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Mio nome è Khan (Il) - My Name Is Khan


Regia:Johar Karan

Cast e credits:
Soggetto: Karan Johar; sceneggiatura: Karan Johar, Shibani Bathija, Niranjan Iyengar; fotografia: Ravi K. Chandran; musiche: Shankar Mahadevan, Loy Mendonsa, Ehsaan Noorani (Shankar Ehsaan Loy); montaggio: Deepa Bhatia; scenografia: Sharmishta Roy; costumi: Manish Malhotra, Shiraz Siddique; effetti: John C. Hartigan; interpreti: Shahrukh Khan (Rizwan Khan), Christopher B. Duncan (Barack Obama), Steffany Huckaby (Kathy Baker), Carlo Marino (Vaughn), Douglas Tait (Sniper), Tanay Hemant Chheda (Rizwan Khan da bambino), Harmony Blossom (Karma), Shane Harper (Tim), Sheetal Menon (Radha), Jennifer Echols (Mamma Jenny); produzione: Hiroo Yash Johar, Gauri Khan per Dharma Productions, in collaborazione con Red Chillies Entertainment Production Mumbai; distribuzione: 20th Century Fox Italia; origine: India, 2010; durata: 165’.

Trama:Rizvah Khan è un indiano di religione musulmana. E' un uomo onesto ed è affetto da una leggera forma di sindrome di Asperberger. Vive insieme alla sua famiglia negli Stati Uniti dove ha sposato Mandira, una splendida mamma single alla ricerca spasmodica di successo e riflettori puntati su di sé. L'attacco alle torri gemelle dell'11 settembre 2001, però, smembra la sua famiglia. Per riunirla, a Khan non resta che un viaggio attraverso l'America, i suoi paesaggi così diversi e le sue nuove paure di paese traumatizzato.

Critica (1):My Name Is Khan, presentato fuori concorso alla scorsa Berlinale, è una bandiera dispiegata al vento contro lo scontro di civiltà, che parla l'esperanto del cinema e modula allegramente i generi, passa dalla commedia al melò, trasmuta Bollywood in un kolossal on the road, coniuga Bombay con San Francisco, prende la superstar indiana, Shah Rukh Khan, e la fa interagire con il Dustin Hoffman di Rain Man e con il Tom Hanks di Forrest Gump. Disintegra la segregazione identitaria tra hindu e musulmani in una potente ondata emozionale attraverso le avventure di Rizvan Khan, affetto dalla sindrome di Asperger, forma lieve di autismo.
Il regista Karan Johar, 45enne di Bombay, è musulmano come il protagonista, che porta il nome dell'attore, Khan, da pronunciare (nessuno ci riesce nel film) con suono gutturale aspirato poco gradito alle polizia di frontiera Usa. Nell'agosto 2009 il divo indiano è stato davvero arrestato all'aeroporto di Newark, e rilasciato su intervento dell'ambasciata.
«Il mio nome è Khan e non sono un terrorista», così il prologo, che subito fa della cronaca una favola e viceversa, spinge il film lungo traiettorie intercontinentali, dall'infanzia del bambino geniale e disabile a cui la mamma insegnò, dono una rissa tra «diversi», che le persone non si distinguono per religione, e che, come dice il Corano, se uccidi un uomo è come se avessi ucciso l'umanità intera. Individualismo democratico B-ollywood che Khan, adulto, esporta nella città del Golden Gate, dove incontra e sposa nel suo girovagare comico, obliquo, un po' da Peter Sellers di Oltre il giardino, una bellezza hindu, Mandira (Kajol), raggiante estetista, madre di un bambino, vittima di teppistelli bianchi, che non gli perdonano il cognome acquisito dopo il matrimonio interetnico.
Siamo dopo l'11 settembre – il film procede avanti e indietro nel tempo – e i musulmani anche nella democratica San Francisco sono presi a sassate. La parabola del maldestro folletto attraversa la Storia. Khan dissemina gli States di amore multicolore, in un detour d'emergenza corre in soccorso della popolazione della Georgia colpita da un nubifragio. Una troupe della Pbs scopre il personaggio, lo salva dall'accusa di terrorismo – Khan ha gridato tra la folla verso George W. Bush – lo incorona eroe sui canali televisivi d'America, proprio come accade a Forrest Gump. Il film cambia, si ferma, riparte, potrebbe andare avanti all'infinito, telenovela poetico-politica spudorata e pop. Non consente distanze, nella purezza de «matto» trascende ogni resistenza emotiva. Solo un visionario può raccontare la pace e la guerra.
All'improvviso da racconto immaginario si fa documentario, e sancisce la fine del dopo nine-eleven. Liberatoria prima opera dedicata a Barack Houssein Obama, nato alle Hawaii, venuto dal Kenia, cresciuto in Indonesia, e mai più fermato alla frontiera il presidente (Cristopher B. Duncan), convocherà l'assurdo e adorabile maratoneta dell'impossibile, e in un duetto demenziale lo eleggerà a modello internazionale. «Yes, I Khan».
Mariuccia Ciotta, Il Manifesto, 26/11/2010

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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