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Acrobate (Le)


Regia:Soldini Silvio

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Doriana Leondeff, Silvio Soldini, con la collaborazione di Laura Bosio; fotografia: Luca Bigazzi; montaggi: Claudio Cormio; costumi: Annabruna Gola; musica: Giovanni Venosta; interpreti: Valeria Golino (Maria), Licia Maglietta (Elena), Mira Sardoc (Anita), Angela Maraffa (Teresa), Fabrizio Bentivoglio (Stefano), Roberto Citran (Paolo), Manrico Gammarota (Mirko), Teresa Saporangelo (Giusi); produzione: Monogatari, Aran, Vega Film, (Zurigo), in coll. con Mediaset; origine: Italia, 1997; durata: 120'.

Trama:Impersonato da un'anziana slava (M. Sardoc), il caso fa incontrare due donne, la benestante Elena (L. Maglietta) di Treviso e la malmaritata Maria (V. Golino) di Taranto, entrambe insoddisfatte, ma non rassegnate. Insieme fanno un viaggio che finisce tra le cime innevate della Val d'Aosta.

Critica (1):(...) Del cineasta Soldini colpisce non soltanto, come già aveva notato Conforti scrivendo a proposito de L'aria serena dell'ovest (Cineforum n. 298) l'atteggiamento di un "testimone partecipe", che tuttavia coglie soltanto alcuni aspetti della vita interiore dei suoi personaggi, senza potercene svelare pienamente l'eventuale mistero"; a partire da questa scelta, colpisce anche la determinazione con cui il suo cinema lavori proprio su quei personaggi, cercando di definirli costantemente nell'incrocio e nell'intreccio irrisolvibile fra un'apertura indefinita alle possibilità (che per ognuno di essi significa qualcosa di diverso rispetto agli altri senza che questa differenza introduca classifiche o preferenze di sorta) e l'indefinito riproporsi di possibilità che la vita presenta loro, nell'incalzare dei minimi gesti, degli eventi più sottili, dei traumi più banali. Come si diceva, al centro sta la domanda fondamentale sulla verità. La modernità del cinema di Soldini consiste anche nel fatto che questa domanda viene posta con la piena consapevolezza del fatto che non è possibile, a questo proposito, alcuna risposta definitiva, capace di riappacificare (di riappacificarci), né ci può essere dato al proposito di determinare graduatorie di merito. Un cinema filosofico, sicuramente, dagli evidenti risvolti morali, che non manca di un possibile riferimento alle posizioni di un'importante rappresentante italiano della riflessione ermeneutica contemporanea, qual'è Luigi Pareyson. L'idea di "personalismo ontologico" che caratterizza l'evoluzione più matura del suo pensiero, partendo da origini esistenzialiste collega la ricerca della verità con i concetti di inesauribilità e di libertà. La ricerca della verità, dunque, per Pareyson come per Soldini, non è mai conclusa e sfugge, una volta avviata a qualsiasi tentativo di arrestarla in un appagamento definitivo e tranquillizzante. Elena e Maria possono arricchirsi interiormente della pienezza loro incontro, ma temperando la felicità con l'ironia che dà la misura delle cose e comunque senza rinchiuderlo in alcun progetto sul futuro che le riguardi; Teresa compie il suo rito magico come una sorta di atto dovuto alla coincidenza (prodotta dal suo desiderio, dalla sua personale ricerca) che l'ha posta di fronte a quello sperone di roccia dal nome singolare, ma non per questo può aver dimenticato i dubbi che hanno accompagnato il ritorno nelle sue mani di quel piccolo dente viaggiatore. Per tutte e tre, il tragitto intorno alla verità che le riguarda si svolge sotto il segno della fragilità e della precarietà, come si diceva in apertura, ma a confortarci di ciò d'altra parte è ancora Pareyson quando ci dice che la verità va intesa presente (quando si presenta) come dono, come rivelazione che coglie la persona impegnata per lei; e questo avviene soltanto quando la persona "lascia essere la verità", senza pretendere di inventarla (e, in tal modo, di definirla conclusivamente). Come dire che fragilità e precarietà, appunto, ne sono due tratti essenziali, ineludibili. Mi pare importante sottolineare come questa vicenda di incontri, di avvicinamenti, di aperture senza la sicurezza di un interesse da riscuotere, si svolga tra il Veneto e la Puglia, lungo il versante orientale della nostra penisola; ancora una volta, pochi mesi dopo il Mazzacurati di Vesna va veloce e precedentemente l'Amelio di Lamerica, il mare Adriatico torna ad imporre la sua presenza come segno geografico ambivalente di confine e di soglia aperta, attraverso il quale è possibile, pur pagando il prezzo di diffidenze e incomprensioni, materializzare l'idea stessa del contatto, della conoscenza e, in qualche modo, di una secolare mescolanza. Questo luogo, che per qualche decennio è apparso votato a marcare soprattutto la distanza tra due universi politici antagonisti e tra due culture differenti per lingue, religione, memoria, sembra ora ritrovare sempre di più quelle caratteristiche di permeabilità che gli appartengono in virtù dell'elemento naturale da cui è formato, che ritroviamo nei ricordi più lontani della civiltà come simbolo del mutamento incessante ma anche della fecondità. L'immagine del mare (di un mare: concreto, determinato, contrassegnato dal suo nome preciso e dai suoi necessari riferimenti, al di qua e al di là) come tramite della comunicazione e dell'instaurazione di reciproche possibilità sta forse acquistando nel nostro cinema lo spazio e l'importanza che forse lo riscatteranno dall'avvilente appiattimento a cui sembrava fino a ieri destinato, come mete di proposte vacanziere da una parte e come teatro di poco limpidi allarmismi giornalistici dell'altra. Rispetto a questo quadro di ricerca di una verità mai appagata di sé, che prima ricordavamo e a cui non sono estranee le successive considerazioni marine, il film si muove, per quanto riguarda il suo piano formale, in totale coerenza e continuità evidente con i film precedenti di Soldini. La delimitazione dei singoli piani, il respiro impresso dai movimenti di macchina, l'evoluzione dinamica dello spazio- tempo costruito nel montaggio: Soldini lavora con le componenti fondamentali dell'espressione cinematografica. Per questa via, il film procura un varco fruttuoso tra l'istanza narrativa e quella rappresentativa, in cui potersi aprire alla propria specifica ricerca della verità, a una rivelazione da cogliere nella complessità dello sguardo che in tal modo produce. Uno sguardo che interroga la realtà tra le pieghe della sua apparenza e contemporaneamente interroga se stesso, sollecitando e mettendo tra loro in tensione i momenti del proprio dispiegarsi. Siamo in presenza di un cinema schierato dalla parte delle possibilità di mettere in quadro e organizzare un discorso profondo e appassionante mantenendo ben salda la presa al mondo, alle persone reali che lo abitano, agli oggetti che continuamente lo ridefiniscono: e per fortuna, nulla togliendo al merito di chi sa cercare anche in altre direzioni.
Adriano Piccardi, Cineforum n. 363, aprile 1997

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
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