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Varda par Agnès


Regia:Varda Agnès

Cast e credits:
Sceneggiatura: Agnès Varda; fotografia: François Décréau, Claire Duguet, Julia Fabry; montaggio: Agnès Varda, Nicolas Longinotti; interpreti: Agnès Varda, Sandrine Bonnaire, Nurith Aviv, Hervé Chandès; produzione: Rosalie Varda per Ciné-Tamaris-HBB26-Scarlett Production-MK2 Flms-Ciné +; distribuzione: Cineteca di Bologna; origine: Francia, 2019; durata: 115’.

Trama:Un film imprevedibile di un affascinante narratore... Agnès Varda mette in luce la sua esperienza di regista, portando una visione personale di ciò che lei chiama "cine-scrittura", viaggiando tra Rue Daguerre a Parigi a Los Angeles e Pechino

Critica (1):Nel 1994, in coincidenza con una retrospettiva alla Cinémathèque française, ho pubblicato un libro intitolato Varda par Agnès. Venticinque anni dopo, lo stesso titolo viene dato al mio film fatto di immagini in movimento e di parole. Il progetto è lo stesso: fornire le chiavi della mia opera. Do le mie chiavi, i miei pensieri, niente di pretenzioso, solo le chiavi.
Il film si divide in due parti, una per secolo. Il Ventesimo secolo va dal mio primo lungometraggio La Pointe courte nel 1954 all’ultimo del 1996, Les Cent et une nuits de Simon Cinéma (Cento e una notte). Nel mezzo ho girato documentari, film, sia lunghi che brevi. La seconda parte inizia nel Ventunesimo secolo, quando le piccole cineprese digitali hanno cambiato il mio approccio al documentario, da Les Glaneurs et la glaneuse nel 2000 a Visages, Villages diretto con JR nel 2017. Ma in quel periodo ho creato soprattutto installazioni d’arte, i Triptyques atypiques, le Cabanes de Cinéma, e ho continuato a fare documentari, come Les Plages d’Agnès. Tra le due parti c’è un piccolo promemoria della mia prima vita di fotografa.
Nella mia vita ho fatto una grande varietà di film. Quindi devo dirvi cosa mi ha portato a fare questo lavoro per così tanti anni. (…) Potremmo chiamarla ‘lezione magistrale’, ma non mi sento una maestra e non ho mai insegnato. Non mi piace l’idea. Non si tratta tanto di raccontare nuovamente le storie, è più una questione di struttura e di intenti e di fonti d’ispirazione. Ma non volevo farne una cosa noiosa. Così si svolge in un teatro pieno di gente, o in un giardino, e cerco di essere me stessa e di trasmettere l’energia o l’intenzione o il sentimento che voglio condividere. È quello che chiamo ‘cinescrittura’, in cui le scelte partecipano a qualcosa che si chiama ‘stile’. Ma stile è un termine letterario. Quindi ‘cinescrittura’ sono tutti gli elementi che credo vadano considerati, o scelti o usati, per fare un film.
Agnès Varda, ilcinemaritrovato.it

Critica (2):Un détour etimologico, per cominciare: a chi abbia fatto un minimo di studi filologici, ma in realtà anche all’orecchio normalmente allenato, difficilmente può sfuggire l'assonanza tra il nome Varda e guarda, voce del verbo guardare. Uno potrà anche rispondere che il cognome, come la stessa Agnès ha raccontato più volte, le viene dal papà greco. Poco importa, per una volta: la somiglianza di questo suo nome con la radice var, war, ward, che arriva dall’antico germanico e ritroviamo appunto nel verbo guardare e nei suoi derivati, ma anche nel francese garder, preservare, custodire, e nell’italiano guardia, sembra sempre più precisamente definire il ruolo che la regista di Cléo dalle 5 alle 7 e Senza tetto né legge occupa nella storia del cinema. Guardare, riguardare e custodire, questo fa la Varda nei suoi ultimi film, e ancora di più in Varda par Agnès. Guarda, riguarda e custodisce l’essenza del cinema, e non solo del proprio. E lo fa con una lucidità e un’apertura alla novità invidiabili: non solo apertura al digitale, al formato leggero che le ha consentito una nuova vita artistica a partire da Les glaneurs et la glaneuse, ma anche al post-cinema, alle imprese cross-mediali, alle installazioni più articolate. Varda par Agnès è prodotto su commissione per la Fondation Cartier pour l'art contemporain, e Agnès non se ne vergogna, non ne avrebbe motivo, anzi, esplicita la presenza del committente, proprio come avviene nei suoi amati Flügelaltar, i polittici ad ante mobili fiamminghi, e lo fa sedere accanto a sé in una delle masterclass di cui il film si nutre.
Varda par Agnès è un film che evidenzia come ri-raccontare le cose, riusare la materia dei propri lavori, spostando gli accenti, la focalizzazione, la distanza, il punto di vista. Isolare dettagli, estrapolare dialoghi può creare un senso nuovo, se non inedito, ai discorsi, un nuovo statuto alle immagini – talvolta, è il caso dei film meno conosciuti, tutt’altro che usurate dalla visione. È un film zibaldone, più che un film testamento, parte di una elaborazione riflessiva della memoria che ha radici molto profonde, e lo si capisce anche solo attraverso il frammento di Oncle Yanco; una memoria che si fa e disfa, senza mai annullarsi, proprio come le figure disegnate dalle onde nella sabbia delle sue amate spiagge, sabbia che è elemento di trasformazione, transizione, più che di annullamento; è con una transizione sui generis che quest’ultimo film si conclude, con un fondu al grigio della sabbia che invade l’inquadratura, decima nuance dopo le nove dissolvenze al colore usate nel 1965 in Le Bonheur. Sabbia che copre e dissolve i colori della vita, ma di certo non li annulla. Sabbia che aiuta a mettere le mani avanti su un’idea non lineare del tempo, come fa d’altronde la stessa Agnès ricordando il senso del tempo, e dello spazio, in Cléo, ma anche il rapporto tra il tempo delle stagioni e il tempo del cinema – un discorso che per varie ragioni riporta alla mente le immagini, da poco viste su questi stessi schermi, del “temps des cérises” intorno al quale Téchiné costruisce il suo Adieu à la nuit. È un rapporto, però, nel lavoro della Varda, che ha sempre un riflesso nell’esattezza del movimento o nella cristallizzazione del motivo iconografico d’ispirazione, e al contempo nell’apertura agli incidenti della realtà.
È un film autoritratto perfino nel titolo, Varda par Agnès, come in fondo tutti i suoi lavori da vent’anni a questa parte. E l’autoritratto è di nuovo un gesto da plasticienne, termine al quale lei stessa preferisce visual artist. Un modo di auto-rappresentarsi che ha, come spesso nel suo cinema, radici pittoriche, più o meno esplicitate, sempre piuttosto precise. Uno potrà pensare ai tanti autoritratti di Rembrandt, o, per rimanere in una rosa di nomi al femminile, a quelli della Vigée Lebrun. Ma, in fondo, cos’è questo collage di lezioni magistrali e di materiali girati in location, nuovi e meno nuovi, di sequenze di vecchi film e lavori recenti, montato e modulato intorno alla propria presenza fisica, in scena, tra il farsi e disfarsi delle proprie opere, se non un parente prossimo de Las Meninas di Velázquez? Un autoritratto dentro il proprio work in progress, al centro di esso, con la consapevolezza, mai arrogante, di aver contribuito in maniera importante all’evoluzione del medium; in tal senso, grandemente autoironico nello svelare il fallimento di Cento e una notte, l’opera che, nel 1995, avrebbe dovuto celebrarne i 100 anni. Prima di mostrare la costosa ed esilarante elaborazione della scena con Deneuve e De Niro sottolinea il nome del protagonista, interpretato da Michel Piccoli, Simon Cinéma “si mon cinéma”, ovvero “se il mio cinema”: se il suo cinema è così, è inutile dirlo, lunga vita al cinema (e al post-cinema) di Agnès, che come i suoi adorati gatti, di vite pare averne sette, o anche di più.
Alessandro Uccelli, cineforum.it, 13/2/2019

Critica (3):Agnès Varda: «Se non si smette di essere curiosi si ha sempre qualcosa da raccontare»
Come prima cosa Agnès Varda ci tiene a ringraziare tutte le persone che hanno collaborato al suo nuovo film presentato fuori concorso alla Berlinale, Varda par Agnès, e in primo luogo la figlia Rosalie che ha prodotto il documentario, come anche il precedente Visages, Villages. «È divertente lavorare con la propria figlia, anche se qualche volta è dura con me: mi dice quando è ora di andare a letto, o di mangiare bene», scherza la regista che a novant’anni sembra essere afflitta solo dalla vista che si affievolisce sempre più. «Non voglio più parlare di me: dato che si avvicina il momento dei saluti preferisco parlare delle persone che ho incontrato, e che sono state importanti».
E aggiunge di non voler parlare neanche del suo lavoro: «L’ho già fatto troppo a lungo nel mio film» – che ripercorre infatti la sua intera carriera da regista e artista visiva da prima ancora dell’esordio con La pointe courte, quando Varda faceva la fotografa. «Quando ho iniziato – ricorda – c’erano poche donne fotografe e registe, ma all’epoca in cui ho fatto il mio primo film non mi interessava essere una filmmaker donna. Volevo piuttosto essere una regista radicale, fare cose diverse, aprire nuove porte». La questione femminile nel cinema, continua, oggi è spesso posta in un modo che non la vede del tutto in sintonia: «Si parla sempre del fatto che devono esserci più registe, ma le donne devono entrare a far parte in modo più organico in tutte le ‘forme’ del cinema: dai comitati di selezione dei Festival alla tecnica del suono». E delle registe e attrici che hanno marciato insieme sul tappeto rosso allo scorso Festival di Cannes, per rivendicare un ruolo di primo piano per le donne, dice che: «Erano molto belle, con splendidi vestiti. Ma troppo chic per me: penso che la questione femminile non abbia a che fare solo con lo showbiz ma con gli uffici, le fabbriche. Le azioni troppo spettacolari mi rendono sempre sospettosa: è un lavoro che va fatto giorno per giorno, e oltre che sul tappeto rosso servirebbe marciare nelle strade».
Proprio le persone «semplici», sostiene Varda, sono quelle che nel corso della sua vita l’hanno interessata di più: «Meritano di essere guardate con la stessa attenzione che viene dedicata alle star. Ho fatto film sui raccoglitori al mercato, sugli squatter, sono stata sempre stata affascinata dalle persone per la strada. E per questo in Visages, Villages io e JR – il fotografo che l’ha accompagnata nel viaggio attraverso il sud della Francia, ndr – facevamo sempre dei primi piani di persone ‘qualsiasi’». Ma i suoi film, aggiunge, non sono mai stati ’politici’: «Sono sempre stata di sinistra ma non ho mai fatto parte di nessun partito. I miei film non fanno politica ma il loro spirito è sempre orientato alla cura delle persone. E rimango sempre al fianco dei lavoratori e delle donne».
Questo desiderio di «vicinanza» ha fatto sì che la regista di Cleo dalle 5 alle 7 accogliesse senza pregiudizi l’avvento del digitale: «Quando ho scoperto le nuove piccole telecamere digitali sono stata felice del fatto che mi consentivano avvicinarmi alle persone in un modo che con la macchina da presa non sarebbe stato possibile. Ogni tanto ho nostalgia dei film in 35 mm, i miei li ho riciclati: con la pellicola ho costruito delle capanne grazie alle quali ogni tanto mi illudo ancora di vivere nell’epoca del cinema in 35 mm – sono capanne dei sogni a occhi aperti». Proprio l’immaginazione infatti: «Mi ha accompagnata per tutta la vita. Se non si smette mai di essere curiosi si ha sempre qualcosa da raccontare. Come diceva Gramsci, infatti, se si riflette sulla situazione in cui viviamo non si può fare a meno di essere ‘depressi’ – ma se si sceglie l’azione bisogna essere positivi».
Giovanna Branca, il manifesto, 14/2/2019

Critica (4):
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