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Gertrud - Gertrud


Regia:Dreyer Carl Th.

Cast e credits:
Soggetto
: dal dramma Gertrud di Hjalmar Soderber; sceneggiatura: C. Th. Dreyer; fotografia: Henning Bendsten, Arne Abrahmsen; scenografia: Kai Rasch; musica: Jorgen Jersild; montaggio: Edith Schüssel; interpreti: Nina Pens Rode (Gertrud Kanning), Bendtrothe (Gustav Kanning), Ebbe Rode (Gabriel Lidman), Baard Owe (Erland Jansson), Axel Strobye (Axel Nygren), Anna Malberg (madre di Gustav), Edouard Mielche (il Rettore magnifico), Vera Gebuhr (cameriera dei Kanning), Karl Gustav Ahlefeldt, Lars Knutzon, William Knoblauch, Valso Holm, Ole Sarving; produzione: Palladium Film; origine: Danimarca, 1964; durata: 113’.

Trama:A Stoccolma all'inizio del secolo, Gertrud, infelicemente sposata con un avvocato con ambizioni politiche, ama un giovane compositore, Jaansson. Quando Gertrud ritrova un noto poeta che aveva amato un tempo questi le aprirà ghli occhi sulla vera natura dell'amore del giovane musicista. Getrud sceglierà infine di vivere sola. Molti anni dopo, ormai vecchia – in un epilogo aggiunto da Dreyer – riceve la visita di un amico psichiatra al quale confida quanta importanza abbia avuto l'amore nella sua vita.

Critica (1):A Stoccolma, nel 1906, Gustav Kanning comunica alla moglie Gertrud che è stato nominato ministro della giustizia. La donna gli annuncia di volerlo lasciare, non amandolo più né sentendosi amata. Gertrud è invece innamorata del giovane pianista Jansson, col quale vorrebbe andarsene. Ma ad una festa rivede il poeta Lidman che le rivela come il musicista vada in giro gloriandosi della sua conquista. Gertrud ha la conferma delle parole di Lidman nel rifiuto del giovane amante di partire con lei. Non intende però riprendere la relazione con lo scrittore, che la ama ancora, poiché egli ha scritto che l’amore per una donna e il lavoro sono inconciliabili. Avendo rifiutato anche la proposta dello psichiatra Nygren di andarsene insieme a Parigi, la donna abbandona la casa del marito e si ritira a vivere sola in un’altra città. Molti anni dopo Gertrud, ormai vecchia, riceve la visita dell’amico Nygren. I due parlano a cuore aperto e la donna rivela allo psichiatra quanta importanza abbia avuto l’amore nella sua vita, una vita che ha ricevuto un senso soltanto dall’amore donato. Gertrud può vivere ormai di ricordi. In un misconosciuto film tedesco del 1924, Mikael, di Carl Theodor Dreyer, il protagonista, grande pittore emulo di Moreau, abbandonato dal pupillo e amante, moriva serenamente dicendo: “Muoio felice, perché ho visto un grande amore”. In Gertrud – che la televisione ha meritoriamente mostrato al pubblico italiano ma che, con azione assai meno meritoria, ha fatto seguire dai commenti inconsulti di quattro sinistri signori – la vecchia Gertrud vuole sulla sua tomba una minima quanto impegnativa epigrafe: “Amor Omnia”. Di più: l’unica composizione poetica di questa donna mostruosamente decisa dice pressappoco: “Guardami dunque. – Son bella? – No. – Ma ho amato. – Guardami dunque. – Son giovane? – No. – Ma ho amato. – Guardami dunque. – Son viva? – No. – Ma ho amato”. Tra la prima riflessione di un Dreyer trentacinquenne, e quella del settantancinquenne che non può non soffermarsi sulla propria morte, l’accenno è cambiato: dal messaggio indiretto, condiviso esteticamente, è passato al messaggio diretto di serenità tragicamente raggiunta; dalla lettera al testamento. Il testamento è un genere letterario solo per gli avari, i narcisisti inguaribili, e i politici borghesi. Per gli altri, è un’operazione così grave da meritare l’attenzione e il rispetto che la presenza della morte incute naturalmente. Quello di Dreyer fa parte di questi ultimi. In esso, infatti è racchiuso il suo messaggio, il senso della sua comprensione della vita. E l’abuso cristiano della formula che Gertrud fa propria non deve pervenire o suggerire risposte ironiche. Che di messaggio si tratti, non è dubitabile. Lo conferma una breve analisi della sua forma. Una recitazione estraniata che pone i personaggi in continua presenza del pubblico, cui si rivolgono direttamente dicendo la loro parte senza enfasi e con ritegno protestante; unico movimento, gli spostamenti, secondo rigide indicazioni geometriche e precisi rapporti di volumi, da una posizione seduta a una verticale, da un divano alle spalle dello stesso. Essenzialità di ambienti e di luci, freddi gli interni, pulviscolari e velati gli esterni e i flashback. Allusività lampante in alcuni oggetti di sfondo: la statua di Diana, l’arazzo con la donna inseguita dai levrieri, come presenza e agguato dell’amor profano e della sua condanna. Piani-sequenza, non però utilizzati a espressione di casualità, benché riducenti o escludenti la possibilità di dialogo tra i personaggi, di evoluzione dialettica del soggetto rispetto a un suo contesto. Semplificazione finalizzata della “story” (“la semplificazione deve trasformare l’idea in simbolo”, scriveva Dreyer molti anni fa). I personaggi non sono dunque che cinque (e dal numero è escluso l’Amico, mero strumento drammatico, deus ex machina di salotto): Gertrud, il Futuro Ministro, il Poeta Laureato, il Giovane Artista, cui – forse forzando le indicazioni del regista – aggiungeremmo lo Studente che declama la tirata lawrenciana a una riunione di giubileo che ricorda un poco quella del Posto delle fragole). Nessun personaggio è “simpatico”, nessuno visto del tutto negativamente. Secondari i due ultimi, con le loro risposte confuse o parziali, e comunque aspirazioni, e non conclusioni o ripiegamenti, come sono invece per i rappresentanti della età matura, il cui esame di coscienza non è procrastinabile. È ancora Dreyer che parla: “Col simbolismo siamo sulla strada della astrazione”. Siamo qui al cuore del film, che parte dalla struttura codificata del dramma borghese di fine secolo, ma già con il consueto totale rifiuto di Dreyer del naturalismo e delle sue trappole, per approdare, nel dibattito tra tre personaggi, al significato della vita e delle passioni attraverso le quali questo significato si articola. L’epurazione successiva è quella di mostrare la fallacia e l’incompletezza di due di queste ricerche-passioni (Politica e Poesia) e ridurre finalmente l’esposizione (parlare di azione è a questo punto impossibile) a un soliloquio serrato, quasi gelido e impietoso, di un unico personaggio-idea, Gertrud. Gertrud, o la ricerca dell’assoluto, da lei identificato nell’amore. Ma, è chiaro, l’insoddisfatta ricerca dell’Amore assoluto è analoga per Dreyer alla ricerca frustrata di ogni altro assoluto. La differenza sta nel valore attribuito da Dreyer ai particolari oggetti (o pretesti?) delle passioni attraverso le quali questa ricerca senza termine si muove. Avremmo potuto vedere al posto centrale, aperto del discorso, il Poeta e la sua ricerca dell’assoluto nell’Arte, o il Ministro con la Politica, ecc. Ma Dreyer riconduce a Gertrud le fila del discorso, perché egli opera secondo una scala di valori definita: l’Amore è al primo posto, è la sola passione che Dreyer salva perché, benché destinato alla sconfitta, è in definitiva la passione più religiosa e globale. Cadono, evidentemente, di fronte a questa impostazione, le pregiudiziali che è possibile opporre alla forma, così visibilmente e volutamente antiquata, del film, alla sua difficile comunicabilità, alle possibilità di contrapporre sardonicamente – come è possibile fare – il tempo (durata) soggettivo avvertito dallo spettatore, al tempo reale dell’azione, molto meno lungo di quanto la monotonia e la lentezza dello svolgimento fanno normalmente credere. Né sarà possibile guardare al film con un metro normale, esaltarlo come di solito si fa in questi casi con formulazioni di eccezionalità, per non affrontare la discussione sul suo fondo e fargli così il maggior torto possibile. È su questo fondo, su questo messaggio, che si deve prendere posizione, una volta individuati (senza grande sforzo) il suo contenuto e i modi in cui esso è espresso. Questo messaggio, a noi pare di non potere né dovere accoglierlo. Con tutta la comprensione e l’attenzione che il suo latore merita, esso ci sembra troppo generico e insieme troppo esigente. Da una parte: le nostre scelte ci preme di vederle in un contesto storico e sociale preciso. Dall’altra: non crediamo con Dreyer, nella realizzazione degli Assoluti, proprio perché non crediamo agli Assoluti, perché crediamo nell’azione per una modificazione delle condizioni che ci circondano, e assieme a questa in una azione per la modificazione delle componenti fondamentali dell’uomo, per non parlare di quelle della società. È sul fondo, che obiettiamo a Dreyer la sua concezione cristiana e borghese dell’irrealizzabilità delle passioni più alte. Ci muoviamo in un’altra direzione. Dreyer è certo un grande artista. Ma, ancora una volta, che i morti seppelliscano i loro morti.
Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, 1977

Critica (2):Dopo Godard, Dreyer; dopo Il bandito delle 11, Gertrud; dopo i fuochi d’artificio, la veglia funebre. Eppure, tutti e due sono modi d’intendere il cinema. Con questo di diverso: che .il primo ci sbriglia e solletica, e il secondo ci blocca e allucchetta; e i vizi del primo derivano da giovanile entusiasmo, e quelli del secondo -da senile sclerosi. Il rispetto dovuto a un maestro che ci ha dato Giovanna d’Arco, Dies irae e Ordet, di fronte a uno scavezzacollo cui dobbiamo tanto meno, non potrà infatti impedirci di dire che al Dreyer di oggi preferiamo il Godard di ieri, perché il regista danese guarda indietro, verso un illusorio matrimonio fra cinema e teatro, e l’autore francese almeno tenta, sia pure con esiti disuguali, di affrancare il cinema da antiche servitù letterarie.
Questa distinzione fra "regista" e "autore" già sembrerà insolente. Ma Gertrud deriva dall’omonimo dramma dello svedese Hjalmar Sòderberg (vissuto dal 1869 al 1941), pubblicato nel 1907; al quale Dreyer si è limitato ad aggiungere una scena finale. La sua fatica è perciò consistita nel trasferire dalla ribalta allo schermo un’opera nata a tavolino, Se Gertrud è un film pieno di acciacchi, sarà anche perché in Dreyer non pulsa sangue fresco, e la sua fertilità mentale, anziché coltivata nell’orto del dramma religioso rivissuto nella sofferenza personale, è imbalsamata dall’ossequio per il verbo. Laddove il cinema è una arte che chiede azione, e poi azione e ancora azione.
Intendiamoci: con Gertrud, Dreyer casca in piedi, non fosse che per l’intransigenza con cui resta fedele al valore della densità dell’immagine e il giovanile coraggio mostrato nell’abbandonarsi a un esperimento; ma il fatto è che a settantacinque anni è difficile rinnovarsi; meglio far gli epigoni di se stessi che correre il rischio di sentirsi blanditi soltanto perché si hanno i capelli bianchi. Come appunto è accaduto al roseoazzurro vegliardo, che l’altra sera, nel cinema di Parigi dove si presentava Gertrud, alla fine del film si è visto circondare éome un caro nonnino da quegli stessi critici impietosi che avevano costellato di risate l’anteprima mondiale.
Perché Gertrud rivela che anche Dreyer, il quale sembrava aver raggiunto la compostezza dei classici, è stato morso dalla tarantola del nuovo, e poiché questo nuovo è in realtà la ripresa di un annoso discorso, si è costretti a parlare di prova senile? Perché il regista ha creduto di poter rilanciare una santa alleanza tra cinema e teatro, restituendo al parlato una posizione di privilegio che in lui, eroe del muto, assume tutti i caratteri di una rivalsa, di una scommessa con se stesso e forse di uno sgravio di coscienza. Ma sono memorabili le sue parole del 1933: "Il cinema è purtroppo finito nelle mani degli uomini di teatro; per divenire un’arte autonoma d-eve scendere nelle strade, tornare a essere reportage". E per decenni sono stati tenuti in onore i suoi dettami contro le scenografie artificiali e gli attori truccati... Ritrovarsi, ora, alle soglie del 1965, dopo che il cinema ha spalancato tante finestre e assunto finalmente l’azione fra i suoi caratteri precipui, nel chiuso di un appartamento borghese, fra coppie di attori che a turno si rimbalzano blocchi di dialogo, non è un richiamo all’origine bensì un soprassalto di candore reazionario. C’è, voi dite, l’esempio di Bergman: ma negli ultimi film del regista svedese l’urto della problematica morale è così forte che spezza la pietra dei muri. In Gertrud, invece, il dibattito delle idee resta prigioniero nell’involucro fisico dei personaggi, ed essi a loro volta sono legati a filo doppio a una età storica, gli anni intorno al 1912, che è troppo vicina perché gli spettatori di oggi non vi riconoscano con fastidio un sentimentalismo dal quale si sono da poco liberati (e tuttavia resiste in gran parte della narrativa rosa), e troppo lontana, nel modo di impostare i problemi, dalla sensibilità dei nostri giorni. Ne deriva che Gertrud è uscita, per la tematica e per lo stile, con almeno trent’anni di ritardo.
La trama lo conferma. C’è una donna Gertrud, non più giovanissima, sposa di un uomo politico, Gustav, che sta per divenire ministro. Faceva la cantante, ma ormai ha lasciato il teatro. Ora se ne pente: appassionata anima d’artista rimprovera al marito di pensare alla carriera, al denaro, ai sigari, a tutto fuorché a lei. E poiché ha conosciuto il giovane pianista Erland, e il suo cuore ha riavuto un gran tuffo, comunica al consorte di voler divorziare. Gertrud è una donna che sogna l’amore totale, non si piega alle necessità della vita, e perciò va incontro a una delusione dopo l’altra. Ma ora è sicura che Erland le apparterrà interamente: non sarà, come Gustav, schiavo delle ambizioni, né come Gabriel, uno scrittore del quale fu l’amante prima di sposarsi, distratto dal lavoro. E come è malata d’orgoglio, così soffre di estetismo: confessato , al marito di essere innamorata di un -altro, va a casa del pianista, e mentre gli scivola fra le lenzuola, gli chiede di suonare un «notturno».
Sembra finalmente felice, tornata in se stessa. Ma nel frattempo è arrivato Gabriel, il quale in tutti gli anni che è stato lontano, in Italia, ha continuato a pensare a lei, ed ora, deluso della vita, convinto che il mondo non meriti d’esser preso sul serio, spera, giacché Gertrud sta per divorziare, di riaverla con sé. Perciò non gli dispiace di rivelarle che il giovane Erland si è vantato pubblicamente con gli amici di averla conquistata. Gertrud è colpita, sa di aver fatto una pazzia, ma si giustifica: nella sua vita c’era un tal vuoto che non poteva comportarsi altrimenti. E benché sogni di essere, nuda, inseguita da una muta di cani, invoca, Erland di fuggire con lei, disposta a mantenerlo. Il giovane la raggela: credeva che essa cercasse un’avventura, oltretutto è impegnato con una ragazza dalla quale ha avuto un figlio; e poi Gertrud ha un’anima troppo fiera: egli vuole una donna casta e obbediente. "Vorrei credere in un Dio per chiedergli di perdonarti", gli risponde lei. Da questo momento Gertrud è destinata alla solitudine, il suo cuore è pietrificato. Veste di nero, rifiuta Gabriel perché ormai è inutile tentare di ridestare l’antica passione, respinge le ultime offerte del marito, che pur sapendo cosa è accaduto sarebbe disposto a trattenerla (ma quando lei gli confessa di averlo amato soltanto coi sensi, la scaccia), e si trasferisce a Parigi. La ritroviamo, vecchia, ancora bisognosa di solitudine e di libertà ma senza rimpianti. "Ho molto sofferto, ma ho molto amato... e l’amore è tutto nella vita" " Amor omnia" vuole che sia scritto sulla sua tomba.
Nell’universo di Dreyer l’amore prende dunque il posto della religione (ma Come in uno specchio ha chiuso il cerchio della "teologia cinematografica" dei nordici assicurandoci che l’amore a sua volta è Dio; e Bergman, avrebbe ragione di dire che anche Gertrud soffre del "silenzio di Dio"). Da questo punto di vista il vecchio Dreyer- conclude con una affermazione che trasferisce, all’interno dell’uomo il valore ultimo della sofferenza, finora considerata uno strumento di mistica associazione alla volontà celeste. Confrontate la finale solitudine di Gertrud con quella di Anna in Dies irae per considerare come il tema si sia venuto elaborando. Ma proprio nella misura in cui Dreyer sottrae i problemi a una prospettiva metafisica, e afferma con Gertrud di credere nei piaceri dei sensi e nell’irrimediabile solitudine dell’individuo, senzà tuttavia lasciare spazio alla tensione per il soprannaturale, egli riduce lo spessore della propria ispirazione artistica e involontariamente si allinea sulle posizioni meno stimolanti del decadentismo europeo. È probabile che egli non approvi il peccato d’orgoglio di Gertrud, tuttavia c’è qualcosa di ambiguo nel rimpianto del vecchio Dreyer per l’amore e la giovinezza.
È ovvio che ciò non sarebbe sufficiente motivo di scacco se le qualità del linguaggio risolvessero in invenzione stilistica la struttura borghese del dramma. In realtà la mediocrità del soggetto dett-a a Dreyer una forma rappresentativa che interessa soltanto quanti cercano qui il proseguimento di una ricerca sulla tensione espressiva, sulla purezza delle linee, sui rapporti armonici fra personaggi e ambiente. L’enorme maggioranza degli spettatori resta invece bloccata dal gelo di un processo di stilizzazione delle forme espresso con una recitazione che, lungo un arco psicologico potenzialmente ben ricco di sfumature, si mantiene così controllata da riuscire appiattita nell’uniformità tonale, con una geometrica alternanza di «duetti» in interno (interrotti soltanto da brevi flash-backs e dai rapidi scorci di un parco), con l’uso di didascalie in funzione di coro e di cesure, con la spoglia scenografia e il patetico commento musicale (persino Ridi pagliaccio). La stessa Gertrud (la peraltro splendida Nina Pena Rode), che parla e si muove come in trance, non suscita autentiche emozioni: la modernità della sua angoscia ci sfugge, assorbita negli schemi di una risaputa eroina tardoromantica.
L’ultimo film di Dreyer è forse il sogno di un poeta rapito nell’astratta contemplazione della tragedia, una risposta definitiva al realismo: bisogna accettarla o respingerla in blocco. La tentazione di accoglierla è fortissima, perché tutta percorsa di un brivido magico. Ma per nostro conto Gertrud resta una palinodia del cinema, un rimpianto del palcoscenico. Dite voi se quando l’immagine s’appoggia sulla parola un film può essere un capolavoro.
Giovanni Grazzini, Corriere della Sera, 21/12/1964

Critica (3):

Critica (4):
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