per la prima volta Kinski, inizia il viaggio a ritroso nella memoria personale che man mano diviene anche cinematografica. Ma ciò che interessa Herzog, e che rende questo finto documentario opera di enorme bellezza, non è certo la folle e tutto sommato facile aneddotica su Kinski. Che l'opera si presenti come un documentario su Kinski non impedisce infatti di riconoscere come co-protagonista del film lo stesso Herzog. In fondo i due presentano profili psicologici specularmente "folli" e asociali. Il titolo, ossimorico, contiene l'ambivalenza di sentimenti ma anche indirettamente l'omaggio ad un possibile "doppio" di sé. La follia incontrollata e convulsa di un Kinski non è certo maggiore di quella ossessiva e maniacale del regista, che ha fondato la propria poetica visionaria e insieme del fallimento, sul lato autenticamente fisico dell'impresa. Spesso infatti si è confuso tra i due aspetti, valutando erroneamente ciò che attiene unicamente alla preparazione e alla realizzazione di un opera con quelli che sono ili esiti artistici. E tuttavia è impossibie non considerare questo aspetto come pietra angolare su cui Herzog ha edificato la propria visione di cinema. Rivolto a Kinski deciso a lasciare il set di Aguirre, Herzog dice: «Il film è più importante dei nostri sentimenti personali, ed è più importante di noi stessi...». La totale e indiscriminata dedizione all'opera travalica ogni altra considerazione, ogni intromissione del sentimento "umano".
Il bisogno di tornare sui set naturali in cui furono girati film epocali come Aguirre o Fitzcarraldo si presenta allora come un tentativo di ridare senso, ma anche di fornire una verifica, una conferma del proprio lavoro. Il bisogno di ricucire ciò che è perduto per sempre evidenzia la natura stessa del dispositivo cinematografico. Come un gesto riparatore, il cinema riesce a materializzare – anche a distanza di decenni – i ricordi oramai sbiaditi del nostro vissuto. Allora l'operazione di rievocare il passato attraverso gli spezzoni girati sul set non è tanto finalizzata a mostrare il lato sconosciuto e "inedito", quanto a legarsi e ritornare direttamente alla propria esperienza reale di vita. Ci si può infatti impressionare per la violenza verbale, l'irascibilità scomposta, il carattere belluino di Kinski che insulta regista o produttore, ma ciò che davvero percepiamo è l'implacabile funzionamento della macchina-cinema. Il viaggio che Herzog compie alla ricerca delle tracce invisibili di Kinski è naturalmente anche un viaggio interiore. Direi anzi che il viaggio assume una dimensione "religiosa” , una sorta di pellegrinaggio sui luoghi sacri del proprio passato. Tappe capitali entro cui si è costruita la storia personale del regista e che hanno poi modificato il percorso stesso delle successive prove.
Ciò che distingue Herzog dalla maggior parte dei suoi “colleghi” è la pratica direi ostinata, continua – e nell’ultimo decennio esclusiva – del documentario. Dove tale scelta si inscrive nell'urgenza e nella pretesa di raccontare la "realtà" nel momento stesso in cui accade. «Non si può dirigere, le cose accadono da sole» dice Kinski in un'intervista. Eppure non parliamo dell'equivoco di un cinema-verità. La totale assenza dei suoni d'ambiente mira a trasfigurare il paesaggio naturale in una presenza inquietante e ostile. Avviene infatti che più di una volta – si pensi alla discesa infernale di Aguirre lungo le montagne del Machu Picchu – ci si chieda coma abbia potuto portare troupe e macchina da presa in quei luoghi scoscesi e impervi. Ve deriva lo sguardo precario – incarnato dalla "macchina a mano" incerta e traballante – e assurdamente "non-umano" proveniente da un ipotetico "altrove", proprio di altri filmati (in primis Apocalisse nel deserto, ma anche il precedente Fata Morgana).
Herzog anzitutto "mette in scena" – come nella migliore tradizione anarchica – direttamente sé stesso. Spesso è in campo a parlare in prima persona di ciò che lo ha spinto a realizzare l'opera, delle intenzioni sottostanti. Il film-documentario ci parla di Kinski e dei suoi accessi di rabbia, ma ci svela anche indirettamente i tratti ossessivi del cinema di Herzog. Un cinema titanico e prometeico, incentrato sulla continua sfida a superare sé stesso.
Gli eventi si condensano nella memoria di Herzog per libera associazione. A tal punto che egli stesso, rievocando il film All'est si muore in cui vide Kinski recitare per la prima volta, riconosce: «E strano come la memoria possa ampliare un ricordo del genere». Il montaggio ci mostra ripetuto il risveglio di Kinski, come a giustificare selettività e casualità del ricordo. Herzog sostiene infatti che la visione di tale scena fu determinante per la sua vita professionale.
I movimenti di macchina documentaristici odierni culminano nel salto temporale all'indietro, incontrando la propria continuazione "ideale" nel movimento originario. Lo sguardo attuale rivolto da Herzog al monte peruviano prosegue fluidamente, senza soluzione di continuità, nella discesa della colonna dei conquistadores spagnoli capitanati da Aguirre. Si crea in tal modo un sorprendente prolungamento del tempo, grazie all'uso sapiente del montaggio, tra il ricordo basato sulla sola memoria e le immagini fissate per sempre dall'obiettivo cinematografico.
Memoria e cinema si fondono fino a fare svanire ogni diversità. Come avviene per il controcampo "impossibile" tra Kinski/Aguirre seduto sulla riva del fiume che si volta verso un soldato spagnolo e l'Herzog invecchiato che si guarda attorno sulle rocce. O ancora l'uscita di scena di Kinski, avvenuta nel 1991 a Los Angeles (racconta Herzog: «Si è letteralmente spento»), e la sua morte "messa in scena" appunto nel finale di Nosferatu, in cui il vampiro in preda alle convulsioni per il sopraggiungere della luce, si contorce a terra.
Nel finale delirante Aguirre, tra sé e sé, ripete ossessivamente la propria mania di onnipotenza: «E metteremo in scena la storia, così come altri mettono in scena opere teatrali». A partire da questo folle proposito potremmo leggere l’intera opera di Herzog, fatta di squarci folgoranti, immagini apocalittiche, che ne è la vera e autentica esemplificazione.
Wenders in quel suo personale documentario sul Giappone che è Tokyio-ga, incontra Herzog, diretto in Australia, in cima ad una avveniristica torre che domina Tokyo. L'uno predilige la città e il suo brulicare, l'altro è alla ricerca di immagini "nuove", incontaminate. E le sue illuminazioni improvvise, le trasfigurazioni "mistiche" hanno davvero cambiato, come ha scritto P. Loffreda, «il nostro modo di immaginare la realtà».
«Ogni capello bianco lo chiamo Kinski». Così Herzog ripete al fotografo Beat Presser. Nel corso della ricerca dentro al proprio passato Herzog assume differenti stati d'animo. Talvolta appare sereno, rievocando con gioia trattenuta gli episodi della loro convivenza. Ripercorre con precisione i movimenti, e parole, mima i gesti. E come se avesse l'amico di fronte per davvero. Come quando ricorda il modo di Kinski di entrare in campo: la "spirale kinskiana", ovvero uscire da dietro la macchina da presa e poi torcersi in un movimento avvolgente al fine di creare un effetto sottilmente insinuante. In altri casi si rabbuia improvvisamente, quasi avesse percepito in quell'attimo l'assenza perenne dell'amico. Kinski che non ride mai negli oltre duecento film interpretati, ma capace di inusitate gentilezze con Claudia Cardinale durante le riprese di Fitzacarraldo.
Nelle ultime scene, mentre scorrono immagini catturate durante le pause di ripresa, vediamo Kinski ed Herzog su una barca in mezzo al mare, e sono stranamente felici. La fotografia, sfocata e segnata dal tempo, è come un tuffo repentino in quello che siamo stati: «A volte vorrei mettergli ancora un braccio sulle spalle, ma lo sogno solo perché l'ho visto in vecchi filmati nostri». Nella ripresa finale invece il ricordo lascia posto ad un luminoso quadro di Kinski che gioca con una farfalla. Ed i movimenti quasi perfetti somigliano ad una danza. Il cinema lavora a tal punto sulle nostre vite perché ha la consistenza stessa dei nostri ricordi.
Alberto Soncini, Cineforum n.393, 4/2000

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