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Austerlitz


Regia:Loznitsa Sergeï

Cast e credits:
Soggetto: Sergeï Loznitsa; fotografia: Sergeï Loznitsa, Jesse Mazuch; montaggio: Danielius Kokanauskis; produzione: Sergei Loznitsa per Imperativ Fi; distribuzione: Lab80; origine: Germania, 2016; durata: 94'.

Trama:Ci sono posti in Europa che sono sopravvissuti come dolorosi ricordi del passato: le fabbriche in cui gli esseri umani sono stati trasformati in cenere. Questi posti ora sono divenuti luoghi della memoria, aperti al pubblico e visitati da migliaia di turisti ogni anno. Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da Winfried Sebald e dedicato alla memoria dell'Olocausto. Concentrandosi sui visitatori di questo luogo della memoria fondato sul territorio di un ex campo di concentramento, il film cerca di rispondere a due quesiti. Perché la gente ci viene? Che cosa sta cercando?

Critica (1):Una riflessione necessaria sul valore della memoria. Sergei Loznitsa si posiziona con la macchina da presa davanti all'ingresso del lager a guardare la gente che entra; poi si va dentro al lager a guardare la gente che gira per il campo; alla fine, la macchina da presa torna fuori dal lager a guardare la gente che esce. “La macchina da presa è impassibile, non si muove, guarda e basta. Guarda i visitatori che sono turisti in tenuta da turista, cappellini, canottiera, scarpette, ciabattine. Su una maglietta c'è la scritta molto azzeccata, "Jurassic Park": siamo in un parco a tema e il tema riguarda una storia lontana, preistorica. I turisti parlano tra loro, si guardano in giro, ascoltano quello che dice la guida, si sentono lingue diverse, non c'è tensione. Il luogo dell'orrore diventa il luogo di una passeggiata. Una gita nel campo. “Austerlitz” è il più importante e il più sconvolgente tra tutti i film della Mostra. Ci mette di fronte, senza neppure l'ombra di un commento, al nostro non sapere più come voltarci indietro verso la storia, verso le rovine della storia. Walter Benjamin, in una famosa pagina, ha descritto l'angelo della storia: "C'è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un'unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l'angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera" ("Sul concetto di storia"). L'angelo di Benjamin avanzava indietreggiando verso il futuro e vedeva crescere, ai suoi lati le rovine della storia passata. Oggi, i visitatori del campo non guardano verso il passato: avanzano rivolti al futuro e non sanno più vedere gli orrori del passato. Non guardano al lascito drammatico che la tragedia del passato ci consegna; guardano il passato come un repertorio di cose lontane, cui rendere un omaggio passeggero. Si passeggia nel campo in una calda giornata d'estate. "Austerlitz" non accusa nessuno. Non questi turisti. "Austerlitz" prende atto nelle sue inquadrature fisse e lunghe che è così che guardiamo alla storia ed è per questo che diventa un film inesorabile. Non abbiamo più la storia, non riusciamo a farla nostra. La storia è lontana, non è più qui. Tutti i film sulla Shoah cercano di riportarla qui. "Austerlitz" mostra con tragica semplicità che non sappiamo, non riusciamo a farlo. Nella foto di famiglia sotto la scritta "Arbeit macht frei" c'è la famiglia, soltanto la famiglia. L'orrore non sta neppure nel fuoricampo”.
Bruno Fornara

Critica (2):Sergei Loznitsa entra nel campo di concentramento di Sachsenhausen – a Orianenburg, 35 chilometri a nord di Berlino – in una calda giornata estiva. Tutto quello che fa è piazzare la macchina ad altezza uomo e lasciarla lì, dritta e frontale, a riprendere i gruppi di turisti che passeggiano per il campo.
Il risultato è una serie di piani sequenza in campo fisso, fotografati in bianco e nero, che montati l’uno dopo l’altro formano un percorso (dall’entrata all’uscita) che è quello del giro turistico prestabilito e indicato da cartelli, guide e audioguide, ma è anche il percorso cui – giorno dopo giorno, sapendo di poter morire da un momento all’altro – erano costretti i prigionieri durante la detenzione. L’impressionante spettacolo va ben oltre il giudizio – facile e scontato – di condanna e di ribrezzo nei confronti delle persone che visitano un luogo di morte, dolore e sofferenza con la leggerezza con cui si visitano una pinacoteca o un sito archeologico. Il disprezzo per il turista che si fa i selfie nei crematori e nelle camere a gas, che si mette in posa per la foto sul palo delle esecuzioni o che passeggia allegro fra i viali delimitati da dormitori, baracche e celle di detenzione e mangia il pranzo al sacco seduto sul lastricato che separa la strada dalle fosse comuni, anche se è la prima e naturale reazione di ogni spettatore, non deve trarre in inganno né condurre a semplicistiche e banali conclusioni su quello che il film dice e mostra.
Siamo proprio sicuri che ci comporteremmo tanto diversamente se fossimo al loro posto? Probabilmente no, o magari sì, o forse semplicemente sceglieremmo di non metterci nemmeno piede, lì dentro, in un campo di concentramento. In fondo non è questo il problema. Io – perché, sì, un film come questo chiama in causa ciascuno di noi e porta a usare la prima persona singolare – io che in un campo di concentramento non ci sono mai stato e forse non c’andrò mai, mi sono domandato cosa farei se mi trovassi al posto delle persone mostrate nel film. E non ho saputo darmi una risposta.
Perché in realtà ciò su cui il film intende ragionare è il senso della testimonianza e della memoria dell’orrore, nel momento in cui la possibilità di raccontarlo, questo orrore, diviene un problema morale.
Se le parole di Adorno sull’impossibilità di fare arte dopo la Shoah sono ancora attuali, e il bisogno di produrre testimonianza posto da Celan o Primo Levi è pur sempre vero, un concetto tanto eterogeneo e sfumato come quello del turismo, quando entra in contatto con un luogo tanto inconcepibile, sfugge a ogni teoria sull’etica e sull’estetica della memoria avanzate nel Novecento.
Loznitsa dimostra (e ammette nel pressbook del film) di non saper dare un giudizio su ciò che riprende, né di aver compreso esattamente di cosa si tratti. Per questo utilizza come strumento di avvicinamento e interpretazione il libro – da cui il film prende il nome – di Sebald.
Il film, analogamente, usa il filtro dell’architettura per comporre l’immaginario dell’orrore e del dolore con il quale viene a contatto. Gli edifici, che secondo Sebald conservano memoria e connotano visivamente e in maniera emozionale e concettuale un luogo, diventano allo stesso tempo strumenti di evocazione della memoria. Pongono in relazione un luogo con la storia che gli appartiene, e attraverso esso gli individui che vi entrano in contatto. Se il rapporto fra individuo e collettività nel romanzo è uno dei temi fondamentali, nel film l’attenzione maggiore sembra posta sul concetto di massificazione (mercificazione) dell’esperienza del dolore e del trauma.
Come nel precedente The Event (presentato alla Mostra dello scorso anno), in Austerlitz Loznitsa rinuncia a descrivere le cose in maniera precisa ed esaustiva e lascia che siano gli elementi in campo a determinare il racconto. Se là questo compito toccava ai volti e le facce dei protagonisti inconsapevoli della caduta del regime sovietico, qui sono proprio i luoghi, e per questo ogni inquadratura, ogni campo lungo e fisso a caricarsi di un valore testimoniale ricchissimo di metafore.
Ogni inquadratura costruisce e determina uno spazio, ogni prospettiva si fa dialettica e si dimostra capace di produrre senso (all’interno del totale non-senso). Il posizionamento a distanza, la frontalità e la presenza di una macchina che sta nascosta alla vista di chi le è di fronte (sono poche le volte nelle quali registriamo un sguardo in camera o in cui qualcuno dimostra di avvertire la presenza dell’operatore) ricordano le vedute dei fratelli Lumiére – il finale con l’uscita dei visitatori dal cancello del campo che reca la scritta “Arbeit Macht Frei” rievoca La Sortie de l'usine Lumière.
Ed è proprio sullo stile essenziale dei due inventori del cinema che è modulata l’intera operazione di Austerlitz. Non scegliendo un punto di vista e non volendo aderire a una prospettiva “interna”, Loznitsa, sapendo benissimo di non poter arrivare a produrre uno sguardo autentico, trova il modo di essere neutrale e di estromettere dal testo qualsiasi possibile caduta voyeuristica. In questo modo, i protagonisti del film, i turisti dell’orrore, non sono più elementi difformi e incongrui al contesto che li circonda, ma da soggetti che osservano diventano oggetti di uno sguardo. Omogeneizzandosi, di fatto, al luogo che li ingloba e caricando di un senso nuovo, diverso e ancora più atroce, il significato di memoria. Ormai del tutto sovrapponibile a quello di souvenir.
Lorenzo Rossi, cineforum.it, 8/9/2016

Critica (3):L’idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso. (...)

Non ho mai pensato che sarei venuto qui. Passando ho visto il cartello e si è spento. Il passaggio conduce lungo la strada e si gira di lato. Gli edifici sono disposti in semicerchio: case dove le persone vivono, le persone normali in case normali. Le auto sono allineate nel parcheggio. Si tratta di una tranquilla e calda giornata estiva. Niente di insolito. Questi edifici appartengono al territorio? A destra, , b o, c’è recinzione e l'ingresso è costruito in perfetta simmetria. La gente cammina dietro il recinto, turisti. Tutti seguono una logica precisa. Da una zona piena di carbone di legna incorniciata con pietre bianche, alla successiva. Un cartello, un numero di una baracca, cartello successivo, altro numero di baracca, l'infermeria, un fienile. Le persone si aggirano da sole o in gruppo. Guardano da finestre e porte, si fermano ai punti informazione. I visitatori sono interessati a tutto. Ogni roccia, ogni iscrizione. In questo luogo furono sterminati donne, uomini, bambini; questo è stato un luogo di sofferenza e di dolore. Ed ora io sono qui. Un turista. Con tutte le curiosità tipiche di un turista. Senza alcuna nozione di ciò che voleva dire essere prigioniero nel campo di concentramento: un numero, in attesa della morte, aggrappato alla vita. Io sto qui e guardo il macchinario per lo sterminio dei corpi umani. Tracce di vita, qualche tempo fa, molto tempo fa, qui e ora. Cosa ci faccio qui? Cosa ci fanno tutte queste persone, che si muovono in gruppi da un oggetto all'altro? Ciò che induce migliaia di persone a trascorrere i fine settimana estivi in un ex campo di concentramento è uno dei misteri di questi luoghi della Memoria. Si può fare riferimento alla buona volontà, al desiderio di compassione e pietà che Aristotele collega con la tragedia. Ma questa spiegazione non risolve il mistero. Perché una coppia di innamorati o una madre con il suo bambino vanno a fare visita ai forni crematori in una giornata di sole estivo? Ho concepito questo film per cercare di confrontarmi con queste domande.
Sergei Loznitsa, dal pressbook del film

Critica (4):
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