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Spione (Lo) - Doulos (Le)


Regia:Melville Jean-Pierre

Cast e credits:
Soggetto: dal romanzo omonimo di Pierre Lesou; sceneggiatura: Jean-Pierre Melville; fotografia: Nicolas Hayer; musiche: Paul Misraki-al pianoforte del piano bar Jacques Loussier suona le sue composizioni; montaggio: Monique Bonnot; scenografia: Daniel Guéret; arredamento: Pierre Charron; aiuto regia: Volker Schlöndorff, Charles L. Bitsch; interpreti: Jean-Paul Belmondo (Silien), Serge Reggiani (Maurice Faugel), Jean Desailly (Commissario Clain), René Lefèvre (Gilbert Varnove), Marcel Cuvelier (primo ispettore), Aimé De March (Jean), Fabienne Dali (Fabienne), Monique Hennessy (Thérèse), Carl Studer (Kern), Paulette Breil (Anita), Jacques De Leon (Armand), Philippe Nahon (Remy), Michel Piccoli (Nuttheccio), Christian Lude (il dottore), Daniel Crohem (Ispettore Salignari), Jack Lonard (secondo ispettore), Charles Bouillaud (un barman), Charles Bayard (vecchio guardiano), Andrès (il maÎtre d'hotel); produzione: Carlo Ponti e Georges De Beauregard per Rome-Paris-Films/C.C. Champion; distribuzione: Cineteca dell’Aquila; origine: Francia, 1962: durata: 108’. Vietato 14

Trama:Liberato di prigione, Maurice si reca da Gilbert, che gli ha ucciso l'amica e si vendica freddandolo. Poi presso la sua amante Thérese viene raggiunto da Silien con il materiale necessario per una rapina. Silien è un vecchio amico di Maurice, di cui egli si fida ciecamente, al contrario dei suoi compagni che pensano si tratti di una spia. La rapina fallisce per l'intervento della polizia, ma Maurice si salva e si convince anche lui che Silien abbia tradito e pensa di vendicarsi, ancor più quando viene a conoscenza dell'uccisione di Thérèse. La polizia arresta Maurice e lascia libero Silien ed è all'uscita dal carcere che Maurice scopre la verità. Silien ha ucciso Thèrese perché spia della polizia ed ha recuperato alcuni gioielli che altri banditi gli avevano trafugato, eliminandoli e facendo cadere su di loro la responsabilità del colpo fallito. Maurice è colpito da queste rivelazioni. Egli ha pagato un uomo perché uccida Silien e tenta di rimediare, ma è ormai troppo tardi.

Critica (1):«Non sarà un demone a scegliere voi, ma sarete voi a scegliervi il demone». È così, con un lungo discorso sul destino, che Platone conclude La Repubblica. Le anime del mito di Er, prima di reincarnarsi, assecondano il loro daimon, la loro essenza. Quel talento, quella propensione che guiderà tutta la loro vita mortale. Una responsabilità bella grossa, non c'è che dire. Un peso che ha l'obiettivo preciso e umanamente inaccettabile (perché inelutta­bile) di mettere l'anima nelle situazioni più adatte a farla crescere e avvicinarla alla pura Es­senza. Dunque alle situazioni più difficili e dolorose. Secondo Platone scegliamo noi, con la natura che esprimiamo, il nostro destino. I filosofi userebbero parole come innatismo e determinismo. Questo è il tema centrale di Le doulos, che potremmo tradurre, se proprio vogliamo tradurlo, come "l'uomo col cappello". Cioè l'informatore della polizia, quello che in Italia chiamiamo infame. Lo spione, come recita la versione italiana del titolo. Una storia proprio sul determinismo, che sarà un tema di tutto il cinema noir di Melville. Siamo infatti nel 1962, e la natura dell'uomo, del criminale, sta al centro di tutto l'impianto narrativo. Per i protagonisti e la loro parabola, si gioca tutto sull'impossibilità di evitare che la vita ci porti a una fine già bella che scritta. È la vecchia storia taoista della rana e dello scorpione, quella che raccontò anche Welles in Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, 1955) o per essere più profani, gli 883 in un loro B-side. Le doulos comincia con Maurice Faugel. È proprio con lo scorpione che fende la sua coda, che comincia tutto quanto. Faugel uccide l'amico Gilbert e gli sottrae i gioielli di una rap­ina che valgono due milioni di franchi. Il tipico evento scatenante del noir americano. Il ladro diventa assassino, prende la refurtiva e la nasconde. Faugel sta organizzando un colpo, e per metterlo a segno chiede aiuto all'amico Silien nonostante la sua cattiva fama d'infor­matore della polizia. Le indagini sull'omicidio di Gilbert e il colpo che fallisce mettono Faugel sull'orlo di un precipizio. Qui comincia la caduta, dove ti sembra di toccare il fondo scopri che qualcuno ha scavato, e si ricomincia a scendere. Tutto va storto mentre Silien agisce alle spalle di Faugel. Le doulos è una dichiarazione d'amore per il gangster-movie d'oltreoceano, una citazione continua degli anni Quaranta, una mostra feticista di imper­meabili, Borsalino e "duraggine", eppure usa una grammatica europea per esprimersi. Non imita, anche se strizza l'occhio a certi giochi d'ombre cari a Huston. Però le ombre s'al­lungano più del dovuto, e in certi casi non capiamo da che parte arrivi la luce. Siamo troppo concentrati a guardare in un'ombra quasi espressionista. Come in Murnau. C'è la Nouvelle Vague e c'è il Realismo Magico, nell'occhio attento di Melville. C'è DickTracy, c'è il fumetto anche. E c'è, cosa importante per far funzionare un'estetica di questo tipo, una storia cir­colare, simmetrica, inattaccabile.
Melville è stato un regista controverso. Oggi lo chiameremmo "filmmaker", per la sua capacità di prodursi i film a basso budget e la sua vera e propria resistenza contro un sistema che im­poneva cliché produttivi standardizzati e pure un po' castali. Guardando i suoi film, capiamo che siamo di fronte a un grande artigiano che sa utilizzare bene tutti gli strumenti (compresi i canoni estetici del genere) per comunicare. La grandezza di Melville – che prende il suo nome d'arte durante la guerra e guarda caso è il nome di uno dei più potenti narratori del mondo contemporaneo – è proprio quella di sapere e volere raccontare delle storie. Melville si specializzò in adattamenti cinematografici, e anche Le doulos ne è un saggio es­emplare. L'adattamento è una migrazione costante, spogliante, scarnificante, dei temi di una materia complessa come può essere quella di un romanzo. È un atto dinamico e per­formativo.
L'autore del romanzo è anche lo sceneggiatore del film, si chiama Pierre Lesou, e insieme a Melville trasforma quel che ha scritto e pubblicato nella celebre Série Noire. Ci passa sopra, e più che il romanzo originale, guardando il film, viene in mente un capolavoro che uscì otto anni prima dalla penna di Raymond Chandler, e che divenne una pellicola di Alt­man solo nel 1973. Sì, parlo proprio di The Long Goodbye, Il lungo addio.
Le doulos è un'epica incentrata sull'amicizia virile, sulla questione della fiducia, sull'istin­tualità e la ferocia del mondo basso.
Nel film di Melville, l'amicizia è una risorsa della quale il protagonista non è conscio. E tutto si gioca su questo ribaltamento che costringerà Faugel a essere la vittima delle sue stesse scelte. Il personaggio di Silien è sorprendente nella sua arrogante spavalderia, e Melville ce lo racconta con la sua assenza, coi silenzi, con il sospetto. Ce lo racconta in levare, per dirla da musicisti. Un uomo violento e impietoso nei confronti delle donne, ef­ficace assassino fino all'ultimo momento, fino alla sua ultima telefonata proprio a una donna, in cui riscatta un poco della misoginia tipica del canone. Ci aspetteremmo una frase degna dell'epica, un addio coi fiocchi per l'innamoratissima Anita. Invece, Silien dice una frase qualunque. Un Belmondo giovanissimo e perfetto, che è la punta del compasso attorno alla quale Melville traccia il suo cerchio rosso.
Come diceva lo stesso Chandler, il noir e l'hard-boiled hanno tolto il delitto dai salotti per bene e l'hanno restituito alla strada, al quotidiano. Coi suoi uomini confusi, cattivi, con il loro linguaggio semplice e scontato.
Les doulos è una tragedia greca, una rappresentazione di teatro Nō, una perfetta, violenta epica del quotidiano.
Matteo Bortolotti, “Mentire, morire” (Le doulos), in Jean-Pierre Melville, a cura di Mauro Gervasini, Emanuela Martini, Il Castoro-Torino Film Festival, 2008

Critica (2):(…) I titoli di testa scorrono sull'immagine di un uomo che cammina in un sotterraneo. Indossa un impermeabile e un cappello a falde larghe. La luce artificiale non basta a mostrarci il suo volto. Il rumore dei passi si fonde con il commento musicale, semplice e d'atmosfera. Per pochi istanti la macchina da presa abbandona l'uomo per inquadrare dal basso il soffitto lastricato. Lo sconosciuto ha le mani nelle tasche, il suo incedere è lento ma sicuro. Poco dopo, esce allo scoperto. È il crepuscolo. Siamo in un tipico ambiente di periferia urbana. Treni elettrici e a vapore sferragliano in lontananza e si incrociano su un ponte ferrato. Una nebbia leggera av­volge questa figura maschile che sta per entrare in un vecchio edificio pre­sumibilmente abbandonato. Nell'atrio, l'uomo si sofferma dinanzi a uno specchio rotto. Primissimo piano di un volto stanco e sofferente. Si tratta di Maurice Faugel (Serge Reggiani).
La sequenza che precede l'assassinio di Gilbert Varnove, contiene una fitta serie di riferimenti al noir americano e alla sua iconografia, che s'è diffusa ormai in ogni angolo del mondo e dalla cui lezione un cineasta europeo non può prescindere. La prima considerazione da fare è che il regista ha assimilato il gusto e la capacità di delineare la fisionomia di un personaggio descrivendo il luogo in cui agisce oppure il genere di abbi­gliamento che indossa. Faugel non dice una parola, ma le angolazioni da cui è ripreso – dal basso, con carrellate laterali e a precedere – fanno intuire che si tratta di un «duro». Vestito in stile hard-boiled, di lui non si sa nulla. Ma la figura acquista rilievo per il modo di camminare e di sostare dinanzi a uno specchio rotto, dove si riflette per un attimo la ma­linconia struggente di una vita difficile. Anche l'ambiente esterno – l'atmo­sfera claustrofobica del tunnel – è utilizzato come segno premonitore della catena di delitti e di menzogne che caratterizzano la vicenda. Proprio come in un classico noir americano (vedi, per esempio, l'incipit di Odds Against Tomorrow, Strategia di una rapina, il film girato da Robert Wise nel 1959 amatissimo da Melville: una lunga carrellata all'indietro riprende Robert Ryan quasi barcollante sul marciapiede), il prologo è importante perché stabilisce un contatto tra un personaggio – di solito, il protagonista – l'ambiente che lo circonda. Subito si deve avvertire qual è il tono dram­matico impresso al racconto. E tutto ciò che ne deriva è chiaro: ambiente personaggi, tensione e azione, colpi di scena e finale risolutivo. Questa è la «ricetta» del noir, e Melville l'adopera per Le doulos adattandola al suo temperamento. In un film che deve buona parte del suo successo alla recitazione – attori come Belmondo, Reggiani, Piccoli e Desailly offrono una prova superba del loro talento – il regista rivolge un'attenzione parti­colare ai personaggi di secondo piano. Fabienne Dali, nei panni di Fabien­ne, non la noterebbe nessuno (compare solo in due sequenze: quando rin­contra Silien nel locale di Nuttheccio, e accetta supinamente un ruolo sgradevole, mostrando un carattere sottomesso e debole e rivelandosi un essere fragile e innocuo in apparenza; alla scena successiva quando Silien la co­stringe ad ammettere che l'assassino di Gilbert deve essere Nuttheccio, si insinua nella storia un sospetto che desta sorpresa, poiché entrambi sanno di mentire e la donna, consapevolmente, provoca la morte del suo uomo e di Armand). Benché non assurga al rango di una dark lady ma si limiti a sostenere un confronto, teso ed enigmatico, con Silien, Fabienne si stacca dal fondo con forte rilievo, nonostante le brevi apparizioni. E acquista im­portanza non solo perché svolge una funzione determinante nella storia ma anche perché si inserisce nella scia dei personaggi melvilliani indifesi e di fascino ambiguo: indifesi e anonimi in superficie ma capaci di azioni impreviste che possono riscattare il loro passato non limpido e trasformare un presente da cui sono oppressi. Forse, é questa la corda più profonda del temperamento del narratore che é Melville. La più segreta, e la più autentica. (…)
Con Le doulos Melville cercò di fare di più di un buon noir. Non si limitò a rendere ambiguo il comportamento dei personaggi (a parte Silien quasi tutti mentono, compreso il commissario Clain; e in virtù di una spie­tata equazione quasi tutti muoiono), ma cercò di rinverdire alcuni canoni del genere. Le doulos in effetti – questo è il suo pregio maggiore – non assomiglia ai tanti gangster film di svolgimento schematico e di itinerario obbligato che allineano in successione l'incontro-scontro tra le pedine del racconto, la definizione delle strategie criminose e la corrispondente rispo­sta della polizia, ecc. Segue, invece, un percorso alternativo. Certo, l'azione non manca, e basta citare il colpo alla villa, la brutale aggressione a Thérè­se, l'uccisione di Nuttheccio e di Armand, lo splendido finale. In queste scene Melville fa lievitare ritmicamente la suspense con un montaggio preci­so e ottiene effetti di sorpresa giocando sul sadismo con cui sono trattate alcune situazioni. Ma nulla è fine a se stesso, e tutto si realizza attraverso una costruzione a strati del racconto, che diversifica i percorsi dell'intreccio e altera la logica interna del noir. Fin quando non si giunge alla catarsi finale, e allo svelamento dell'intrigo, il nucleo centrale del racconto – a partire dal ritorno di Silien a casa di Thérèse – propone una continua serie di varianti, un puzzle di false piste. Lo schema del film ricorda il gioco delle scatole cinesi: la vicenda «pura» – quella che il demiurgo Silien espone nel finale – contiene un ventaglio di risvolti plausibili, sollecitati di volta in volta da un dettaglio visivo oppure sonoro, da un brano di dialogo che tutto sembra chiarire o dalla gestualità di un personaggio. Signi­ficativo in tal senso è il lungo piano-sequenza nell'ufficio del commissario Clain, quando questi convoca Silien. Oltre che essere un frammento tecni­camente pregevole, risponde a un'esigenza precisa della sceneggiatura: quel­la di confondere ancora di più le carte facendo monologare un tutore della legge (Silien risponde poco) che tenta di venire a capo dell'intrigo con gli strumenti della ragione, dell'intuito e della logica.
Cimentandosi con un genere evolutosi principalmente negli Stati Uniti dagli anni Trenta ai Cinquanta, il cinéphile Melville vuol testimoniarne le influenze: nel décor (l'ufficio di Clain ricalca, secondo quanto si legge nel libro di Nogueira, quello che Rouben Mamoulian aveva immaginato per City Streets, girato nel 1931), nell'abbigliamento, negli assolo interpretativi, nei dialoghi «ben scritti», in cui è assente l'«argot du milieu», nella fotografia in bianco e nero. Se i rimandi vanno al cinema americano degli anni d'oro, l'intelligenza creativa ha invece salde radici in Europa (Melville non rinnegherà le sue origini artistiche e storiche nemmeno quando la sua immagine assomiglierà sempre di più a quella di un perfetto e gentile texa­no). Bilanciando equamente le suggestioni d'Oltreoceano con la sua vena di cineasta europeo, il regista mobilita la materia del racconto con una riflessione amara, disincantata e cruda sul tema della menzogna. Non si tratta solo di personaggi o del modo in cui la «verità» subisce frequenti alterazioni nel corso del racconto (Rashomon potrebbe essere il modello ideale), ma di un atteggiamento morale, e/o moralistico a seconda dei casi, che investe la natura stessa del mezzo cinematografico. Nella realtà la men­zogna subisce la condanna morale di chi la riprova. In arte è qualcosa di più subdolo, di più raffinato intellettualmente, che raccoglie il consenso delle masse e livella le coscienze. Nel cinema soltanto un sottile confine separa la finzione dalla menzogna, e si dà la preferenza, in senso «positivo», al primo termine a scapito del secondo. Ma «tutto è» finzione e/o menzo­gna nel momento in cui l'oggetto della visione e dell'ascolto è riprodotto artificialmente (immagini che durano un pugno di secondi; suoni, voci e rumori costruiti ad arte per creare un clima di irrealtà), mentre nella vita quotidiana la finzione e/o la menzogna, manovrata con i modi imperfetti dell'agire umano, è più scoperta e dunque più controllabile.
Il prezzo pagato per esercitare la menzogna con la dovuta professionali­tà – come rileva Jean Wagner nella sua lucida analisi di Le doulos – è la solitudine. Colui che mente (il director) deve agire in totale solitudine subire il giudizio di chi troverà magari imperfetta la sua menzogna. Non sottovalutiamo, è ovvio, la schietta e logica commercialità di qualsiasi pro­dotto artistico, ma pensiamo anche a Melville e alle sue opinioni sul «chi è» del cineasta (meglio dire creatore di cinema) riportate all'inizio di queste pagine, alla sua effettiva solitudine e al suo ripiegarsi su uno studio costante serio. Allora le riflessioni metalinguistiche di Wagner su Le doulos risulte­ranno meno pretestuose e più aderenti allo spirito dell'opera. E vero, verso la fine della carriera, Melville si rifugia in posizioni rigide e aristocratica­mente isolate dai fermenti culturali e dalle innovazioni linguistiche in atto, il suo cinema appare cristallizzato, frutto del lavoro di un «samurai dello schermo» chiuso in se stesso e retrogrado. Ma è proprio da Le doulos, da questo gioco di squadra imperniato sull'impossibile ricerca di qualsiasi veri­tà, che si dipartono le nuove linee di forza della produzione ventura, incen­trata quasi tutta sul noir. (…)
Pino Gaeta, Jean-Pierre Melville, il Castoro cinema, 3-4/1990

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Critica (4):
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