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Sciacallo (Lo) - Aîné des Ferchaux (L')


Regia:Melville Jean-Pierre

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo omonimo Georges Simenon; sceneggiatura: Jean-Pierre Melville; fotografia: Henri Decaë; musiche: Georges Delerue; montaggio: Monique Bonnot, Claude Durand; scenografia: Daniel Guéret; interpreti: Jean-Paul Belmondo (Michel Maudet), Charles Vanel (Dieudonné Ferchaux), Michèle Mercier (Lou), Malvina Silberberg (Lina), Stefania Sandrelli (Angie, l'autostoppista) Barbara Sommers (amica di Lou), E.F. Medard (Suska), Todd Martin (Jeff), André Certes (Émile Ferchaux), Andrex (Andreï), Jerry Mengo (il banchiere), Debra Kent (la prostituta), Paul Sorrèze, Charles Bayard, Pierre Leproux (amministratori); produzione: Mario Ferrari, Sergio Bonotti per Ultra Film-Spetacles Lumbroso-Sicilia Cinematografica; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Italia-Francia, 1963; durata: 102’.

Trama:Un ex boxeur fallito, Michel Maudet, accetta di fare da segretario particolare al maggiore dei fratelli Ferchaux, dinastia di facoltosi banchieri. I1 finanziere deve raggiungere in fretta e furia New York e Caracas per ritirare dei soldi, prima che la polizia lo arresti. Una volta giunti nella Grande Mela però, i funzionari della banca dove sono depositati i denari si allarmano per il suicidio, avvenuto il giorno prima, di un altro Ferchaux, e decidono di bloccare il prelievo. Il vecchio banchiere, fiutato il pericolo, arraffa quanto riesce e decide di procedere nel suo viaggio verso sud in automobile. Maudet accetta di seguirlo ancora, ma l'Fbi lo avvisa che il suo datore di lavoro verrà presto estradato e che non raggiungerà mai il Venezuela. A questo punto, il giovane pensa di fregargli i soldi e abbandonarlo, ma a New Orleans Ferchaux si sente molto male, e il segretario decide di non lasciare il suo capezzale.

Critica (1):Pensate a Fritz Lang, 1931, M - Il mostro di Düsseldorf (M). Nella scena clou Peter Lorre è di spalle, sul suo cappotto, segnata col gesso, campeggia una M. Quello è un eroe terribile, un mostro appunto, che si porta addosso il peso del tarlo che lo consuma. È un volto da ermafrodita in un corpo flaccido, qui gli attributi sono segreti: nello sguardo febbrile, nel tremore del labbro. L'unico indizio palese è quella lettera M che ha segnata sulla spalla. Vent'anni dopo, galleggiando sulla superficie amniotica e luminescente di una piscina, il cadavere annegato di Joe Gillis inizia a raccontare la sua vicenda in Viale del Tramonto (Sunset Boulevard) di Billy Wilder. È un inizio totale, nell'incerto oscillante. L'uomo, un bello squattrinato, si presenta di spalle, col volto verso l'acqua. Intorno a lui lo spazio geometrico, eppure sfumatissimo della vasca. Era il 1950.
Il mostro di Düsseldorf e Joe Gillis sono, fatte le debite differenze, il nonno e il padre cinematografici di Michel Maudet, il protagonista di L'aîné des Ferchaux (in Italia Lo sciacallo), classe 1963, di Jean-Pierre Melville.
Tratto da un romanzo, "minore", di George Simenon con lo stesso titolo, L'ainé des Ferchaux, film, è un paradigma, l'esempio di come si possa mondare un'opera letteraria e trasportarla in una pellicola che le si sovrappone, distanziandosene, senza tradirla. Il romanzo e il film sono affatto diversi e per questo sostanzialmente uguali, perché come Simenon aveva costruito il suo personaggio principale nella tradizione letteraria dei Tartufi, così Melville lo trascina nelle sue parentele cinematografiche. Da qui il nonno Lang e il padre Wilder. Ma iniziamo da capo. La storia racconta il rapporto tra un ricco faccendiere, Dieudonné Ferchaux, che deve sfuggire a inchieste sul suo torbido passato, e il suo ambiguo segretario Michel Maudet. Tutto qui. La trama è questa. Il segreto che unisce questi due uomini e la loro assoluta contiguità, come se fossero due facce della stessa persona. A differenza delle coppie letterarie e cinematografiche che si rispettino, Ferchaux e Maudet sono assolutamente identici, sanno farsi molto male ma, contemporaneamente, sono uniti da una genetica che li lega indissolubilmente. L'uno conosce l'altro attraverso se stesso. Questo è quanto ha raccontato Simenon, questo è quanto ha filmato Melville. Michel Maudet è un pugile fallito, un amante fallimentare, un uomo senza qualità se non la sfrenata ambizione. Un mostro, nell'accezione più psichiatrica del termine, amorale, ma non immorale, infarcito di una certa provocatoria impudicizia, sexy e caldo a tempo, come può esserlo un gigolò. Ferchaux è potente persino nella sconfitta: tutto frana intorno a lui, ma lui ancora dà ordini e dispone, quando gli consigliano di lasciare la Francia per evitare l'arresto deve trovare un segretario-guardia del corpo e trova Michel Maudet, cioè se stesso trent'anni prima. Ora, guardando quell'uomo troppo dimesso per essere modesto, il vecchio capisce che il viaggio che deve portarlo in salvo sarà il suo ultimo viaggio. Questo è quanto racconta Simenon, questo è quanto filma Melville. Eppure Michel scritto e Michel filmato per essere così vicini devono essere distanti. Molieriano, essenzialmente tragico nella sua ambizione trattenuta, il primo; espressionista nel peso dei gesti e dei simboli il secondo. Quanto Simenon aveva insistito sul coté angelico, strumento del contrappasso di Michel arcangelo, così Melville insiste sul versante torbido, maledetto, maudit di Maudet.
Infatti Melville ce lo introduce di spalle con le braccia aperte sulle corde di un ring luminoso e oscillante come una piscina, in un ambiente fumoso e sfumato, e con due M stampate sulla schiena. Come era capitato al nonno mostro tedesco, questo mostro francese ha un contrassegno che lo connota, anzi due; e come era capitato al padre Joe, questo squattrinato parla di sé dandoci le spalle. Ma anche il vecchio tonante, nella prima inquadratura che lo riguarda, ci viene presentato di spalle. Infatti in Ferchaux dobbiamo vedere solo la fine di Maudet e in Maudet l'origine di Ferchaux. Da ora in poi, da quando cioè entrambi si volteranno e si guarderanno negli occhi, e scopriranno, insieme a noi, di avere le facce di Jean-Paul Belmondo e Charles Vanel, il film diventerà una storia di seduzione, matrimonio, separazione.
L'aîné des Ferchaux è una storia d'amore per se stessi, nello sguardo molle di BelmondoMaudet, nelle sue camicie aperte sul petto glabro, nelle sue labbra tumide c'è più autoerotismo che erotismo. Mentre nel consapevole passaggio da Master a Slave di Vanel-Ferchaux c'è più nostalgia per quello che si è stati e ora non si è più che pulsione sessuale. Tuttavia Maudet-Belmondo e Ferchaux-Vanel sono una coppia esclusiva. Le donne sono satelliti, passaggi, necessità fisiologiche, danzatrici e avventuriere per il primo, schiave nere, imperatrici-serve per il secondo. Quando Maudet prende la sua decisione, quella decisione non può in alcun modo riguardare la donna che ritiene di essere amata da lui, anzi la sua stessa esistenza potrebbe mettere in pericolo la riuscita del suo progetto, così, semplicemente, in una scena davvero agghiacciante, l'abbandona seduta a un bar, fiduciosa di vederlo arrivare di lì a poco. Lì Melville e Simenon si toccano come non mai: in quella coscienza che noi, spettatori o lettori, abbiamo e che al personaggio, su carta e su pellicola, manca. Perché noi sappiamo con assoluta certezza che l'uomo atteso dalla donna non ritornerà più. Da qui
in poi, liberandolo da ulteriori orpelli, Melville spoglia il romanzo della Storia per limitarlo alla sua Storia: un uomo anziano fa i conti col suo passato ma, quel che conta, un uomo giovane ha l'opportunità di guardare a fondo nel suo futuro. Per questo il protagonista di L'aîné des Ferchaux sono due. Un Giano bifronte, un doppio mostro, una doppia M. Il vecchio è soprattutto un criminale che non è mai stato assicurato alla giustizia, uno che ha apparenza di bonomia senile, ma che è capace di gesti estremi. II giovane è uno squattrinato mantenuto, uno che non esita a usare il proprio corpo come un'arma d'offesa, uno smilzo aggressivo e nervosissimo. Maudet di Gillis, il suo padre americano, ha perso il glamour del doppio petto, ma non il pelo sullo stomaco. Così come Ferchaux ha perso la consistenza anonima del suo nonno tedesco, ma non la sua, pericolosissima, tendenza bipolare.
Fino alla fine, quando, scambiate definitivamente le parti, maudit Maudet, togliendosi la maschera per rivelare il suo vero volto, del tutto identico a quello di Ferchaux morente, tradisce i complici scambiando la valigia dei soldi con una identica, che contiene quella stessa vestaglia da pugile su cui campeggiano le due M che avevamo visto all'inizio del film.
Il romanzo di Simenon prende spunto da una vicenda reale, ma diventa una storia solo quando scatta la coscienza che la realtà non è interessante da raccontare se non è innervata nella finzione. Anche Melville pensa che l'unica strada per essere realistici sia quella di procedere per rarefazioni: a partire dal ring-piscina, dalla Parigi notturna, dalla New York appena accennata, fino all'esotismo schizzato del rifugio finale, tutto concorre a santificare la performance di questo gigantesco personaggio uno e bino. Ne scaturisce un film ostentatamente povero, con un'allure teatrale, geneticamente francese, tradizionale eppure modernissimo, immortale come certi pezzi di design... Tanto moderno da anticipare l'assetto asciutto e radicalissimo di certi film del Dogma, dove avrebbe funzionato perfettamente quel pubblico dell'incontro di boxe che Melville ha immerso in un'oscurità assorbente, o il locale dove la cameriera nera balla al ritmo della musica del jukebox. Tanto moderno da avere almeno un figlio legittimo. Pensate ai titoli di testa sfocati, muti, di Toro Scatenato (Raging Bull, 1980) di Martin Scorsese. Scorsese organizza l'inquadratura come schermata dalle corde elastiche del ring. Lì, in quell'immagine imprigionata, in una solitudine sconsolata, ottusa, tremenda, nel paradiso infernale dei pugili, si scalda Jack La Motta. Distante dall'obiettivo, il campione dei campioni è del tutto immerso nel suo mondo estremo, autistico, di uomo senza qualità se non un pugno micidiale e un qualche ascendente col gentil sesso. Ma "Raging Bull" è toro appunto, tutto attributi e poco cervello. Figlio perfetto, cinematograficamente parlando, di quel Michel Maudet di cui abbiamo parlato.
Marcello Fois, “Il primogenito dei Maudet (L'ainé des Ferchaux)”, in Jean-Pierre Melville, a cura di Mauro Gervasini, Emanuela Martini, Il castoro-Torino Film Festival, 2008

Critica (2):(…)L'aîné des Ferchaux è il primo film che Melville gira a colori. E fin dall'inizio rivela un tono melvilliano. Prima che i titoli compaiano la mdp inquadra un ring deserto. L'illuminazione ha qualcosa di strano e di irreale. Si ode la voce off («Mi chiamo Michel Maudet e questo è tutto»), il commento musicale abbandona le tonalità lugubri per mutarsi in un vivace contrappunto dell'incontro di pugilato tra lo sfidante (Maudet) e il campione. I titoli scorrono di pari passo alle fasi dell'incontro, montato velocemente con l'impiego dello split screen. Terminano i titoli e termina contemporaneamente l'attività di Maudet boxeur. Come sappiamo, nei film melvilliani le scene iniziali hanno un preciso significato: vi si condensano i lineamenti psicologici di uno o più personaggi, la cui fisionomia si evolverà in seguito (si ricordino Le silence de la mer, Bob le flambeur, Deux hommes dans Manhattan, Le doulos e Le deuxième souffle, ma il discorso riguarda un po' tutta la produzione trattandosi di un «preliminare» cui Melville riserva un'attenzione maniacalmente costante).
La voce off è precisa e netta nel definire il «chi è» del personaggio. Michel Maudet si presenta senza mezzi termini: è uno sbandato, uno che ha scelto un mestiere inadatto, è deluso di se stesso come uomo (Michel, a voce bassa: «E dire che sarò costretto a campare con quel tizio» - Lina: «Quale tizio?» - Voce off di Michel: «Quel tizio che aveva tradito la mia speranza e nel quale non volevo riconoscermi» - Michel, a voce diretta: «Io». L'artifizio della voce off qualifica inoltre il clima morale in cui vive il personaggio del giovane Maudet, deluso dalle aspettative di una carriera sportiva almeno decente e costretto a tentare nuovi modi di stare al mondo. È tipica di certi personaggi melvilliani la tensione interiore che li induce a rompere con il proprio status attuale – anche a costo di non assumere poi un altro (…) – per acquisire una seconda identità, come nel caso di Maudet, oppure per provare a se stessi di essere ancora «vivi», come per l'ex flic Jansen in Le cercle rouge e per Gu Minda, la vecchia tigre di Le deuxième souffle. (…)
Vien da pensare che nei film melvilliani ogni tipo di relazione conduca «inevitabilmente» a un epilogo tragico. Forse è così. Può trattarsi di un uomo e una donna, di più uomini o di una coppia antitetica (poliziotto-fuorilegge), legata da un filo di sottile complicità e di inespressa solidarietà umana, ma queste storie rispettano tutte un rituale (l'inesorabilità del Fato) dalle cadenze ossessive. Solo la morte interrompe bruscamente le rivalità, gli odii, le amicizie tra gli individui. L'antieroe di questi film coltiva, sotto la scorza dura delle apparenze, una sua sfera d'affetti, circoscritta nel tempo e nello spazio. Una scorza che assumerà addirittura un carattere simbolico in Le samouraï. Nel finale, quando in uno scontro a fuoco la legge finisce col prevalere, risalta ancora meglio la personalità di chi è sopravvissuto alla morte: sono individui mai realmente vittoriosi, che riprendono a condurre la loro vita solitaria nella routine lavorativa.
Un po' tutta la critica è concorde nel ritenere che in L'aîné des Ferchaux maturi gradualmente – divenendone l'asse narrativo principale – un rapporto d'amore «mancato» tra Ferchaux e Maudet. E un'intuizione giusta, avvalorata da espliciti riferimenti al «desiderio del corpo» e dalle battute pronunciate da Ferchaux nel prefinale. L'anziano banchiere riconosce in Maudet una parte di se stesso: quella rappresentata dalla gioventù. Nutre ammirazione per lui perché vi vede riflessi gli anni migliori della sua vita, ma constata a proprie spese che non è facile entrare in sintonia col temperamento ribelle di Maudet. Il banchiere dichiara durante il viaggio di dividere gli uomini in tre categorie: le pecore, i leopardi e gli sciacalli. Michel è collocato tra la seconda e la terza. La sua indole combattiva e ambiziosa emerge subito. Nella scena dello snack-bar, per accattivarsi le sim- patie del banchiere, il giovane prende a pugni due marines rei di aver sostituito al juke box un disco di Sinatra scelto da lui con uno di Elvis Presley. Mentre l'uno guadagna terreno a poco a poco, l'altro vede la sua autorità affievolirsi. Il giovane non si fa certo scrupolo di ristabilire i ruoli. Ferchaux non ha sbagliato a collocare Michel tra i leopardi e gli sciacalli.
Il desiderio della gioventù, che Ferchaux insegue baldanzosamente prima di arrivare nel Sud degli Stati Uniti, si trasforma, mentre la malattia e il disagio ambientale avanzano, in malinconica e cosciente rassegnazione alla solitudine. Contrassegnato da accenti di partecipazione commossa – avvertibili soprattutto nel finale – questo match generazionale eccede la misura abituale delle convenzioni insite, poniamo, in un confronto/scontro da film western. Tra due età così distanti, tra due modi di intendere i rapporti umani, tra il vecchio (mondo) che muore e il nuovo che si trova dinanzi un presente denso di incognite, Melville insinua il tema della solitudine, da cui è contagiato anche il giovane Maudet per un effetto di identificazione/sostituzione con l'altro. Qualcuno ha sostenuto che eccessivo sia il pessimismo del film e troppo ambigua la relazione tra i due uomini. Eppure se c'è un rimprovero da muovere a Melville non è di aver badato a cesellare i personaggi quanto di aver trascurato di «rinforzare» la sceneggiatura con situazioni nuove, credibili e non – come invece accade – tronche (l'incontro con l'autostoppista che non aggiunge e non toglie nulla al racconto oppure la figura di Suska, molto meglio delineata nel libro di Simenon). (…)
Il viaggio compiuto dai due protagonisti in L'aîné des Ferchaux non ha lo spessore e l'incidenza di una recherche, ma raggiunge lo scopo che l'autore si era refissato: quello di alimentare – con le impressioni offerte da un viaggio lungo la autostrada, dalle soste presso i motel e dalle insegne luminose grandi come edifici – la suggestione di un paesaggio mentale chiamato America. La tentazione era forte, e Melville non seppe rinunciarvi. Per la seconda volta, dopo l'incursione del 1958 all'epoca delle sequenze newyorchesi di Deux hommes dans Manhattan, sfruttava l'opportunità di «immortalare» i segni (e i sogni) dell'infanzia, dell'adolescenza, della maturità e degli anni a venire. L'America vista è qualcosa di accessorio rispetto al racconto: una cornice scenografica del viaggio in auto, ammaliante quanto si vuole, ma pur sempre sfondo e non fulcro dell'azione. Non è comunque un réportage turistico: l'immagine è sobria, Melville non esagera con le strade polverose e assolate, i rettilinei a perdita d'occhio e le cafeterias, quelle realtà extra urbane che il cinema americano degli anni Settanta rivaluterà per farne, il più delle volte, l'oggetto privilegiato delle sue storie. Insomma, il nocciolo di L'aîné des Ferchaux risiede nei terreno delle relazioni umane, che Melville ha saputo sempre arare con buoni risultati. (…)
Pino Gaeta, Jean-Pierre Melville, il Castoro cinema, 3-4/1990

Critica (3):

Critica (4):
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