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Jaded - Scoppiati - Jaded


Regia:Kodar Oja

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Oja Kodar fotografia: Gary Graver; musica: Alexander Welles, Richard Strauss; montaggio: Maria Foss; scenografia: Julia Riva; costumi: Nina Palinkas; suono: Sasha Devici; interpreti: Randall Brady (Joe), Elizabeth Brooks (Rita), Scott Kaske (Angel), Jillian Kesner (Sara), Oja Kodar (Rossanda), Kelli Maroney (Jennifer), Todd Starks (George) produzione: Gary Graver e Oja Kodar, per Olpal produzione; distribuzione BIM; origine: SA, 1989; durata: 93'.

Trama:Una ronde di amori, assai poco schnitzleriani, si svolge a Venice (California), Personaggi di "diversa" solitudine incrociano incidentalmente i loro destini, fino a che lo legge del contro passo non diventa imperativa per uno di essi.

Critica (1):Il film ruota intorno al semplice concetto che vite senza perno e senza direzione possono invertirsi senza sforzo alcuno, così che la violenza riesce a ferirle solo in superficie; se poi all'utopia si sostituisce, come adeguato reattivo, un feroce sarcasmo, la marginalità diventa il veicolo per mutare il dramma sociale in pochade degradata, insensibile volontariamente ad ogni partecipazione sentimentale. Viene alla mente la "filosofia" del marinaio O'Hara (La signora di Shangai): "Che i marinai si sbranino fra di loro...", ma si ha modo ben presto di affinane il pensiero.
Oja Kodar, già autorevole scultrice, scrittrice ed ora anche convincente regista, dopo un lungo tirocinio a fianco del mitico Welles, suo compagno e maestro, ha dichiarato di aver voluto girare Jaded per poter guadagnane denaro e completare incompiuto wellesiano The Other Side of the Wind, in cui si narra la storia dell'ultimo pomeriggio e dell'ultima notte di J.J. Hannaford (John Huston), un vecchio regista che cerca disperatamente di "tenersi a galla e annetta per questo motivo di realizzare un film economico, pieno di nudi, di simbolismi, di violenza estremista, alla moda". Esattamente nome il film che la Kodar ha poi realizzato, non la sola differenza che nel suo lavoro i simbolismi sono banditi o quanto meno confusi nella descrizione di una surrealtà quotidiana ricchissima di dettagli e povera di necessità narrative; l'azione sembra svolgersi in un universo statino e insufficiente, un universo la cui insufficienza è compensata dal fatto che i dominati si identificano non un rituale fatalistino e progressivo ai dominanti, ovvero ai prevaricatori. "Essi vivono una vita da oggetti inanimati, senza alcuna volontà propria, evitando qualsiasi confronto non la loro persona".
Ecco allora che a trent'anni dall'antico romanzo d'amore della beat generation, non ci sono più vagabondi della verità, ma solo e drammaticamente "freaks" sfiniti, spossati dal loro stesso mal di vivere, incapaci di ipostatizzare o "platonizzare" qualsiasi cosa (alla frase "Senti l'oceano!" pronunciata dalla cantante lirica fa eco subito, per esempio, il peto di un divertito barbone). Il soprano Rossanda Orsino, interpretato dalla Kodar, ribadisce un credo wellessiano ("Siamo tutti falsi in qualche modo") e si espone - tra i diversi personaggi - vieppiù alla provocazione ironica, per meglio dimostrare che la menzogna rovescia ogni arroganza in esistenza e ne schernisce la pretesa di supremazia (si pensi alla scena delle pose fotografiche non i veli, derivazione immediata di F for Fake, oppure alla sequenza dell'incontro erotico in limousine dove gli amanti sono costretti a restare nudi per colpa del barbone che ruba loro i vestisti).
Il gioco delle parti continua non il gustoso episodio del confessore e si chiude non l'atroce vendetta che il travestito Angel ordisce ai danni del suo violentatore. E' una conclusione questa assai bella perché anche se nasce come punitiva, è descritta come conseguenza dialettica del falso universale: mette l'immortalità al servizio della moralità più beffarda, non escludendo né l'oltraggio brutale, né la buona coscienza.. E quando l'ultima immagine sposta lo sguardo dello spettatore dalla strada all'appartamento di un obeso melomane, fanatico ammiratore della Orsino, il film ristabilisce una inversione, un riporto speculare delle situazioni più emblematiche (simboliche).
Jaded comincia e finisce con la stessa violenza ribaltata; prosegue con l'osservazione di un personaggio che ascolta con godimento una romanza a voler puntigliosamente significare quasi un "ascolto preordinato delle cause", stancato dalla ripetitività melodrammatica degli eventi (non è un caso che il disco all'inizio si incanti), ma non mai da una qualsivoglia passione. Se c'è una "punizione perfetta" per un misfatto compiuto è solo il frutto di una circolarità delle circostanze e se c'è un'ancora di salvezza in un sentimento è destinata presto a spostarsi e a cambiare il suo fondo. L'abilità della Kodar è notevole nella descrizione di questi amori disinteressati della verità e nella orchestrazione di una storia assai dolorosa eppure continuamente illuminata da lampi d'ironia, nei dialoghi e nelle situazioni (il barbone che ruba soldi, vestiti e mutande in cambio di un gatto rapito e poi commenta: "Voi giovani avete vestiti indecenti", o la matta che distribuisce ai concittadini il suo certificato di verginità). Sospendendo giudizi ed adottando Io stesso unto di vista dei suoi personaggi, Oja Kodar elude tutte le ingenuità degli esordienti, non lasciandosi irretire da alcuna emozione; il sesso è da lei espresso in maniera esplicita e intensa, ma non nei dettagli; l'umorismo o la citazione non sono mai conseguenza di una forzatura. L'immagine di Orson Welles che appare in televisione nel ruolo di Shylock, mercante shakespeariano, allude con sottile finezza agli stessi temi di avidità e di rivalsa sociale vissuti in altro tempo in una omonima cornice (Venezia) e simultaneamente non è esornativa perché si trasforma da immagine-video in pellicola e con generosità si fonde nel film che sa amarla. Jaded è stato realizzato con l'intervento di collaboratori eccellenti: dall'operatore Gary Graver (F for Fake, Filming Othello), abile nell'ideare un'illuminazione sporca ed elegante, falsamente oscura, agli attori tutti che offrono una recitazione di grande naturalezza, come ubriacati da uno spleen incosciente o derisorio.
Numerose sono le affinità stilistiche con The Big Brass Ring, sceneggiatura bellissima e purtroppo non fumata, scritta da Welles nell'82, riscontrabili soprattutto nell'ambiguità reale dei caratteri, nello sviluppo sconcertante della vicenda, nell'erotismo aspro e inatteso. E così come nel fazzoletto scandaloso di Orson/Menaker c'era ben altro che lacrime, nel film della Kodar non ci sono doglianze.
Né vero, né falso (tra Browning e Cassavetes non c'è opposizione), non innocente, né propriamente colpevole, il film della signora "Orsino" risulta solo un atto impuro, un bel film.
Marcello Garofalo, Segno cinema n. 45, settembre/ottobre 1990

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Critica (4):
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