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Kagemusha - L’ombra del guerriero - Kagemusha


Regia:Kurosawa Akira

Cast e credits:
Soggetto
: Masato Ide, Akira Kurosawa; sceneggiatura: Masato Ide, Akira Kurosawa; fotografia: Takao Saito, Masaharu Ueda; musiche: Shinichiro Ikebe; montaggio: Akira Kurosawa, Tome Minami; scenografia: Yoshiro Muraki; interpreti: Tsutomo Yamazaki (Nobukado Takeda), Kenichi Hagiwara (Katsuyori Takeda), Hideji Otaki (Masakage Yamagata), Daisuke Ryu (Nobunaga Oda), Masayuki Yui (Ieyasu Tokugawa), Hideo murata (Nobufusa Baba), Takayuki Shiho (Masatoyo Naito), Koji Shimizu (Kasusuke Atobe), Noburo Shimizu (Masatane Hara), Sen Yamamoto (Nobushige Oyamada), Kai Ato (Zenjiro), Mitsuko Baisho (Oyunokata), Eiichi Kanakubo (Okura Amari), Norio Matsui (Tadatsugu Sakai), Oyunokata Mitsuko (Momoi), Mataichi Tomoto Miyazaki (Baisho), Kaori Momoi (Otsuyanokata),Yutaka Shimaka (Jingoro Hara), Noboru Shimizu (Masatane Hara), Osumu Sigimori (Danjo Kosaka), Takashi Simura (Goubu); produzione: Toho e Kurosawa Production Co. Ltd. in associazione con 20th Century Fox; distribuzione: Cineteca Griffith; origine: Giappone, 1980; durata: 169’.

Trama:Durante le lotte per la conquista del potere a Kyoto, nel Giappone del XVI secolo, il principe Shinge Takeda, ambizioso e valoroso, muore. Prevedendo la riscossa dei rivali, trattenuti dalla sua fama, il morente chiede al fratello Nobukado e al figlio Katsuyori, e a tutti i generali del clan, di rimanere nei propri territori e di nascondere la sua morte. Nobukado, trovato un ladro in procinto di venire crocifisso e avendolo salvato per la sua somiglianza con Shinge, convince tutti a farlo passare per il principe morto. “Kagemusha” – che significa: “ombra di Shinge” – accetta per interesse e, tenta di approfittare della situazione. Poi però, compenetratosi delle sue responsabilità, ha comportamenti che gli guadagnano la stima di Nobukado, il rispetto dei cortigiani, l’affetto del nipotino di Shinge. Un giorno, però viene scoperto dalla soldataglia e i maggiorenti si trovano costretti a interrompere l’inganno e ad allontanarlo. Nello stesso tempo, Katsuyori, intollerante delle decisioni impartite dal padre, intraprende una disastrosa guerra nella quale tutto il clan trova rovina. Kagemusha, che ha osservato tutto con disperazione, quasi fosse il redivivo Shinge, si getta contro l’armata vincitrice e muore.

Critica (1):Dopo la provvidenziale parentesi siberiana, Kurosawa ritorna ai suoi soggettisti prediletti, Dostoevskij e Shakespeare. Lavora in un primo tempo all’adattamento di Le memorie dalla casa dei morti, ma il progetto di «dar vita a tutti quei personaggi» si rivela troppo impegnativo. Più facile cimentarsi con il Re Lear (Ran), ma al cinema Shakespeare costa troppo caro e il progetto di Ran viene rimandato. Il regista ormai vive con l’immaginazione nel XVI secolo; quell’epoca irrequieta ma formidabilmente libera e vitale lo attira irresistibilmente e non è difficile trovarvi degli spunti per dei soggetti. Farà un film su uno dei più famosi generali e capi politici del Cinquecento, Shingen Takeda, uno dei più convinti fautori dell’unificazione del Paese. Il clan dei Takeda era riuscito a tenere nascosta la morte di Shingen per due anni grazie alla presenza di un sosia, un kagemusha. Chi era costui? Che cosa era diventato dopo l’ecatombe di Shidaragahara (1575) in cui l’intero clan Takeda era stato annientato? Su quella battaglia, la più misteriosa della storia del Giappone moderno (perché il figlio di Shingen aveva lanciato la sua splendida cavalleria e le sue fanterie contro una trincea modernamente fortificata di archibugieri?), pensava già di fare un film nel 1944, ma mancando i cavalli il regista era ripiegato su un soggetto meno ambizioso (Sulla coda della tigre). Attraverso la vicenda liberamente reinventata dal fantomatico kagemusha di Shingen, Kurosawa si ripromette di far luce su quell’evento e di rendere un sontuoso omaggio ai grandi creatori del Giappone moderno: Shingen Takeda, Nobunaga Oda fanatico dell’Occidente (è lui che ha rivoluzionato la strategia militare introducendo l’uso sistematico delle armi da fuoco) e Yeiasu Tokugawa, l’abilissimo fondatore della dinastia che governerà il Paese per più di due secoli.
Kagemusha è strutturato classicamente in un prologo (la presentazione del sosia a Shingen Takeda), tre atti, ognuno dei quali è dominato da un protagonista (Shingen, il kagemusha, Katsuyori il figlio disobbediente di Shingen), un epilogo (l’ecatombe di Shidaragahara). L’idea di trovare un sosia che potesse prendere il posto del Principe è venuta al fratello di Shingen, Nobukado, colpito dalla straordinaria somiglianza che un condannato a morte (un ladro) aveva con il Signore. Lo tirerà fuori al momento opportuno. L’occasione si presenta molto presto: durante l’assedio del castello di Noda, Shingen rimane mortalmente ferito da un colpo di archibugio, una notte (ironia della sorte) in cui con le sue truppe ascoltava un concerto di flauto suonato da un virtuoso sugli spalti del castello. Prima di morire, Shingen ordina ai suoi: tenere nascosta la sua fine (il kagemusha farà le sue veci), sospendere la guerra, «non muoversi» per non esporsi inutilmente. Le sue ultime volontà vengono accolte religiosamente dallo stato maggiore, ma il figlio di Shingen (Katsuyori) morde il freno: come può accettare di mettersi da parte e riverire un fantoccio?
Introducendo l’ex ladro a corte, Nobukado è molto preoccupato: riuscirà questo popolano impulsivo e violento a impersonare il Principe al punto da ingannare non solo i nemici ma anche i cortigiani e le concubine del defunto? Dovrà ricredersi. All’inizio il comportamento del kagemusha è improntato a mera convenienza (tanto per dimostrare che non ha perso il vecchio vizio, una notte si fa sorprendere mentre tenta di «scassinare» la giara in cui è stato imbalsamato Shingen); poi per non deludere le attese del clan prende gusto al gioco, la sua interpretazione impeccabile convince tutti, persino il nipote di Shingen. Supererà brillantemente anche la prova del fuoco della battaglia. Quando l’impaziente Katsuyori decide di attaccare da solo un castello nemico, per salvare la faccia il clan deve proteggergli le spalle e il kagemusha viene esposto bene in vista sopra una collina protetto dalla sua guardia; in quell’infernale carosello notturno di attacchi e contrattacchi notturni (i giovani della guardia che gli fanno da scudo gli cadono intorno a mucchi) il kagemusha si identifica così intimamente nel suo ruolo che a un certo punto sorprendendo Nobukado usa le stesse parole di Shingen («Nessuno si muova, restate immobili come una montagna!»). Nobukado comincia a preoccuparsi di quella miracolosa metamorfosi: a forza di imitare il Principe Shingen, il guerriero-ombra ne ha assunto la personalità perdendo la propria identità; lo spirito del Maestro si è reincarnato nella sua ombra; quando si scoprirà che la persona (Shingen) è morta che ne sarà dell’ombra? «L’ombra non può esistere senza la persona...».
La farsa del kagemusha è durata due anni. È riuscito a ingannare tutti, tranne il cavallo di Shingen. Disarcionato nel cortile del castello davanti alle cortigiane, smascherato, il kagemusha viene messo alla porta senza spiegazioni con un semplice benservito. Il suo stupore è tale che le guardie debbono cacciarlo a sassate. Come Il fu Mattia Pascal il povero kagemusha si ritrova «senza base, senza consistenza, l’ombra di un morto»; la brutale scoperta lo lascia «sbalordito, vuoto, annientato» (curiosamente, il commento più appropriato alla tragedia del kagemusha lo si trova nel capitolo XV del Fu Mattia Pascal). Al povero attore senza identità non resta che «seguitare la parte fino alla fine» come Enrico IV. Troverà la pace, la «persona», solo nel paese delle ombre.
Nella stessa inquadratura in cui l’ombra di Shingen esce di scena fa il suo ingresso a corte Katsuyori. II nuovo Principe è un ambizioso frustrato; per dimostrare che non è da meno del padre, infrangendo i suoi ordini scende sul sentiero di guerra convinto dell’invincibilità della cavalleria Takeda; ma non ha fatto i conti con la nuova strategia di Nobunaga Oda. A ondate successive le schiere dei Takeda (hanno nomi e colori poetici: foresta, fuoco, vento) vengono inghiottite nel nulla, come «cancellate dall’infetta mano della guerra» (Riccardo II). (La battaglia conclusiva di Kagemusha non assomiglia a nessuna di quelle che abbiamo visto sullo schermo: giocando sottilmente sull’ellissi e sul potere evocativo dei suoni – il crepitare degli archibugi, i nitriti dei cavalli feriti –- il regista non mostra l’ecatombe ma solo l’inizio e la conclusione, la tragedia ce la lascia immaginare attraverso il sonoro e le reazioni di orrore dei generali Takeda che assistono impotenti al massacro; come presi in una tormenta vengono sospinti lentamente – geniale l’uso del rallenty – fuori della storia). Nascosto tra gli arbusti ai margini del campo di battaglia, il kagemusha soffre nella sua carne l’agonia dei «suoi» uomini; alla fine si getta anche lui contro la palizzata di fuoco brandendo una patetica lancia strappata a un morto; colpito, riuscirà a trascinarsi verso il fiume e morirà protendendo le mani verso lo stendardo Takeda che luccica nell’acqua insanguinata come un miraggio.
In questa parabola velatamente pirandelliana sull’amaro destino di un sosia – un rustico invitato a sedere a corte – il regista rende uno splendido omaggio al grande secolo del rinascimento giapponese, e ci offre alcune pungenti riflessioni su dei temi congeniali: il gioco realtà-apparenza (il «gran teatro del mondo», un palcoscenico dove ognuno fa le sue entrate e le sue uscite), la vita come ombra e illusione, «l’ordine imperscrutabile e crudele della storia» (Reggiani). Vengono alla mente Shakespeare, Calderon, ma soprattutto Heiké Monogatari, il celebre poema epico duecentesco che rievoca l’ascesa e la caduta della famiglia Taira (Heiké in cinese). «Gli orgogliosi sono effimeri come il sogno di una notte di primavera, e i forti saranno anch’essi spazzati via come polvere dal vento... »: i versi cantati dal cavalleresco Nobunaga Oda quando apprende alla fine la notizia della morte dell’ammirato-odiato Shingen evocano il prologo di Heiké Monotagari. La speranza di Shingen di conquistare Tokyo e salvare il clan, l’ambizione smodata di Katsuyori, la pietosa mascherata del kagemusha, non sono altro che illusione. Questo sentimento acuto della caducità delle cose umane, già al centro del primo film shakespeariano di Kurosawa (Il castello della ragnatela), pervade anche il film successivo, Ran. Ma questi sogni e il loro tramonto hanno però una loro grandezza, e Kurosawa che ne ha subito il fascino la sottolinea a dovere: Shingen, Nobunaga, Yeiasu, Nobukado incarnano l’ideale del «buon governante» come Enrico IV per Shakespeare e Alexander Newski per Ejzenstejn; come non ammirare quei generali che vanno alla morte come a una festa, vestiti (come in Heiké Monogatari, come nelle tre battaglie di San Romano di Paolo Uccello) dei loro abiti più sfarzosi? L’ammirazione per il grande secolo fa passare un soffio di emozione nelle raffinate, glaciali immagini di quest’epopea quasi disincarnata, stilizzata ai limiti dell’astrazione.
Tecnicamente perfetto, visualmente straricco (la ricerca sul colore offre dei risultati cromatici prodigiosi nella battaglia notturna e nelle frequenti scene girate all’alba e al tramonto), Kagemusha è un film riuscito a tre quarti: brillantissimo nelle sequenze epiche (le due battaglie, la discesa vertiginosa del messaggero lungo le interminabili scale del castello di Noda: al suo passaggio, gli assedianti stravolti dall’attesa sembrano lievitare come anime del limbo alla comparsa del Salvatore), il film ha un commento musicale troppo melodrammatico (gli ci sarebbe voluto un Prokofiev a Kurosawa), e nei personaggi – a partire dal kagemusha, il cui dramma interiore è visto troppo dall’esterno – difetta quella tumultuosa ricchezza di umori e di umanità, quell’interiorità sofferta che ci affascinavano nei «sette samurai» e nell’infernale coppia di Il castello della ragnatela. Tatsuya Nakadai è bravo, ma per fare del kagemusha un personaggio seducente come Kikuchiyo (il «settimo» samurai) occorreva forse un Mifune più giovane. Si avverte qua e là che il «kagemusha» è poco più di un pretesto per entrare nel grande secolo; Kurosawa era affascinato soprattutto dalla figura mitica di Shingen Takeda che nel film scompare però troppo presto. Il grande secolo continuerà ad affascinare Kurosawa, che in Ran (come Paolo Uccello nelle due successive versioni della Battaglia di San Romano) supererà se stesso. II buon successo internazionale di Kagemusha (premiato a Cannes) permetterà al regista di ritornare – approfondendolo in maniera esaustiva – sul tema dei disastri dell’ambizione sfrenata e del potere; in Ran l’apocalisse continua.
Aldo Tassone, Akira Kurosawa, Il Castoro Cinema-L’Unità, 5/1995

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