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Nuvole in viaggio - Kauas pilvet karkaavat


Regia:Kaurismäki Aki

Cast e credits:
Sceneggiatura, dialoghi, montaggio: Aki Kaurismäki; fotografia: Timo Salminen; suono: Jouko Lumme; scenografia: Markku Pàtilà, Jukka Salmi; costumi: Tuula Hilkamo; interpreti: Kati Outinen (Ilona), Kari Vàànànen (Lauri), Elina Salo (signora Sjóholm), Sakari Kuosmanen (Melartin), Mrkku Peltola (Lajunen); produzione: Sputnik Oy; origine: Finlandia, 1996; distribuzione: Ventana; durata: 96'.

Trama:Ilona è maître d'hotel al ristorante "Dubrovnik" di Helsinki. La crisi economica ha ridotto di molto la clientela. Il cuoco dà fuori da matto, brandisce un coltello e bisogna cercare di ricondurlo alla ragione. La padrona del ristorante riunisce tutto il personale e comunica loro le sue decisioni: le difficoltà finanziarie impongono la vendita del locale, tutti sono licenziati. Lauri, il marito di Ilona, fa l'autista d'autobus. Anche lui non ha fortuna: quando il padrone decide di licenziare quattro operai su otto e, per scegliere i quattro da lasciare a casa, decide di tirare a sorte, Lauri non ha scampo. Lauri si dà all'alcol. Ilona si mette a cercare un lavoro e lo trova in un localino infimo, dove deve fare tutto lei, servire i clienti e preparare i piatti. Ilona non è in regola con i contributi: due ispettori la scoprono e lei si trova di nuovo sulla strada... Lauri, nel tentativo di recuperare i soldi che il padrone deve a Ilona si prende un po' di botte. Ilona incontra per caso il portiere del "Dubrovnik" che adesso fa il calzolaio. Si bevono una bottiglia insieme e decidono di aprire un loro ristorante. Le difficoltà sono molte ma il vecchio gruppo del "Dubrovnik" si riforma...

Critica (1):Con questo film Kaurismäki ha scritto un fondamentale trattato di resistenza umana: un atto di fede verso quei soggetti che, tormentati dalla sfortuna, si abituano a disperare e subiscono, quasi con pazienza, i colpi di un mondo assolutamente ostile. I personaggi di Kaurismàki non si ribellano più, forse perché hanno capito che, comunque, qualsiasi tentativo di cambiare le cose è destinato al fallimento, che ogni loro gesto di opposizione è privo di senso, perché aggiungerebbe sconfitta a sconfitta. Non ci si può fare nulla: la società è divisa tra quelli che riescono a trovare una sistemazione, non importa di quale tipo e grado, e quelli che passano da una umiliazione all'altra, perennemente lasciati fuori dalla porta. La sequenza del licenziamento è eloquente: di fronte al rappresentante della compagnia che annuncia l'immediato scioglimento contrattuale di alcuni dipendenti per problemi di ristrutturazione aziendale c'è un gruppo di persone ammutolite e rassegnate. Nessuno inveisce, gli sguardi non cercano intese, ognuno sembra convinto che sia arrivato il suo turno, che la solidarietà non serve a nulla, che il dispiacere non può in alcun modo consolare la vittima del sorteggio. Così infatti viene praticata la selezione, tirando a sorte, pescando nel gruppo come si fa - da qualche parte succede ancora - per un'esecuzione sommaria, tra nte spogliata di ogni diritto. La fila i dipendenti non si scompone, ognuno sa di poter essere il predestinato: nell'altro vede un compagno di sventura, oggi capita a me, ma la prossima volta potrebbe essere il tuo turno. La sfortuna, per alcuni, è solo rimandata e al malcapitato di oggi non resta altro che togliersi di mezzo.
Sappiamo bene che il mondo ormai è avaro di soddisfazioni, che i più scelgono l'adattamento, che gli ideali hanno preso la forma di tanti oggetti di consumo in vario modo accessibili, che la storia scorre via, molto ridotta nel piccolo schermo televisivo, le sue tragedie proiettate tra uno spot pubblicitario e l'idiozia prevaricante di programmi digestivi. Eppure tutti aspiriamo a possedere quel minimo di tecnologia socialmente riconosciuta che altrimenti ci farebbe sentire una nullità. Il disoccupato, lo sfrattato che ricostruisce per protesta in piazza la propria abitazione non può fare a meno di collocarvi l'apparecchio televisivo. Così per Lauri è una gratificazione l'essere riuscito ad acquistare un televisore con dodici canali e, soprattutto, con il telecomando; a rate, come è d'obbligo per chi fa fatica a sbarcare il lunario e si trova costantemente in una situazione di precarietà. Lauri e Ilona vivono come tante coppie piccolo-borghesi che si costruiscono un'abitazione dignitosa, arredandola con quello che si trova nei supermercati o nei centri commerciali, cercando poi, nella sistemazione, di dare un tocco personale alla serialità; che affrontano certe spese poco alla volta, tra rinunce e desideri contenuti, che riescono a fatica a mettere da parte una piccola somma per qualsiasi evenienza, troppo poco comunque per ipotecare il futuro. Questo piccolo, piccolissimo mondo crolla quando i due erdono il lavoro, la sola risorsa che anno per sopravvivere in modo dignitoso. Perdere il lavoro significa perdere materialmente tutto e significa anche venir meno come persona; l'effetto psicologico è devastante, non si è più se stessi e all'altro si finisce per sbattere in faccia solo il proprio fallimento. Per questo motivo l'unica via di fuga rimane l'isolamento, per evitare il rispecchiamento nella propria umiliazione. I personaggi di Kaurismäki si fermano, si bloccano in una forma di pigrizia autoconservativa, di inerzia strategica che li conserva sì nella loro condizione di emarginati, ma insieme li separa esistenzialmente da quello stesso mondo che li perseguita con il rifiuto. Un mondo che non esita ad invadere lo spazio privato dell'individuo, la casa faticosamente arredata, passando sopra come un rullo compressore alla geografia dell'intimità, riprendendosi i segni di un mediocre e precario benessere.
Ilona e Lauri osservano, gli occhi fissi su un vuoto che dilaga, immobilizzati come l'animale che sa di soccombere se segnala con un pur lieve movimento la sua presenza al predatore. Ma in quello sguardo, nel quale possiamo leggere lo sbigottimento e la disperazione, la paura e la violenza subita, sta tutta la loro dignità, la loro sofferta diversità. Non c'è pensiero o atteggiamento psicologico che meglio rendano la drammaticità dell'evento, di quel guardare inesorabile, come una punta che perfora la cattiva coscienza di una società che perpetra l'esclusione per autoconservarsi.
Kaurismäki riporta nell'immagine la forza dello sguardo, una forza imponente e trasgressiva, una presenza angosciante che entra di prepotenza nello spettatore. Il personaggio che guarda condiziona l'inquadratura, piega la temporalità, trattiene il montaggio, quando allo sguardo venga affidata l'intensità dell'espressione. Un modo di essere, di mettersi davanti all'offesa: non una sfida, che sarebbe anch'essa perdente, ma solo la difesa di un sé che osa star lì, ancora per poco tempo, a prolungare la sensazione di disagio che sempre segue il momento della verità. Lo sguardo assorbe la soggettività, immobilizza il corpo: nel silenzio, perché nell'universo del regista finlandese non c'è posto per la parola che dichiara, che ordina il gioco delle rivelazioni, che riscrive trame già altre, troppe volte raccontate. Come non c'è posto per la confessione, per il dispiegamento psicologico, per la chiacchiera, che incolla tra loro i personaggi, come succede nel piccolo schermo.
Kaurismàki ci tiene alle distanze, a mantenere la percezione dello spazio, perché così può rappresentare i toni dell'oggettività e le tensioni che la attraversano. La messa in scena torna ad essere predominante, gli ambienti significanti, i colori e la luce sono la scrittura di una visione del mondo. Nell'immagine c'è una densità che dice, questa sì, la solitudine, il disincanto, l'angoscia, insieme con la prevaricazione, i cinismo, l'impietosità. Il conflitto, il dramma sono in ogni angolo, leggibili sugli oggetti, sui gesti, nel modo in cui si dispongono le figure. Qui il cinema ritrova se stesso, l'energia del punto di vista, la plasticità della composizione; la realtà viene lavorata e tradotta attraverso le "forzature" dell'immagine, per raccoglierne, nel trattamento della durata, i brani rivelatori.
Alla fine, c'è una schiarita anche per quei poveri disgraziati. Ma non pare
che Kaurismäki voglia lanciare un messaggio di speranza: ciò che è successo ai nostri eroi è frutto di una felice combinazione. Il caso ha voluto che due persone si incontrassero di nuovo, dalla parrucchiera, e che una di loro offrisse all'altra la possibilità di ricominciare. Nessuna esaltazione dell'iniziativa individuale quindi, nessuna adesione alla tenacia finalmente premiata; semplicemente, può succedere che qualcuno a volte si tira fuori, e trova l'occasione giusta. Forse, lassù c'è chi gli vuole bene e mette sulla sua strada un angelo che gli offre i mezzi per cambiare vita. Capita molto di rado, tutto ciò, e sembra un sogno. Ma vale la pena rischiare, contro un destino che pare irrimediabilmente segnato, sostituendo all'illusione il calcolo meticoloso delle economie da affrontare.
Non c'è mai stata attesa prima, non c'è aspettativa adesso. Il personaggio sa che non può fantasticare, che sarebbe un errore immaginare paradisi che gli sono oggettivamente preclusi. Unitosi al corteo dei senza lavoro, è cosciente che la chiamata sarà per pochi e, dopo l'ennesimo rifiuto, se ne ritorna a casa con, sul volto, l'espressione ammutolita di sempre. Ma non dimentica che altri vivono la sua stessa situazione e, quando il vento si mette a soffiare nella direzione giusta, la squadra si ricompone e anche il più irascibile, il più ubriaco, quello che aveva ferito il collega con un coltello, viene portato via a forza dalla compagnia dei barboni ed inserito nella nuova compagine.
La squadra dei disperati ritorna compatta e solidale per affrontare la nuova avventura. Ilona è stata di nuovo truffata, il marito ha perso i pochi risparmi al tavolo di gioco: c'è una regolarità anche nella sfortuna, ma ognuno è pronto a ricominciare, senza illusioni, dopo aver preparato ogni cosa con meticolosità da professionista. Gli arredi, le divise, le vivande: tutto è a posto e il ristorante può aprire. E tutti sono lì, con
lo sguardo verso la strada, per vedere se qualche buonanima, passando, decida di assaggiare il menù. I loro volti sono quelli di sempre, il loro silenzio è al limite della comicità. Aspettano, uno accanto all'altro, in piedi, senza fare nulla, immobili come sempre. E quando finalmente entra qualcuno, si mettono in moto, come se non si fossero fermati mai, senza dare segni particolari di esuberanza. Per loro si apre un nuovo capitolo, ma è meglio non sbilanciarsi troppo. Per ora le nuvole se ne sono andate: hanno telefonato chiedendo la prenotazione per trenta lottatori della squadra finlandese. Vuol dire che il locale è conosciuto, che chi ci lavora probabilmente comincerà a portare a casa lo stipendio.
Così si chiude la favola dei disoccupati, con un happy end non dai toni trionfali, ma con un'apertura al futuro, una soluzione molto terrena che forse durerà per un po' di tempo.
L'azzurro, il blu sono i colori dominanti di questo film di bressoniana compostezza. Girato quasi totalmente in interni, Nuvole in viaggio fa del colore uno dei segni dominanti della sua tenuta linguistica. Il blu distribuisce ambiguità sulla superficie dell'immagine: è una tinta forte, per certi aspetti accogliente, ma trasmette anche una sensazione di gelo e di angoscia. È un filtro che esalta le linee delle zone chiare e luminose e fa scivolare nel buio quelle in ombra, giocando sui contrasti in una stesura apparentemente uniforme. Dà una sua compostezza agli ambienti, ma ne fa respirare l'atmosfera soffocante e claustrofobica. Impastato alla luce artificiale, traduce il disagio del personaggio, come una sorta di campitura per uno stato d'animo diffuso, coinvolgente li esseri e le cose. Un colore che vive elle ampiezze del cielo viene steso sulle pareti ridotte delle stanze, non per creare una facile corrispondenza ed additare così una ancor più facile fuoruscita dell'illusione, ma piuttosto per solidificare una separazione con l'esterno.
I luoghi chiusi, in tal modo, sono dei rifugi, pastellati e protettivi, al di fuori dei quali si rischia di precipitare nel randagismo. Ma sono anche i luoghi dove si fa forte la pressione mentale che esaspera il senso di fallimento, dove una luce artificiale irradia freddezza, vuoto, disorientamento. Colori intensi, pieni, che contrastano con le lunghe notti del nord: colori protettivi, che compattano la scena, completano lo spazio all'interno del quadro, costruiscono mondi chiusi attorno al personaggio, concentrano la storia in situazioni "essenziali". Lo spazio prende rilievo, interagisce con il tempo in maniera determinante, incidendo, con la sua densità, sulla durata. I luoghi della quotidianeità, le architetture della consuetudine, diventano percepibili in maniera significativa, perché appartengono ai personaggi, sono l'ambiente delle loro vicende; si corrispondono, come elementi fondamentali della costruzione linguistica. Kaurismäki opera una rivalutazione della dimensione spaziale, utilizzando proprio i posti meno spettacolari, più semplici, più trascurati, più poveri di geometrie sfruttabili ad intenti conipositivi.
Eppure è lì che l'umanità di Kaurismäki mette in atto le sue strategie, le sue contraddizioni; che il dramma si incontra con la commedia, che il malessere si accompagna all'incoscienza. Non ha bisogno, il regista finlandese, di grandi spazi sociali per rappresentare la fatica e l'infelicità, e le circostanze della caduta e di un possibile riscatto. Sono sufficienti quattro pareti e pochi oggetti, ma tra di esse, come nella stanza di Van Gogh, viene giocata una partita che può diventare mortale. Anche se, alla fine, era giusto accomiatarsi dall'amico Matti con un trasferimento allusivo del punto di vista e con la complicità di un sorriso. Lassù qualcuno continuerà ad amarci.
Angelo Signorelli, Cineforum n. 362, 3/1997

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