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Happy Together - Cheun Gwong Tsa Sit


Regia:Kar-Wai Wong

Cast e credits:

Sceneggiatura: Wong Kar-Wai; fotografia: Christopher Doyle; montaggio: William Chang Suk-Ping, Wong Ming-Lam; musica: Danny Chung; scenografia: William Chang Suk-Ping; interpreti: Leslie Chang (Ho Po-Wing), Tony Leung Chiu-Wai (Lai Yiu-Fai), Chang Chen (Chang); produzione: Wong Kar-Wai per Jet Tone Production; distribuzione: Lucky Red; origine: Hong Kong, 1997.durata: 93’.


Trama:Ho Po-Wing e Lai Yiu-Fai sono una coppia gay che lascia Hong Kong per l'Argentina "alla ricerca della cascata dipinta sulla loro lampada", ma soprattutto in cerca di "un futuro". Quella che doveva essere la terra della loro ri-unione sarà invece lo scenario della definitiva rottura della relazione, tra stupidi litigi, tradimenti e la comparsa del giovane Chang, del quale Lai Yiu-Fai capirà tardivamente di essere innamorato. Yiu-Fai ritornerà alla natia Hong Kong dopo aver visto sfaldarsi tutti i sogni riposti nella meta sudamericana, ma, come sembra suggerire il dinamico finale sulle ariose note di "Happy Together", una speranza nel domani ancora sopravvive.

Critica (1):La migliore canzone dei Turtles, Happy together, che coglie zucchero e grinta dei ribelli anni Settanta, dà il titolo spiazzante a un film che da ieri è in programmazione al Nuovo Sacher di Roma e che è stato, quanto a design, il più aggiornato oggetto in gara all’ultimo festival di Cannes ’97. Un film d’amore che parla del futuro politico di un pezzettino di Cina ma lo fa catapultando i protagonisti in un’atmosfera impropria e lontana. Ma sensuale e struggente, elegante e carnosa, popolare e sanguinante, fantasmatica e atroce, formalista e dunque autentica, come solo Buenos Aires sa essere. Set pulsante e di attrazione cinematografica continua, visto che questa metropoli, la più europea e “avanzata” che esista, è stata rovistata e scandagliata in un recente nockumentary inglese di Sally Potter, Lezioni di tango, dove la regista di Orlando reinventa una vera storia d’amore con un grande danzatore di tango, inseguedolo dappertutto, imparando mosse e nuances di un ballo sfrontato e raffinato. A forza di dire “tutto vero” il film diventa falso, esotico: ronde indiscreta e ripetitiva, tranne la colonna sonora (ben tre canzoni di Osvaldo Pugliese). Happy Togheter, invece, lo dirige l’astro del cinema di Hong King, Wong Kar Wai, già scoperto dalla nostra distribuzione più eretica e nello spettro di geniali registi asiatici forse il più rock e esistenzialista. Il cineasta, già conosciuto e adorato in Italia, da un piccolo grande pubblico, per Fallen angels, è comunque un punto di riferimento per il cinema video-sensibile: il suo occhio fende la vita con sciabolate elettroniche mozzafiato, come un invisibile Bruce Lee dell’anima. Nessun passatismo, però, non è provocatoriamente démodé come un altro grande e più sconosciuto in Italia, Allen Fong. Per saperne di più leggere il bel libro, recentissimo, di Nazzaro sul cinema di Hong Kong (edizioni Le Mani). Happy Together è un tipico “trance film” di Wong Kar Wai, uno dei suoi “film vertigine”. È stato, a Cannes, il più esplicito dei film gay, ma non più spinto, non hard, come se ne facevano una volta. Opera d’atmosfera, di sottili frammenti, ellittico, incantato sul prima e sul dopo delle emozioni. Dei sentimenti. Delle azioni. Visualmente è al di là e al di qua della fascinazione pubblicitaria, dribblata alla Maradona. Colori timbrici e debordanti, blu, rossi, o quasi un film colorizzato e ingrigito dai tecnici Mtv. Un flusso ottico inabissato dentro un’antisinfonia di Frank Zappa e affogato in troppo Astor Piazzolla, a far l’ambiente tanghéro della movida di Buenos Aires, tra i vicoli proletari dove spopola il derby Boca Junior-River Plate, e dove Lai Yiu Fai (Tony Leung), il posato, e Ho Po Wing (Leslie Chang), lo scatenato, giovani amanti in rotta continua, si ritrovano, si riamano e si lasciano per sempre. Lai, posato buttafuori da bar, poi lavapiatti, poi operaio del mattatoio, incapace di stare solo, non ne può più dello sfarfalleggiare da un amante all’altro di Ho, il passionale. E allora litigi, botte, fughe e, dopo l’ultimo “ricominciamo da zero”, fine. Lai butta Ho fuori di casa, soffiandogli perfino il passaporto, per puro dispetto. E sappiamo quanto sia atroce per molti cinesi questa mancanza di “carta d’identità”, sinonimo di mancanza assoluta di diritti, di schiavismo totale... Perché Lai adesso ama segretamente, riamato segretamente, il collega di cucina Zhang, che viene da Taiwan e che parte per la Patagonia, verso il punto più a sud del pianeta... unico legame tra loro un nastro registrato da Lai che Zhang promette di sentire solo davanti allo stretto di Magellano. E saranno solo inarticolate tracce di pianto... Le due Cine improprie, davanti a noi, e lo shock di un 1 luglio 1997 che si avvicinava, mentre Deng sta morendo, Tienanmen non sparisce in dissolvenza, e anche a Taiwan chissà come finirà... Elegia di dolore per la madre patria disintegrata, Hong Kong, urlata perfino nel sud più a sud del sud (come direbbe il nostro filmaker indipendente “southern” Nico Cirasola). Lai la immagina e noi la vedremo, visto che siamo dall’altra parte dell’equatore, di notte e a testa in giù. E poi, in un finale impasticcato e tenero, tra i banconi di un mercato asiatico, Lai cerca Zhang, mentre ossa, nervi e cuore sono pressoché spenti. Ma l’eco dell’amore antico gli permetterà ancora un surplus di sopravvivenza, il deambulare fissato dell’ubriaco, quando si ha ben in testa l’obiettivo senza avere più alcun contegno.
Roberto Silvestri, il manifesto, 25/9/1997

Critica (2):C’è una differenza sostanziale che intercorre tra il dittico Hong Kong Express/Angeli perduti e Happy Together, ed è una differenza che passa tutta per la prossimità dei corpi, per la loro materialità, per la consistenza fisica dei loro umori. Lì era tutto un figurare incorporeo della materia umana, una vicinanza impossibile di sagome, azioni, emozioni, una inconscia coazione alla distanza di corpi che galleggiavano in uno spazio ottuso, senza trovare un punto d’incontro, dispersi in una prossimità dilatata all’infinito. Qui c’è invece un quasi asfissiante lavorio sulla prossimità, un dinamico insistere su corpi che convivono nello stesso spazio, quasi fossero vettori convergenti per quanto portati a perdersi, separarsi, distanziarsi. Lì, in Hong Kong Express e Angeli perduti, era tutto un gioco a perdere sul contatto, sull’esserci in quanto assenza di una presenza, sull’inseguirsi di figure che sembravano condannate a restare concluse nel loro perimetro, nella propria sagoma, senza condividere gli spazi altrui: cercarsi – e perdersi – innescava una sorta di cortocircuito immateriale, in cui entravano in ballo millimetriche distanze coscienziali così come infinite lontananze/vicinanze di sentimenti dispersi. Qui, in Happy Together, la vicinanza è intima prossimità al vuoto, i corpi si cercano-trovano-prendono-perdono nell’arco di un silenzio e di una solitudine che li contiene a viva forza: uomini, passioni, emozioni sono materia, c’è coerenza nel loro gioco, ma il tutto sembra riflesso come in uno spazio concavo, nel quale le figure si trovano, si incontrano, si toccano in ragione di un effetto ottico. Esattamente come Hong Kong Express e Angeli perduti offrivano invece allo sguardo uno spazio di visione convesso, una dilatazione infinitiva della loro prossimità.
Lì, nel dittico di Hong Kong, il tempo era un’entità, una coordinata, forse sfumata ma comunque concreta; offriva un perimetro, magari una scadenza: scritta su una scatola di ananas, sorpresa nel punto terminale di un padre che muore, scovata nella fine del patto d’un killer con la sua “agente”, inventata nel fuoriorario lavorativo di un vagabondo che apre nottetempo negozi non suoi e li usa per i suoi cont(r)atti forzati... In Happy Together, invece, il tempo è completamente fuori gioco, gli eventi si succedono come avventi, successive apparizioni/trasformazioni di rapporti che, per quanto profondi, non sembrano lasciare segni. Non ci sono scadenze né inizi veri e propri, ma solo presenze e assenze a se stessi dei due protagonisti, intese come configurazioni di una scansione temporale in realtà negata nel perenne fuoriorario delle loro giornate, che non mostrano né giorno né notte, né prima né dopo. Giustapposizione di reciproche assenze, forzate a costituire una transitoria presenza destinata a scivolare nel mai: non è certo un caso se la momentanea riunificazione dei due protagonisti avviene proprio nel perimetro d’azione di un orologio sottratto-donato-restituito: passaggio di mano di un tempo che in realtà è un’ipotesi lasciata alle spalle e ormai gestita solo sulla scorta di una intima sospensione.
Happy Together è un tracciato piatto, una forma di coscienza fuori dal tempo, spalmata su uno spazio che in realtà coincide con l’azzeramento delle prospettive d’attesa del presente. Wong Kar-Wai offre un livello rappresentativo che non lascia posto alla definizione delle coordinate: perché pensa un film che fugge da se stesso molto più di quanto facessero Hong Kong Express o Angeli perduti, che pure sembravano voler tracciare traiettorie di fuga senza poi trovare lo spazio per praticarle. E fugge da se stesso certo non perché trova il proprio set dall’altra parte del mondo, in Argentina, ma perché si perde in un vuoto che descrive totalmente la natura dei suoi personaggi: Ho e Lai sono corpi in caduta libera, che si appartengono reciprocamente solo nella misura in cui, in realtà, ognuno d’essi non appartiene né a se stesso né alla sua storia. Per trovare le ragioni di un film come questo, bisogna spostare l’obiettivo un po’ più in là del perimetro tracciato dall’ormai ben codificato sguardo del cosiddetto cinema apolide, è necessario spostarsi piuttosto nel perimetro del tempo, coglierne l’annichilito battito, comprenderne la scansione a grado zero.
Perché Happy Together si muove proprio qui, è un film che lavora a tempo scaduto, inscritto nell’attimo eterno di una perpetua sospensione sull’assenza non del futuro né del passato, ma del presente. Se gli angeli caduti del dittico di Hong Kong perdevano se stessi in un tempo che non li conteneva più, Ho e Lai si ritrovano loro malgrado uniti in un tempo che non contiene più se stesso nell’attimo presente: perché nel film c’è il passato, così come c’è un abbozzo di futuro, ma manca proprio la consistenza dell’attimo in se stesso, del famoso “ora”, che avrebbe pure un “qui” nel quale stazionare – e magari perdersi – se solo trovasse una sua materialità, una sua autentica consistenza. C’è invece la fluidità dello sguardo che supplisce l’ora”, ci sono le strisce di coscienza che ridisegnano lo scenario argentino (che forse si vorrebbe pittoresco) nell’astratto e stranamente smorto sfavillio di una fotografia sbavata nella tricromatica scansione shocking di rossi, verdi e blu. Ci sono le distorsioni, le accelerazioni, le divaricazioni del tempo di una Buenos Aires congelata in pose distratte, lontane, fredde. E c’è anche lo sbandamento indotto dalla fotografia del grande australiano Christopher Doyle, che ritrova quasi con stupore nel calore dei colori latini di questa Argentina, la smorta freddezza dei cromatici maquillage al neon offertagli nel dittico dagli scenari metropolitani di Hong Kong, coniugandola alla antica solarità evocata anni fa sul set infinito di Ashes of Time, per lo stesso Wong Kar-Wai.
Happy Together è dunque un film disperso. Nel senso che dilaga in un vuoto senza perimetro, non circoscritto da alcun confine che non sia la lontananza. La quale genera estraneità, quindi assenza, e dunque vuoto... E evidente che l’elemento più forte del film è proprio il rapporto azzerato con il set prescelto, l’essiccamento emotivo cui Wong Kar-Wai sottopone l’orizzonte nel quale si è portato: l’Argentina, col suo tango, la pampa, Buenos Aires, ridotti a set astratti, a tele sulle quali strisciare luce e colori con furore teorico. Il che definisce forse la natura della diversità di Happy Together rispetto ai precedenti film di Wong Kar-Wai, nel senso che descrive perfettamente quell’impressione di geometrica costruzione che per gran parte comunica, a fronte dello scontornato divenire di Hong Kong Express e Angeli perduti, o del lavoro a piena area del quasi immateriale Ashes of Time. C’è tanta disperazione in questo sguardo quanta dispersione di energia visuale, tanto furente atterrimento di fronte al vuoto che sente dentro quanta lucida architettura nella costruzione di uno sguardo così prepotentemente a grado zero.
Uno sguardo nel quale Ho e Lai faticano a mostrarsi, sembrano quasi tagliare lo spazio senza incidere davvero sugli sfondi. Restano piuttosto come ombre incorporee, come sfocature davanti all’obbiettivo, indistinte nella loro diversità/unità sia rispetto al paesaggio che le circonda che rispetto alla loro stessa più intima natura. Stanno “insieme”, Ho e Lai, come da titolo, eppure non trovano lo spazio per contenersi a vicenda: partiti inseguendo un miraggio, si sono dispersi nel vuoto di un set che non li contempla, ma nel quale pure riescono a trovare una collocazione figurativa che li riporta indietro e sembra quasi riproiettarli su un trompe-l’oeil hongkonghese: Buenos Aires diviene sempre più una città trasparente, i cui luoghi si sommano, sovrapponendosi a riverberi fuori posto: ristoranti cinesi, tango-bar che sembrano nightclub per mafiosi, squallidi monolocali che disegnano interni di solitudine simili ai tanti appartamenti cui il cinema asiatico di questi anni ci ha abituati...
Lo spiazzamento di Ho e Lai è in effetti la traccia più forte della loro presenza. Questi due amanti descrivono sin dall’inizio una vicenda in cui si palesa per loro l’impossibilità di occupare lo stesso spazio, ma non di meno tracciano traiettorie mosse da un sordo desiderio di unione, di appartenenza reciproca. Ma la loro reciprocità è piuttosto un’ipotesi d’identità restituita al mittente, nel senso che ognuno di loro poi rincorre una sua identità, una sua autonoma definizione. E a chiedersi perché mai, poi, Wong Kar-Wai abbia voluto raccontare qui una storia (d’amore) gay, la risposta potrebbe risiedere proprio nella volontà del regista di delineare un contesto
in cui l’appartenenza dei due amanti allo stesso sesso disegna una relazione/attrazione nel segno dell’identità. Ho e Lai, del resto, sono due doppi corpi che lavorano nel segno della duplicità, del rispecchiamento: l’uno accanto all’altro, l’uno assieme all’altro, l’uno contro l’altro, l’uno come l’altro, l’uno diverso dall’altro... Sembra quasi di ritrovare, in differente modulo, il gioco del John Woo di Face/Off, un altro hongkonghese in trasferta che descrive singolarmente un’identità slargando sino allo strappo le maglie della diversità.
E se l’idea di un doppio corpo da praticare come luogo di un’identità infranta offre l’agio di ipotizzare un percorso magari semplicistico ma tutto sommato concreto, in cui la fine annunciata di Hong Kong si consegna metaforicamente ad una doppia anima denudata, che non trova più l’aderenza a se stessa, allora Happy Together si configura davvero come «una storia sulla riunione», come recita il sibillino sottotitolo del film... Perché il film traccia proprio un percorso il cui epilogo riconsegna ognuno dei suoi parcellizzati personaggi alla sua unità, alla sua appartenenza a se stesso e alla sua collocazione nello spazio del mondo, che è anche lo spazio del Tempo e della Storia. Con Ho, corpo portatore di dispersione e indefinitezza, che viene consegnato ad un non-luogo dal quale non è possibile trarre coordinate per il presente; Lai che torna a casa recuperando in qualche maniera una forma di identità e una appartenenza ad un tempo presente; e il taiwanese Chang consegnato al Polo Sud, nel quale forse attenderà che la sua Taiwan, altro lembo di terra asiatica ancora in qualche modo sospeso su una Storia di appartenenza/non appartenenza, trovi una sua soluzione o riunione definitiva.
Resterebbe da dire delle lacrime e del silenzio, su cui Happy Together si chiude: le lacrime silenziose di Lai consegnate all’ascolto solitario di Chang nel vuoto dell’Antartide. Traccia definitiva di uno sradicamento comunque insanabile o piuttosto scoperta dell’angosciante solitudine cui condanna un’identità/unità ormai inalienabile?
Massimo Causo, Cineforum n. 368, ottobre 1997

Critica (3):

Critica (4):
Wong Kar-Wai
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