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Hunter (The) - Shekarchi


Regia:Pitts Rafi

Cast e credits:
Sceneggiatura: Rafi Pitts; fotografia: Mohammad Davudi; montaggio: Hassan Hassandoost; scenografia: Malak D. Khazai; costumi: Malak D. Khazai; effetti: Reza Torkaman; interpreti: Rafi Pitts (Ali Alavi), Mitra Hajjar (Sara, moglie di Alì), Ali Nicksaulat (poliziotto/comandante), Hassan Ghalenoi (poliziotto/soldato), Manoochehr Rahimi (ispettore), Ismail Amani (Sanam), Ossta Shah-Tir (padre di Alì), Malak Khazai (padre di Alì), Saba Yaghoobi (Saba Alavi); produzione: Twenty Twenty Vision-Aftab Negaran Film Productions-Zdf/Arte & Pallas Film; distribuzione: Fandango; origine: Germania-Iran, 2010; durata: 92’.

Trama:Teheran. Ali è un ex carcerato che lavora come guardiano notturno. Un giorno, l'uomo torna a casa e scopre di aver perso la moglie Sara e la figlia Saba in una sparatoria che si è tenuta durante una delle tante dimostrazioni contro il governo. Non si sa chi sia il responsabile e lui per vendicarsi uccide due poliziotti. Braccato dalla polizia Ali si nasconde nel bosco intorno alla città, ma poi gli agenti Hassan e Azem riescono ad arrestarlo. Ali sembra rassegnato al suo destino e segue docilmente i due poliziotti, ma uscire dalla foresta non si rivelerà così semplice e i tre uomini si perderanno...

Critica (1):Un regista iraniano, Rafi Pitts, attivo soprattutto in Occidente, tornato però in Iran, sostenuto da finanziamenti tedeschi, per realizzare questo film che esce adesso nelle nostre sale dopo aver partecipato in concorso a un festival di Berlino. (...) Anche qui privilegiando quasi il non detto, con ellissi narrative solo cadenzate da quel protagonista che, quando scopre la verità atroce in cui è stato coinvolto, si chiude in un nerissimo silenzio. Fino al momento in cui, sempre tacendo, metterà in atto la sua vendetta: nei confronti, appunto, della polizia, data quella sparatoria. Qui le cifre intimistiche si mantengono intatte anche se le sfiora, attraversandole, uno scontro più diretto tra l'uomo e i poliziotti da cui è stato arrestato. Con una conclusione di certo tragica, ma, come tutto il resto, sempre in assenza di increspature e di segni forti. Per dare spazio solo al gelo. Il protagonista è lo stesso regista, Rafi Pitts, appunto. Un volto segnato e duro pur non rivelandosi impenetrabile al dolore.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo cronaca di Roma, 17/6/2011

Critica (2):Siamo a Teheran, ma non lo direste: il regista Rafi Pitts (anche protagonista) brucia l'immaginario ultimo scorso, perché l'Iran non è un paese per vecchi, né di (sole) capre e cavoli. La capitale è scrutata con campi lunghi sul traffico, campi medi su crocicchi e sonoro urbano, a servire le geometrie variabili della vendetta. Tra boschi, pioggia e scambio di persona, si finisce dalle parti di Monte Hellman e i grandi arrabbiati del cinema anni Settanta: su tutti, Don Siegel e il suo Dirty Harry, nello scontro tra giustizia privata e ingiustizia pubblica. Dialoghi senza sproloqui, fertile dialettica tra calligrafia d'autore e ortografia di genere, regia di ferro: classe '67, Pitts è il nuovo che avanza dopo Kiarostami.
Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano, 16/6/2011

Critica (3):Girato nell'Iran già infelice e di regime di due anni fa, il film di Rafi Pitts, che si è anche scelto come attore, ha l'anima divisa in due. Racconta, entrando nelle immagini metropolitane, di un uomo inviso al potere che perde moglie e figlia; poi la vendetta con l'uccisione dei poliziotti e fuga nel bosco con finale quasi simbolico. L'autore resta nel vago, incastrando subliminale voci, suoni e colori; ma è molto specifico nell'accusa quasi kafkiana e nell'urgente richiesta di aiuto morale e materiale.
Maurizio Porro, Il Corriere della Sera, 17/6/2011

Critica (4):The Hunter può essere diviso, con un atteggia­mento arbitrario ma non privo di significato, in due sezioni vere e proprie, il che induce a ipotizzare che l'uccisione dei poliziotti che viaggiano in autostra­da sia l'effettivo turning point del film. La prima parte è principalmente urbana, quando addirittura non domestica. Teheran è descritta come una metropoli caotica, trafficata, scandita da una ordinaria ma intensa ritualità quotidiana, cui, a confe­rire vitalità nonostante il regime che la opprime, contribuisce certamente la dimensione sonora, lungamente priva di dialoghi e di musiche ma costan­temente scandita da un sottofondo di rumori cittadini. La seconda parte, il cui inizio indicativamente coincide con la fuga dalla polizia, cambia sensi­bilmente coordinate, imponendosi come svolta nar­rativa (il protagonista diventa "cacciatore di uomini") e come ricontestualizzazione atmosferica, poi­ché lo sfondo diventano i boschi dove Alì e i suoi inseguitori si perdono, fino ad abitare un orizzonte astratto, quasi irreale, segnato da uno spaesamento geografico e comunicativo.
Pare che, a tenere insieme le due parti, sia appunto il concetto di casualità, che non fa distinzione tra il tappeto di grattacieli urbani e il soffitto d'alberi dei boschi. Come la sua famiglia ha trovato la morte in modo del tutto fortuito – addirittura difficile da ricostruire, se è vero che Alì non sa nemmeno se a uccidere moglie e figlia siano stati i manifestanti o la polizia – così anche la sua furia si riversa nel mondo senza un preciso obiettivo, si concretizza in un'azio­ne tanto intenzionale quanto, a conti fatti, viziata dalle circostanze: accovacciato sul versante di una collina, pronto a trasformarsi in cecchino, Alì pren­de di mira una macchina qualsiasi che transita nel­l'autostrada sottostante, ma ha poco tempo a disposizione e non riesce a inquadrare il bersaglio; passa­no pochi istanti e fa capolino sul tracciato dell'autostrada una macchina della polizia, e solo in quel momento l'azione di Alì acquisisce un peso simboli­co del tutto peculiare.
All'ombra di questa suggestione è possibile ricondurre anche il finale, variazione perfetta e terribile della proposta finora avanzata. Non a caso l'atto conclusivo della vicenda, che succede al momento della liberazione di Alì dalla prigionia dei due poliziotti (di cui nel frattempo sono emersi caratteri e vocazioni a dir poco antitetici: uno esperto ma corrotto, violento e spregiudicato, pronto a far fuori Alì su due piedi; l'altro più giovane e comprensivo, obbligato a indossare la divisa, ma con un disagio che non cerca nemmeno di nascondere), è caratterizzato da un esito apparentemente beffardo, ma assai coerente con il senso di imprevedibilità di cui il film è impregnato. Anche qui vediamo il cacciatore, l'arma, il corpo della vittima cadere al suolo colpito dal proiettile. Quel che più conta, tuttavia, è il fatto che ciò di cui è a conoscenza lo spettatore è precluso a uno dei personaggi: quello, ovviamente, che ha premeditato l'uccisione di un collega, e che si ritrova anch'egli vittima di un fatale equivoco.
The Hunter nasce quindi da una fotografia, ma la sua storia non si esaurisce in essa. Gli eventi che hanno segnato il passato recente dell'Iran fanno da cornice, anche se la presenza greve delle istituzioni filtra talvolta tramite la radio, che trasmette notiziari, commenti e proclami (da un giornalista radiofonico capiamo che ci saranno delle elezioni imminenti: il riferimento è alla tornata del 2009, lo scontro tra Ahmadinejad e il leader del partito riformista Mussavi, che, una volta sconfitto, accese la celebre polemica sui brogli divenuta di primo piano per l'agenda internazionale fomentando la rivolta civile dei cosiddetti "fazzoletti verdi"). Ma il film non sembra concentrarsi sulla politica, anzi, sembra quasi rifuggirla per cercare altrove la sua ragione d'essere. Diventando, da una parte, riflessione sulle pulsioni umane, in lotta con il muro di gomma dell'opacità istituzionale; dall'altra, un inno anti-determinista, che rifiuta il principio di causa-effetto tanto quanto quello del disegno intelligente (il film è praticamente privo di riferimenti religiosi), acquistando così un sapore che, a conti fatti, pare persino caparbiamente laico.
Lorenzo Donghi, Cineforum n.506, 7/2011
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