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Rapsodia in agosto - Hachigatsu no rapusodì


Regia:Kurosawa Akira

Cast e credits:
Sceneggiatura
: Akira Kurosawa dal romanzo Nabe no naka di Kiyoko Murata; fotografia: Takao Saito, Shoji Ueda; scenografia: Yoshiro Muraki; effetti speciali: Hishiro Honda; musica: Shinichiro Ikebe (da Schubert e Vivaldi); interpreti: Sachiko Murase (Kane), Hisashi Igawa (Tadao), Narumi Kayashima (Machiko), Richard Gere (Clark), Hidetaka Yoshioka (Tateo), Tomoko Otakara (Tami), Mie Suzuki (Minako), Mitsunori Isaki (Shinjiro), Toshie Negishi (Yoshie), Choichiro Kawarasaki (Noboru); produzione: Hisao Kusosawa per Produzioni Kurosawa; distribuzione: Cineteca Italiana; origine: Giappone, 1991; durata: 92'.

Trama:Estate 1990, quattro cugini trascorrono le vacanze dall’anziana nonna, Kane, in una casa vicino a Nagasaki: i loro genitori sono andati nelle Hawaii per rispondere all’appello di un vecchio zio, Suzujiro, emigrato laggiù negli anni Venti. Ormai vecchio e malato, desidera rivedere la sorella prima di morire. Kane esita: non si ricorda bene di questo fratello. I ragazzi invece si entusiasmano all’idea del viaggio.La nonna racconta ai nipoti i ricordi di un’altra estate, quella del 1945, l’estate della bomba. I cugini vanno in città e visitano la scuola dove è morto il nonno che vi insegnava. C’è un monumento nel cortile e una lapide che ricorda il giorno e l’ora della tragedia. La nonna racconta quel 9 agosto. Era rimasta a casa mentre il marito era nella scuola dove anche lei insegnava. Ci fu un bagliore, il cielo si oscurò, e da casa, guardando verso la città, vide in cielo un occhio gigantesco. Dalle Hawaii giunge una lettera per Kane. È del figlio di Suzujiro, Clark, che insiste perché venga a far visita al vecchio fratello. La donna si convince: partiranno subito dopo le cerimonie commemorative del 9 agosto. Ritornano dalle Hawaii i figli di Kane e scoprono con disappunto che la donna nel giustificare la data del viaggio aveva scritto ciò che loro per opportunismo avevano accuratamente taciuto: che il marito di Kane era stato ucciso dalla bomba.
Un telegramma annuncia l’arrivo di Clark. Disagio in famiglia: tutti credono che il cugino americano, offeso dalla rivelazione, voglia troncare ogni rapporto, ma Kane difende il suo diritto a raccontare la verità. Il giorno dell’arrivo, i ragazzi, invece di accogliere Clark, se ne vanno a Nagasaki per rivedere la scuola. Ma è proprio qui che Clark, che racconto di aver appreso con dolore la verità sulla morte dello zio, vuole essere condotto. Durante il sopralluogo giunge una comitiva di anziani. Sono i sopravvissuti di quel 9 agosto: molti sono ciechi. Rendono omaggio in silenzio al monumento. Si avvicina la partenza per le Hawaii. Ma un telegramma che annuncia la morte di Suzujiro impone a Clark di partire subito. Il giorno dopo figli e nipoti scoprono che in casa non c’è più la nonna. La cercano e la trovano che si dirige a piedi, di corsa, a Nagasaki: il cielo livido e tempestoso è lo stesso di quel giorno.

Critica (1):Il tema dell’angoscia atomica percorre tutto il cinema giapponese dopo le esplosioni fatidiche del 6 (Hiroshima) e del 9 agosto 1945 (Nagasaki), dai Bambini di Hiroshima di Kaneto Shinto (1952) a Pioggia nera di Shohei Imamura (1989). Anche in Kurosawa il tema dell’angoscia atomica non è nuovo: ci sono due episodi del recentissimo Sogni (1990), ma soprattutto c’è Ikimono no kiroku (noto come Se gli uccelli sapessero, 1955), dove Toshiro Mifune, ossessionato dalla minaccia nucleare, cerca di espatriare con la famiglia in Brasile. Eppure il breve, recente e apprezzato romanzo della Murata «Nabe no naka» (Nella pentola), che ha ispirato Rapsodia in agosto, parla molto poco della bomba atomica, tema centrale nello svolgimento del film. Ma come la protagonista Kane, anche Kurosawa non può dimenticare quell’estate del ’45, in Giappone tuttora un duro segno di contraddizione.
In Rapsodia in agosto la bomba è vista attraverso tre generazioni: tre differenti esperienze di vita, tre differenti sensibilità. La generazione più giovane ha mitizzato l’avvenimento, relegandolo nel mondo della SF televisiva, ma è disposta a conoscere e a farsi coinvolgere. Quella di mezzo, per ragioni poco pulite e per opportunismo nei confronti degli americani, vuole cancellare il ricordo della bomba, ritenuto una turbativa nella vita sociale o negli affari. I più anziani, infine, hanno cristallizzato le tragedie del 6 e del 9 agosto in un eterno presente. A confrontarsi con la bomba sono anche chiamati gli americani: gli autoctoni e quelli di origine giapponese. I primi sono solo evocati, e gli si attribuisce la pretesa non solo di voler rimuovere la bomba, ma anche di fingere che non sia mai esistita. I secondi sono presentati nella figura di Clark, dapprima attraverso il luogo comune di chi non vuole ricordare e poi attraverso un vissuto assolutorio fatto di lacrime e di accettazione/ammirazione della cultura d’origine.
I giornalisti americani, che ne hanno riferito dal Giappone o da Cannes, hanno sollevato riserve su quest’ultimo film di Kurosawa: Rapsodia in agosto tacerebbe delle responsabilità giapponesi nella guerra nippo-americana. È difficile addebitare al film questo capo d’accusa: qui si parla d’altro, non della seconda guerra mondiale. La bomba è il simbolo di un’epoca, l’immagine di un martirio, la profezia dell’apocalisse e perfino la causa di morti attuali: tutte cose che l’attacco a Pearl Harbor non può cancellare. Kurosawa è generazionalmente lontano sia dai ragazzini che rovistano un po’ distrattamente nel passato, sia da quei genitori che sembrano pantomime dell’ipocrisia quotidiana. Il vecchio regista vede con gli occhi della nonna, ne condivide la requisitoria: «Che cosa c’è di male a dire la verità? Lanciano una bomba atomica e si offendono se uno glielo ricorda. Capisco che vogliano dimenticare, ma non fingano che non sia mai successo». Le parole di Kane appaiono dure, quasi beffarde, certamente sgradevoli per una certa America, ma poi, senza soluzione di continuità, cedono il passo all’espressione di una pietà sincera: «Hanno detto che la bomba l’hanno lanciata per mettere fine alla guerra. Ormai la guerra è finita da quasi cinquant’anni, ma la bomba continua a fare la sua guerra. Non passa giorno che non uccida ancora». E conclude, la vecchia nonna, con un generico appello per l’umanità: «Tutto questo è solo colpa della guerra. Gli uomini fanno di tutto per vincere la guerra. In questo modo finiranno per distruggerci tutti». Il breve discorso, così bilanciato nelle motivazioni da non apparire coerente, non sembra tale da giustificare polemiche se non in chi si sente coinvolto per senso di colpa. E polemiche non sono in grado di giustificare gli altri minimi riferimenti politici. Durante la visita di Nagasaki, per esempio, i ragazzi si fermano di fronte ai monumenti commemorativi regalati da Stati esteri. «Manca quello americano», osserva uno. Gli replica l’altro: «Ragiona, sono stati loro a lanciare la bomba». O ancora la sottolineatura presente nel dialogo, e peraltro smentita dallo sviluppo degli avvenimenti, secondo cui i nippoamericani non vorrebbero gli si ricordasse di essere stati in salvo negli anni di guerra nel Paese nemico.
Ci sono invece bugie e omissioni di cui gli americani dovrebbero essere grati a Kurosawa. La bomba di Nagasaki non è stata lanciata, come finge di credere Kane, per porre fino alla guerra (forse quella di Hiroshima servì allo scopo, o meglio a contenere le perdite americane nel conflitto, non certo quella dì Nagasaki). Kurosawa non sostiene che il Giappone fu vittima dell’atomica perché abitato da «musi gialli» contro i quali si potevano usare gli strumenti di morte non permessi contro gli europei. Infine, non ricorda la totale disattenzione che gli americani, abituati ad inviare nei porti dell’arcipelago navi con armamento atomico, continuano ad avere per la sensibilità giapponese sul problema nucleare. Con buona pace degli americani, non c’è manicheismo in questo film, ma solo una requisitoria, forse un po’ gridata, certo un po’ sentenziosa, ma tutta diretta contro la guerra. E, come sempre in Kurosawa, c’è la scelta di affrontare il sociale come momento del dramma privato, in questo caso quello di una donna che sovrappone le considerazioni sull’angoscia planetaria al timore della propria morte.
Con Rapsodia in agosto Kurosawa torna dopo vent’anni a girare un film d’ambiente contemporaneo che rappresenta anche la sua prima produzione interamente giapponese dal 1970. Ma né quell’ormai lontano Dodès’ka-den, nella sua singolare cifra stilistica, né il più lontano Anatomia di un rapimento, ultima su opera «neorealista», possono costituire il precedente anello di quest Kurosawa d’ambiente contemporaneo. Insomma, superati gli ottanta, il maestro giapponese si contraddice e si rinnova. E crea un’opera inedita che, indipendentemente dagli esiti, occupa un posto a sé nella filmografia del maestro. Rivisitazione della storia del Giappone contemporaneo e insieme della tradizione drammatica nipponica. Ecco dunque realismo e poesia in uno strano connubio che costituisce uno degli aspetti più singolari del film. Un realismo sobrio, scarno fino allo schematismo: lontanissimo da quello di cui il Kurosawa degli esordi era stato maestro. Un realismo che, nella sua pretesa di comunicazione, giunge a dividere la società giapponese in segmenti incomunicabili, quelli generazionali. Ma ecco anche una tensione poetica che non rifugge dall’onirismo e dalla visionarietà.
Kurosawa sottolinea questi mondi con differenti cifre stilistiche modellate nel solco della cultura generazionale dei personaggi. Attorno alla vecchia Kane, la nonna, tutto si svolge su un palcoscenico sapientemente costruito su tavole di legno ricoperte dal tatami: gli sfondi e le quinte, in casa come nel tempio, sono teatrali. Attorno ai genitori c’è invece l’anonimato di una produzione televisiva e un dialogo quasi sempre prevedibile o ripetitivo. Attorno ai ragazzi, ci sono il gioco, il sogno, l’avventura, il coinvolgimento (il serpente marino dagli occhi di fuoco, il folletto verde della notte). Quando queste tre culture interagiscono, Kurosawa fa scattare una dimensione mensione nuova, sospesa tra la fiaba, la poesia e la visionarietà. Si pensi alla scena in cui la vecchia evoca ai nipoti quel 9 agosto, oppure alla contemplazione muta da parte dei ragazzi e dei loro genitori del pellegrinaggio dei superstiti della bomba nella scuola, o, infine, alla grande corsa delle tre generazioni del finale. Tre risultati di diverso interesse, tipici di questo film discontinuo. Nel primo purtroppo gli effetti speciali di Hishiro Honda non rendono giustizia all’emozione. Nel secondo il regista scommette tutto sul contrasto sonoro tra il silenzio della pietà e la musica religiosa che l’accompagna. Nel terzo la chiave espressiva è solo cinematografica: è il prodigioso montaggio di Kurosawa. Attraverso il quale emergono sentimenti fortissimi di comunione al di sopra delle generazioni e delle tragedie storiche.
Giorgio Rinaldi, Cineforum n. 309, 11/1991

Critica (2):

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Akira Kurosawa
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