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'na specie de cadavere lunghissimo


Regia:Bertolucci Giuseppe

Cast e credits:
Soggetto: Fabrizio Gifuni - materiali per una drammaturgia da Pier Paolo Pasolini - "Scritti Corsari", "Lettere Luterane", "Siamo tutti in pericolo" (intervista di Furio Colombo a P.P.P. dell'1/11/1975), "La nuova forma della meglio gioventù", testi di Giorgio Somalvico; interpreti: Fabrizio Gifuni; disegno luci: Cesare Accetta; origine: Italia, 2004; durata: 70'

Trama:Fabrizio Gifuni affronta un lavoro particolarmente ambizioso: trovare il nodo poetico che ha unito Pier Paolo Pasolini ai suoi assassini. Sotto la guida del regista Giuseppe Bertolucci, nasce "'na specie de cadavere lunghissimo", un progetto che mette insieme i testi più polemici e politici di Pasolini (fra cui "Scritti corsari", "Lettere luterane" e l'ultima intervista rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di morire) a un poema di Giorgio Somalvico ("Il pecora"), che costringe in metrica il delirio di un assassino, proprio a sottolineare l'incontro/scontro fra due diversi punti di vista sulla cultura popolare

Critica (1):Un monologo, un atto unico di una sola ora, ma intenso come raramente capita di trovarne; un unico atto scomponibile in tre scene, tre tempi di una stessa unica musica, un requiem lento e inarrestabile al tempo stesso, una sinfonia di morte, un assolo di dolore. In scena c'è Fabrizio Gifuni, il Pier Paolo Pasolini degli ultimi giorni, l'uomo critico che avverte tutto il peso e la responsabilità che la figura dell'intellettuale che si trova a incarnare porta con sé. Attraverso le sue parole, le parole luterane e corsare di tante lettere, di tanti scritti, prende progressivamente corpo l'immagine di un'Italia uscita dalla guerra, un'Italia libera dal fascismo, ma al contempo minacciata da un nuovo inquietante dio, un nuovo mostruoso idolo: il consumismo. A questa nuova dittatura del pensiero, il letterato contrappone il ricordo del passato. L'evocazione del mondo contadino non ha nulla di idilliaco né tanto meno di populistico: Pasolini è consapevole della vera natura dell'uomo, della realtà profondamente non edenica degli anni trascorsi; il suo vagheggiamento del passato è il desiderio di recuperare quei valori, quegli ideali che, nel bene o nel male, avevano permesso agli uomini di essere realmente tali, realmente liberi, realmente consapevoli di sé.
Il discorso portato in scena da Gifuni-Pasolini è un discorso profondamente drammatico, l'immaginario confronto dell'uomo con la società in cui si trova a vivere e che, non volendo, ha contribuito a (de)generare. (...) In questo discorso le colpe ricadono su tutti, sulla Chiesa e sul governo, sulla Democrazia Cristiana e sull'opposizione, sugli uomini e sulle donne, sui giovani e sui vecchi. Pasolini non risparmia nessuno, non risparmia neanche sé stesso. (...) E così Gifuni si spoglia dei panni dell'intellettuale e si avvia a passi lenti, solo, nudo, al giudizio. Nel passaggio dalla vita alla morte il protagonista si veste di bianco, riconosce le proprie colpe. Eroe tragico, Pasolini è il figlio che sconta le colpe dei propri padri, che sconta il dramma di non essere stato in grado di controllare il nuovo mondo desiderato, dottor Frankenstein incapace di dominare la sua creatura, Dottor Jekyll in balia di Mister Hyde. Ma al contempo Pasolini è il padre che deve morire per ristabilire l'ordine, l'eroe che ha peccato di tracotanza nei confronti del sistema e che deve essere punito perché tutto torni come prima, Laio che giace sulla terra colpito mortalmente dal suo Edipo. Il protagonista è consapevole di questo, consapevole delle sue colpe, del suo destino, pronto ad affrontare quei figli, carnefici involontari in quanto pedine nelle mani del fato. L'uccisione del padre non ha qui nulla di rivoluzionario, nulla di quelle rivoluzioni culturali che tanta fortuna avevano proprio in quegli anni. L'uccisione del padre incarna qui il mantenimento dell'ordine; tutto deve cambiare perché tutto possa tornare ad essere come prima.
E così nel terzo e ultimo atto si realizza il sacrificio finale, Pasolini assurge al grado di capro espiatorio, vittima sacrificale da immolare all'altare della libertà e della tolleranza. E qui avviene il miracolo: dal suo corpo, nel suo corpo, prende vita Pino Pelosi detto er rana, l'assassino dell'intellettuale, che porta con sé l'immagine di quel mondo che tanto a lungo il letterato aveva descritto e difeso.
E qui inizia una nuova parte del discorso drammaturgico, qui inizia il ricordo di quella notte, di quel cadavere lunghissimo, di quella corsa per le strade di Ostia e di Roma a bordo di un'Alfa GT. Le parole di Pelosi passano attraverso il romanesco dei Ragazzi di vita, di Una vita violenta; passano attraverso il friulano delle Poesie a Casarsa; passano attraverso gli endecasillabi del poemetto Il Pecora di Giorgio Somalvico. Ne deriva un corpus linguistico complesso e articolato, una contaminazione linguistica che, se attinge all'utilizzo del dialetto proprio di Pasolini, giunge a ricreare il complesso ed intricato "gnommero" gaddiano.
La parola è la forza di questo spettacolo, la parola evocatrice, creatrice, ermetica che diventa la forza di un testo complesso, che rischia di insegnare poco a chi non ha mai sentito parlare delle vicende di trent'anni fa, ma che rischia anche di smuovere le corde dei sentimenti. Il merito è di un bravissimo Fabrizio Gifuni, ora razionalistico indagatore, ora idolo imperscrutabile, ora folle e allucinato borgataro. Il merito è nell'attenta regia di Giuseppe Bertolucci, non nuovo a indagare gli itinerari pasoliniani, non nuovo ad affascinare e incantare il pubblico con la magia della poesia, del cinema e del teatro.
Francesco Lucioli, cinemavvenire.it

Critica (2):"È mia convinzione (...) che il film di uno spettacolo sia un oggetto autonomo e non il puro e semplice "monitoraggio" di un evento teatrale. Un nuovo testo che risponde a uno statuto diverso perché diverse sono la sua natura, la sua destinazione e la sua fruizione. (...) In questa prospettiva, la mia intenzione è quella di "mettere in scena" il pubblico, materializzando le fantasie dell'attore, che, aggirandosi tra gli spettatori, è continuamente assediato, nel corso della sua performance, da una serie di immagini che gli affiorano alla mente. Immagini che prendono spunto dal contesto reale nel quale è immerso (la piccola folla degli spettatori appunto) e, passando attraverso il suo inconscio (ma anche attraverso il filtro del testo che va dicendo), si riformulano in nuove immagini "sognate", in un continuo viaggio di andata e ritorno dalla realtà all'immaginazione".
Giuseppe Bertolucci (Ufficio Stampa Centro La Soffitta, Bologna)

Critica (3):

Critica (4):
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