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Chung Kuo-Cina


Regia:Antonioni Michelangelo

Cast e credits:
Sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Andrea Barbato; collaborazione e testo: Andrea Barbato; fotografia: Luciano Tovoli; montaggio: Franco Arcalli; suono: Giorgio Pallotta; consulenza musicale: Luciano Berio; produzione: RAI-Radiotelevisione Italiana; origine: Italia, 1972; durata: 240'.

Trama:Nel 1972, al culmine della rivoluzione culturale maoista, il governo cinese invita Michelangelo Antonioni a fare un documentario sulla Nuova Cina. Il regista va otto settimane con una troupe cinematografica a Pechino, Nanchino, Suzhou, Shanghai, e nella Provincia di Hunan.

Critica (1):Michelangelo Antonioni è stato in Cina e ne ha riportato un film intitolato Chung Kuo-Cina. Antonioni, come si sa è stato, agli inizi della sua carriera, documentarista; ma bisogna subito avvertire che il documentario sulla Cina l'ha girato riallacciandosi soprattutto al metodo lentamente elaborato nei suoi ultimi film a soggetto. Qual è questo metodo? È il metodo, tanto per intenderci, della «Ecole du regard» di Robbe-Grillet e compagni: affidarsi al senso della vista e soltanto a quello; separare gli oggetti dai
lnrn significati culturali etici e storici; abolire la durata mettendo tutto al tempo presente. La cosa curiosa é che l'«Ecole du regard» questo metodo l'ha preso in prestito proprio dal cinema nel quale, infatti, lo sguardo è predominante, la durata é sempre al tempo presente e il significato può se si vuole, essere separato facilmente dal significante. Ma Antonioni a questo metodo non c'è arrivato attraverso il proprio mestiere bensì attraverso un'interpretazione intellettualistica del mestiere stesso. Quanto dire che ha fatto un lungo, tipico giro: partito dal cinema, é passato attraverso l'interpretazione letteraria dell'arte cinematografica per poi, alla fine, tornare al cinema.
Il risultato di questo processo lo possiamo vedere in Chung Kuo-Cina. Messo di fronte alla Cina di Mao che è stata anche in passato la Cina di Chiang Kaishek e la Cina di tante dinastie per tremila anni, l'obiettivo di Antonioni ci dà l'hic et nunc dell'immenso paese, come se la Cina fosse sempre stata così, cioè fosse, alla fine, un puro oggetto da descrivere, senza stabilire rapporti con esso né indagare sui suoi rapporti passati e presenti con il mondo. Questa visione fenomenologica porta logicamente il regista a ricadere sul quotidiano e sulla freschezza e immediatezza delle impressioni che questo quotidiano gli ispira. E infatti la Cina di Antonioni è una Cina quotidiana. Secondo un'idea non tanto realistica quanto quotidiana della realtà. La Cina è un paese dai colori delicati, dalla psicologia sfumata e schiva, povero in un'accezione storica, cioè si direbbe, non soltanto povero perché con un livello di vita modestissimo, ma povero soprattutto perché depauperato per secoli da una raffinata
cultura fatta più di levare e alludere che di aggiungere e dire. Antonioni ha avvertito questo estremo, estenuato, depauperamento della civiltà cinese e infatti le cose più belle del film sono le notazioni insieme eleganti e autentiche sulla povertà, sentita come fatto spirituale prima ancora che economico e politico. Gli interni delle case, la vita collettiva, la campagna, i villaggi, la natura, l'esistenza giornaliera, tutto è visto in funzione di questa povertà. La quale, razionalizzata e teorizzata dalla rivoluzione costituisce uno dei principali capisaldi della scala di valori del paese.
L'altra cosa che pare aver fatto più impressione a Antonioni è il fenomeno della folla o meglio dell'uniformità della folla che, per così dire, rende, in Cina, la folla ancor più affollata che altrove. Le masse sono ritratte direttamente sia come moltitudine sia come volti singoli che però appaiono tipici di un'umanità massificata. Oppure Antonioni ci fa vedere le innumerevoli biciclette parcheggiate ai margini del sito del Tempio del Cielo. Ma anche nel silenzio e nel relativo spopolamento della campagna, i cinesi, nel film di Antonioni rivelano lo stesso carattere massificato ed egualitario che hanno nelle grandi città. Antonioni sembra attribuire a questa uniformità un significato senz'altro positivo e, alla fine, politico. Come a dire: «I cinesi si sono liberati dell'inutile, ingombrante, fastidioso individualismo; e questo è uno dei maggiori risultati della rivoluzione».
Alberto Moravia, L'Espresso, 4/2/1973

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