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Cento anni


Regia:Ferrario Davide

Cast e credits:
Soggetto: Giorgio Mastrorocco; sceneggiatura: Davide Ferrario, Giorgio Mastrorocco; musiche: Fabio Barovero, Massimo Zamboni; montaggio: Cristina Sardo; fotografia: Andrea Zambelli, Andrea Zanoli; suono: Vito Martinelli, Francesco Morosini; con: Marco Paolini, Diana Hobel, Franco Arminio, Mario Brunello, Massimo Zamboni, Fulvio Falzarano, Laura Bussani, Gabriele Benedetti, Fabio Nigro; produzione: Rossofuoco, Rai Cinema; in collaborazione con Lab 80 film, Casa della Memoria di Brescia; distribuzione: Lab 80 film; origine: Italia, 2017; durata: 85'.

Trama:La storia italiana e le sue Caporetto, per chiedersi a cosa servono i morti e scoprire a cosa servono i vivi. Primo capitolo: dopo cento anni, la disfatta del 1917. I vissuti, raccontati attraverso le voci recitate di profughi, orfani e prigionieri, e i luoghi delle "Caporetto del Novecento", dalla Risiera di San Sabba al Vajont. Secondo capitolo: la Resistenza. La storia famigliare del chitarrista Massimo Zamboni, un nonno fascista ucciso da due partigiani, l'uno poi ucciso dall'altro. Le speranze diverse e i conflitti tra chi è rimasto. Terzo capitolo: la strage di Piazza della Loggia a Brescia: "I morti servono a capire le ragioni per cui sono morti", dice Manlio Milani, presidente dell’Associazione Familiari Vittime della Strage. Quarto capitolo: la Caporetto demografica di oggi, lo spopolamento del Sud. Con il poeta e attivista Franco Arminio attraverso le campagne di Irpinia e Basilicata.

Critica (1):È passato un secolo esatto dal 24 ottobre 1917 quando l’esercito austro-ungarico sfondò le linee delle truppe italiane del generale Cadorna sul fiume Isonzo a Kobarid, in Slovenia, una località che però nell’immaginario collettivo italiano tutti ricordano con il nome di Caporetto. I soldati italiani ripiegarono in modo disordinato: molti si diedero alla fuga, molti altri vennero fatti prigionieri, quasi un milione di persone delle provincie di Udine, Treviso, Belluno, Venezia e Vicenza divennero profughi e dovettero lasciare le loro case mentre l’esercito austro-ungarico occupava tutto il territorio italiano di nord-est fino al Piave. Il regime italiano iniziò allora una campagna violentissima di ricerca di quelli che vennero definiti dei “traditori”, quelli cioè che – dicevano – avevano lasciato la loro postazione al fronte e avevano permesso l’avanzata “nemica”. I responsabili vennero dunque cercati nel fronte interno, in quelli che si opposero alla guerra e che rifiutarono l’idea dell’unità nazionale contro il nemico, anche per tentare di coprire le responsabilità dei generali italiani.
Era il 1917 e c’era appena stata la Rivoluzione d’Ottobre, cosa che aveva permesso all’esercito austro-ungarico di concentrare i propri sforzi sul fronte italiano. Ma l’eco di quell’evento e dei conflitti dei “fronti interni” arrivò fino all’esercito italiano. Perché a Caporetto – si dice all’inizio di Cento anni di Davide Ferrario – “c’era anche una strana euforia: uomini abituati a marcire nelle trincee in mezzo al fango, al piscio, al sangue, cominciavano all’improvviso a concepire il pensiero di poter tornare a casa, e che la guerra sarebbe finita così; e che non c’era una gran differenza tra la vittoria e la sconfitta se non nella costatazione banalissima di essere ancora vivi”. Non una capitolazione dunque, ma l’occasione per poter trovare una via d’uscita da un massacro che il regime propagandava come sacrificio a tutti i costi.
Caporetto allora non è solo il paradigma e la metafora di ogni catastrofe della storia italiana ma un nome che nasconde il problema del destino della memoria collettiva: fu quello l’evento simbolo di una nazione divisa e lacerata dal fronte interno, o fu invece la premessa per una vittoria epica per l’identità e l’unità nazionale come quella della battaglia di Vittorio Veneto? È possibile ricordare le tante sconfitte della storia italiana come premessa per una rinascita condivisa e collettiva, oppure la storia è attraversata da conflitti che non è possibile sanare? È questa la domanda che pare muovere Cento anni: un film complesso e riflessivo, che è tutto tranne che accomodante, soprattutto perché affronta il problema del superamento degli antagonismi della memoria storica in un periodo dove i richiami alla pacificazione nazionale hanno spesso il sapore di ambigue operazioni di revisionismo.
Caporetto conduce allora ad altre tre “caporetto” della storia italiana: quella della resistenza raccontata nel romanzo L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni, in cui si racconta una storia di conflitto fratricida tra due partigiani emiliani gappisti nel dopoguerra, sullo sfondo dell’uccisione di un nonno fascista e repubblichino; quella della memoria della strage di Piazza della Loggia a Brescia; e quella della “caporetto demografica” di oggi che fa sì che molti piccoli paesi rurali del Sud stiano andando incontro a uno spopolamento che è quasi la premessa di una morte. Eppure secondo Ferrario tutti questi momenti di sconfitta hanno sempre condotto a un’esperienza di rinascita, proprio come quella che ha portato alla vittoria di Vittorio Veneto dopo Caporetto. Tutti sono stati l’occasione per una forma di riscatto e persino di redenzione.
Tuttavia l’apologia di questa dimensione collettiva e pubblica della memoria non è priva di diversi rischi, che non sono solo la retorica un po’ didattica dell’insegnamento ai giovani dell’ultimo capitolo del film, ma anche quello di pensare che con il tempo gli antagonismi che hanno attraversato un evento storico possano essere ricondotti a una narrazione comune. A Brescia – ci dice Ferrario – un’intera città è stata capace di riunirsi sotto l’egida di un’elaborazione del lutto collettiva della strage del 1974. Eppure è possibile che anche quella guerra civile che è stata la resistenza possa ricevere lo stesso esito? È possibile che anche quel massacro di massa dei soldati sul fronte orientale possa condividere la stessa narrazione dei generali e del regime che li hanno prima mandati al fronte e poi rinnegati tacciandoli di tradimento? È possibile insomma che a distanza di anni un evento storico possa essere ricondotto al “noi” di una comunità condivisa? Oppure è proprio quel “noi” che continua a fare problema e ad esporre ogni idea di comunità nazionale a quella che è la sua altra faccia denegata, cioè il nazionalismo? È possibile pensare che una comunità possa riunirsi all’interno di un medesimo spazio – come dice spesso Franco Arminio nelle sue riflessioni – senza che questo comporti inevitabilmente anche un processo di esclusione di chi ne sta fuori? Quali sono i confini di questo “noi”? Una domanda piena di ambiguità e che rimane inevasa anche al termine del film, ma che certo Cento anni ha quanto meno il merito di porre.
Pietro Bianchi, cineforum.it, 4/12/2017

L'idea di Cento anni è venuta a Giorgio Mastrorocco, con cui in questi anni ho realizzato una trilogia sulla storia italiana le cui due prime parti sono Piazza Garibaldi (2011) e La zuppa del demonio (2014). Film che per mancanza di termini migliori definiremo “documentari”, ma che certamente hanno poco del documentario tradizionale. Tre anni fa, pensando all’anniversario di Caporetto, Giorgio mi ha detto: ma perché noi italiani abbiamo sempre bisogno di una catastrofe per mettere in moto le energie migliori della nazione?
È vero: perché per vincere la Grande Guerra abbiamo dovuto subire una vergognosa disfatta? Perché, prima di riscattarci con la Resistenza, abbiamo inventato il fascismo? Lo schema caduta-risurrezione è in effetti una costante del nostro Novecento, in tutti i campi: militare, civile, economico, perfino sportivo. Cento anni, il cui progetto è stato subito sposato da Rai Cinema, è la ricognizione cinematografica su un secolo di disastri e di riscatti, dal 1917 fino all’ultima Caporetto, attualmente in corso: quella demografica, narrata osservando lo spopolamento delle zone interne del Sud.
Confesso che mi ero accostato alle riprese con un pensiero inconsapevole: il gusto di narrare la decadenza, la sconfitta, il male del Paese. Mostrarlo e compiacersene è una tentazione classica dell’intellettuale, forse del carattere italiano tout court. Ma lavorando sul campo la prospettiva si è ribaltata. Il nostro popolo ha un'incredibile capacità di resistenza, un suo modo peculiare di elaborare il disastro, una resilienza biologica e culturale che alla fine prende il sopravvento. Il film prova a raccontarla senza la retorica dell'happy end, perché le sconfitte implicano comunque un prezzo da pagare: il fascismo abbattuto, per esempio, non è scomparso dalla storia.
D'altra parte, come racconta Prezzolini, quando si diffuse la notizia della resa degli austriaci, dalle trincee non si levò il grido di "Vittoria!", bensì di "Pace!". Il popolo sa essere saggio a modo suo. E come dice un vecchio in un bar del Sud alla fine del film: "Il futuro non accade mai come te lo immagini". Il che – contro ogni evidenza – ci lascia una speranza per quello che aspetta le giovani generazioni.
Davide Ferrario in panorama.it, 23/10/2017

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