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Miss Europa - Prix de beauté


Regia:Genina Augusto

Cast e credits:
Soggetto
: René Clair, Georg Wilhelm Pabst; sceneggiatura: Augusto Genina, René Clair, Bernard Zimmer, Alessandro De Stefani; fotografia: Rudolph Maté; scenografia: Robert Gys; costumi: Jean Patou (per l’abbigliamento di Louise Brooks); musica: Wolfgang Zeller, René Sylviano, H. Shepherd; montaggio: E.T. Greville; interpreti: Louise Brooks (Lucienne Garnier), George Charlia (André), Jean Bradin (il principe Adolphe de Grabovsky), Henri Bandini (Antonin), André Nicolle (il segretario di redazione), Yves Gland (il maharajah), Gaston Jacquet (il duca de la Tour Chalgrin), Alex Bernard (il fotografo), Marc Ziboulsky (il manager), Raymonde Sonny, Fanny Clair; produzione: Sofar; origine: Francia, 1930; durata: 108'.

Trama:Lucienne, modesta impiegata, partecipa a un concorso di bellezza, all’insaputa del fidanzato André. La eleggono reginetta di Francia e, più tardi, in un nuovo concorso, Miss Europa. L’impacciato André arriva nel grande albergo che la ospita, e la pone davanti alla scelta: o con lui o in quel mondo. Lucienne respinge la corte insistente di un principe e si precipita al treno che la riporta al suo amore. Sposa André ma la vita che conduce nella casa modesta non è felice. Invano cerca di soffocare il desiderio degli agi e del lusso. Una notte se ne va e segue il richiamo del principe che non l’ha dimenticata. Grazie a lui ottiene una scrittura per un film importante: il nome di Miss Europa è lanciato come quello di una nuova stella. André scopre dove si trova la moglie, la raggiunge e la uccide con un colpo di pistola mentre visiona, insieme al principe che le stringe la mano, il provino nel quale canta “Je n’ai qu’un amour, c’est toi”, la canzone che aveva giurato di cantare soltanto per André.

Critica (1):«Ne sois pas jaloux, tais-toi... Je n’ai q’un amour, c’est toi!» Forse non tra le cose più memorabili di un pur efficacissimo Genina, forse non tra le migliori interpretazioni di una pur splendida Louise Brooks, Prix de beauté ovvero Miss Europa è comunque un film importante, oltre che sintomatico, per i motivi che presiedono alle sue origini e confluiscono nei suoi risultati, per la sua composita freschezza, per il documento che riesce a costituire pur nell’evidenza o nella forzatura della finzione. Il film parte da un’idea di Georg Wilhelm Pabst, risalente ai tempi in cui egli sta dirigendo Louise Brooks in Die Büchse der Pandora ovvero Lulù (1928) e in Das Tagebuch einer Verlorenen (1929). Cioè nel personaggio di Frank Wedekind e in una sua versione piccolo-borghese aggiornata agli anni Trenta: immoralismo, pulsioni erotiche e spirito del tempo si fondono, in entrambi i casi, in un cupo ma lucido ritratto di donna che tutto travolge e tutto sublima, compresa se stessa; la nuova pellicola si propone come una sorta di divulgazione di massa di quei temi. [...] Prix de beauté è anche un film sul cinema, visto come approdo per la bellezza, come industria cui può dedicarsi persino un principe mecenate e pigmalione, come mondo esclusivo e un po’ peccaminoso che nutre e macina illusioni (alla bella il marajah di turno offre la partecipazione al dominio di un paese più grande di quell’Europa in cui lei primeggia), ma considerato anche – e non solo per gli spettatori – come una possibile fuga da una realtà che, quando non è problematica, è almeno troppo grigia e meschina. In tale contesto si muove l’avventura della protagonista, da toni di garbata e scanzonata commedia ad aspetti melodrammatici e fascinosi, sino al tragico finale, ed è da questo mix, da questa progressione, da questa escalation, che si può particolarmente apprezzare la partecipazione di Louise Brooks. Forse non perfettamente servita dal suo regista, forse ostacolata dai suoi stessi comportamenti privati (come si racconta a parte), forse non del tutto convinta del ruolo (lo cita di sfuggita nella cosiddetta autobiografia del 1974, Lulù a Hollywood, apparsa dieci anni dopo in Italia per i tipi di Ubulibri), quella che resta un mito della storia del cinema (anche se lo abbandonerà proprio l’anno successivo, all’età di appena venticinque anni, tornandovi saltuariamente fra il ’36 e il ’38) si dimostra inimitabile. Dolce e dura (persino i suoi tratti mutano a seconda delle circostanze, e non è solo un fatto di luci), ingenua e spregiudicata, un po’ coquette e un po’ cocotte (come le ha insegnato il maestro Pabst), Louise regge l’intero film sulle proprie gracili spalle (forse pesa davvero 54 chili ed è alta 1.65, come dichiara nella finzione del concorso; forse è ancora più piccola ed esile), sul suo sguardo che filtra dalla famosa pettinatura a caschetto, sulle sue misure vitali – in apparenza – non troppo entusiasmanti (diciamo un 80-65-80? con qualche punta di cellulite alle cosce). È erotica, la ex Lulù? Lo è nella misura in cui l’occhio dell’involontario voyeur – poniamo un vecchio critico dei tardi anni Novanta – non può che fissarsi su di lei, un misto di attrazione e sensualità, di gioia di vivere e di vocazione a perdersi, e poi a distruggersi. Lo è per una serie di indizi disseminati lungo la narrazione, anche quelli apparentemente più innocenti (e tutti a loro modo colpevoli). La prima volta che la scorgiamo fa una sorta di casto spogliarello, per mostrarsi in costume da bagno, su un’auto posteggiata presso la piscina pubblica (Antonin la spia e André si irrita, sia pur scherzosamente); poco dopo si esibisce in movimenti ginnici che attirano i frequentatori del lido e suscitano la prima delle vere e fatali gelosie del fidanzato; al luna-park manifesta attrazione-ripulsa per l’apache e l’africano che le si affiancano durante la gara di pugno di ferro in cui è impegnato un sovreccitato André; con un gesto molto suadente si ritocca frangetta e caschetto, prima di recarsi dal direttore del giornale; sul vagone letto che la porta a San Sebastian scopre, sotto gli occhi divertiti e divoratori del principe, i comfort dello scompartimento; la sua sfilata sulla passerella del concorso ha un tocco di birichineria e malizia in più; sotto lo sguardo cupo del sopraggiunto André, ha un modo tutto suadente e sensuale di accarezzare i capi del suo lusinghiero guardaroba; è impudico e sfrontato il riso con cui attende la proiezione che le sarà fatale... Ecco, Prix de beauté è un film, dopo averlo goduto e apprezzato nel suo intero, da dissezionare, come molti film dell’età classica, che possono davvero ancora insegnarci a leggere storie e immagini. E pure sul versante della regia (o della scena o del montaggio, il cui autore resta ignoto) i momenti da porre in evidenza, le soluzioni da apprezzare, sono numerosi. Intanto quel tono da pseudo (o vero) documentario, che riporta a futura memoria luoghi e abitudini di vita: la grande e affollatissima piscina pubblica, un gioioso carnaio umano; il “ventre” del giornale, con le sue prodigiose macchine e il taylorismo incrociato al fervore operaio; i marciapiedi nell’intervallo di lavoro, pullulanti di animazione e di speranze; il già citato luna-park (dove la cinepresa agisce libera e spericolata, quasi a mo’ di cinema-verità) che è un microcosmo di attrazioni e aspirazioni; il baraccone del “fotografo dell’amore”, specializzato in coppie e nel simulare spontaneità e felicità anche laddove esse non esistano; quella sorta di immensa Plaza de Toros ove si svolge il concorso fra un pubblico molto assortito e molto (forse troppo) trepido e partecipe, e via citando. Poi, certi passaggi narrativi, resi ellittici o analogici attraverso belle invenzioni: lo stacco dalla foto in coppia di Lucienne e André (lui protervo e impacciato; lei triste e perplessa, che si concede faticosamente a un sorriso) alle foto del concorso di bellezza sparpagliate sul tavolo di redazione; lo stacco da Antonin che deve comporre il fatidico titolo sulla vincitrice del concorso alla stessa Lucienne nell’atelier dove prova meravigliosi vestiti (inizio del sogno, fine della routine); la ricerca di André sul treno diretto a Parigi, dove la ragazza (fine del sogno, inizio di una nuova routine) prima percorre invano i vagoni di lusso con la loro fauna allegra ed elegante e infine lo trova in una squallida terza classe; la vita da casalinga scandita dalle cure a un uccellino in gabbia o dal periodico apparire di un cucù dall’orologio a pendolo. Anche l’argomento del concorso di bellezza pare, sino a prova contraria, nuovo e affascinante per il cinema (compresa l’invenzione dell’applausometro destinato a premiare la concorrente migliore). Bisognerà aspettare Miss Italia (1950, di Duilio Coletti, con Gina Lollobrigida: quale modesta emula!) per ritrovare un intero film imperniato su tale tipo di manifestazione, che appunto esplode in Italia (inventata da Dino Villani) nell’immediato dopoguerra, dopo aver da tempo imperversato in America (e ve ne sono numerose quanto poco significative tracce nel cinema hollywoodiano). Ma tutto il cinema, lo sappiamo bene, è un “prix de beauté”: nelle sue scelte, nei suoi approdi, nelle sue effimere affermazioni, nei piccoli drammi o nelle estreme tragedie che riguardano spesso – sugli schermi come nella vita – l’altra metà del cielo, anzi del firmamento.
Lorenzo Pellizzari, Cineforum n. 354, maggio 1996

Critica (2):

Critica (3):

Critica (4):
Augusto Genina
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