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Domenica d' agosto - Domenica d' agosto


Regia:Emmer Luciano

Cast e credits:
Soggetto: Sergio Amidei; sceneggiatura: Franco Brusati, Luciano Emmer, Giulio Macchi, Cesare Zavattini; fotografia: Domenico Scala, Leonida Barboni, Ubaldo Marelli; montaggio: Jolanda Benvenuti; fonico: Raul Magni; musica: Roman Vlad; canzoni: "Domenica d'agosto" di Oliviero e Tito Manlio e "Vieni con me" di Oliviero e De Mara cantate da Rossana Beccari, Giacomo Rondinella, Claudio Villa; interpreti: Anna Baldini (Marcella), Vera Carmi (Adriana), Emilio Cigoli (Mantovani), Andrea Compagnoni (Meloni), Anna Di Leo (Iolanda), Franco Interlenghi (Enrico), Salvo Libassi (Perrone), Elvy Lissiak (Luciana), Pina Malgarini (Ines), Marcello Mastroianni (Ercole), Anna Medici (Roseti), Fernando Milani (Catone), Ione Murino (Mesmè), Ave Ninchi (Fernanda), Nora Sangro (Nora), Corrado Verga (Silvestri), Mario Vitale (Renato), Massimo Serato (Roberto); produzione: Sergio Amidei per la Colonna Film; distribuzione: Fincine; Durata: 87; origine: Italia, 1950.

Trama:In un' accaldata domenica d' agosto una variegata folla di romani, di ogni estrazione sociale, si muove dalla città vesro il lido di Ostia, per trascorrervi l'intera giornata festiva.

Critica (1):Film più che noto, grazie anche ai frequenti passaggi televisivi, Domenica d'agosto occupa una curiosa posizione nelle cronache del tempo e risalta alquanto defilato (non sistematizzabile si vorrebbe dire) negli stadi successivi. Cominciamo da questi ultimi. Fabio Carpi nel suo Cinema italiano del dopoguerra (1958) è forse il primo a tentarne un inquadramento con la conseguenza che il suo giudizio (Domenica d'agosto ha tutte le qualità e i difetti di un film di debutto, ma conquistava per la sua giovanile schiettezza, per l'entusiasmo con cui il regista aggrediva ambienti veri e personaggi meno veri") ispira ulteriori e ancor più decise sottovalutazioni. Brunetta, per esempio, nella sua Storia del cinema italiano non gli riconosce caratteristiche peculiari e lo inserisce in discorsi sul genere "episodico" o sull'esplorazione di "lunghi sconosciuti". Pressoché ignorato nell'importante volume collettivo Il cinema italiano degli anni '50 (1979, a cara di Giorgio Tinazzi), Domenica d'agosto non conosce sorte migliore in altre pubblicazioni retrospettive, un pò a causa del mutamento di settore del regista (il suo ultimo lungometraggio, La ragazza in vetrina, è del 1960), un pò in conseguenza di un autoisolamenento che lo stesso ha rotto solo di recente.
Non molto si trova anche spulciando la critica dell'epoca. Su Cinema (n. 43, 30 luglio 1950), Aristarco, che lo fa derivare dalla "maniera Castellani", gli dedica due aggettivi ("medio, bozzettistico"). Sul fascicolo precedente della stessa rivista, più articolato è il resoconto di un referendum riservato al film dopo una proiezione organizzata dal Gruppo lombardo giornalisti cinematografici: 1500 presenti, 165 votanti, 81 per cento i favorevoli, solo il 2 per cento i nettamente contrari. Val la pena di citare qualche risposta: "Molto piacevole, semplice, tutti così dovrebbero essere i nostri film e non fastosi e in ambienti di lusso che a noi non interessa"; "Educa in un certo senso la gioventù di oggi ad essere onesta"; "Profondamente umano e, oltretutto, anche educativo: la semplicità e onestà della povera gente di fronte all'ignoranza e alla amoralità della classe ricca"; "Avrei desiderato che la 'stupidità' della cosiddetta classe aristocratica fosse messa in maggior rilievo in contrapposto alla semplicità della classe onesta e lavoratrice". Più deboli le motivazioni dei contrari: "Deploro che i nostri registi trattino, quasi sempre, di miseria e di disonestà. Bella propaganda!''; "Ma per l'estero? Quale il costrutto? Uno dei soliti film in cui l'Italia e gli italiani non ci fanno bella figura".
Da queste, par semplicistiche risposte si direbbe che il film abbia le carte in regola per stare alla pari con i più celebrati capolavori del neorealismo, ma l'equiparazione deriva probabilmente da una forzata lettura o da un'interpretazione ormai acquisita. Domenica d'agosto è chiaramente un'opera di transizione, come dimostra anche una dichiarazione d'intenti del suo regista, solitamente parco nell'intervenire: Non amo questa società", egli scrive nel marzo del '53 (Cinema Nuovo, n. 7) "e do per certo, per naturale e già scontato, quasi, l'avvento di un mondo migliore. Ho tanta fiducia in questo, e lo sento talmente vicino, con una evoluzione già così intensa e profonda, da sentire soprattutto ottimismo, e diffonderlo, nei miei film: fiducia nel domani, gioia di vivere, di amare, di lavorare, e forza di lottare per tutto questo: una forza che è nel popolo soltanto. Questo è lo spirito dei miei film, questa è la mia posizione umana, sociale".
Ma un altro problema viene messo a fuoco dal soggettista - produttore Amidei: "L'accusa che mi hanno fatto di aver dato la stura con Domenica d'agosto al neorealismo rosa, è un'accusa che io accetto volentieri, perchè è vero che l'Italia stava cambiando, e quelli che non se ne sono accorti sono quelli che ancora oggi si sorprendono che i giovani non li capiscono" (intervista a Faldini e Fofi in L'avventurosa storia del cinema italiano).
Eppure v'è qualcosa di ancora diverso: il senso del cinema tout court. Emmer, o chi per lui, con Domenica d'agosto è riuscito a trasmettercelo, a mantenercelo nel tempo, con la sua costruzione insieme spigliata e rigorosa, con la sua rivisitazione di luoghi comuni che evitano la macchietta e quasi sempre anche il bozzetto, con il suo buon senso che non è mai banalità. Potrà esservi qualche errore di regia, come alcuni hanno rilevato, ma v'è anche una precoce maestria nel muovere la macchina da presa, nel frugare fra i corpi esposti sul litorale, nel seguire le allegre corse sulla spiaggia o magari - ed è un pezzo di bravura - nel mostrarci la disperata fuga del rapinatore fallito nel labirinto di recinzioni e cancelli (ancora segnali di costrizione) del mattatoio, con in più il sottofondo del cupo muggito degli animali destinati alla macellazione. Sono prove, sono risultati, sono momenti di felicità creativa che riescono soltanto a degli outsider, ad autori un po' marginali rispetto al panorama ufficiale. E non è certo un caso che su una spiaggia - questa volta ricostruita in studio, anzi appena visibile, soltanto immaginata - abbia ambientato uno dei suoi migliori film, anch'esso con caratteristiche da cult mogie, un altro regista "insolito". Parliamo di Casotto (1977) di Sergio Citti, con la sua circolarità del luogo, di quel grande capanno in cui si incrocia e si scontra un'umanità eterogenea, e con l'altrettanto straordinaria circolarità del racconto e delle relative riprese.
Posti a confronto, i due film rilevano analogie (il rischio superato del bozzetto, la sempre possibile "volgarità", un certo sovraffollarsi di spunti) e diversità (il mutamento del campione sociale, l'evoluzione di gusti e costumi, una maggior spregiudicatezza nel secondo), ma soprattutto colpiscono per l'anticonformistico attaccamento alla vita, o vitalismo, che manifestano. Come non v'era molto di che ridere nell'anno santo 1950, v'era di che piangere in quel 1977 da ultima contestazione: ma Emmer per un verso e Citti per un altro sono stati capaci di cogliere nel segno, entrambi offrendoci un segnale di speranza, entrambi uscendo dal grigiore della norma.

Lorenzo Pellizzari, Cineforum n. 297 settembre 1989

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