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Momenti tristi - Bleak Moments


Regia:Leigh Mike

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Mike Leigh; fotografia: Bahram Manocheri; musiche: Mike Bradwell; montaggio: Les Blair; scenografia: Richard Rambaut; suono: Bob Withey; interpreti: Anne Raitt (Sylvia), Sarah Stephenson (Hilda), Eric Allan (Peter), Joolia Cappleman (Pat), Mike Bradwell (Norman), Liz Smith (mamma di Pat), Christopher Martin (capo di Sylvia); produzione: Autumn Productions-Bfi Production Board-Memorial Enterprises; distribuzione: Lab80 Film; origine: Gran Bretagna, 1971; durata: 111’.

Trama:Sylvie, impiegata in un ufficio, conduce un'esistenza solitaria e monotona in una piccola casa alla periferia di Londra, dove vive con sua sorella Hilda, portatrice di handicap. Attorno a Sylvie ruota una schiera di persone eccentriche e malinconiche, di disadattati incapaci di affrontare la vita: Pat, la sua collega e migliore amica; Norman, un hippie che ha affittato il garage di Sylvia per stampare una rivista underground e suonare la chitarra indisturbato; Peter, l'insegnante per il quale la ragazza prova una forte attrazione, che benché corrisposta, non si concretizzerà mai, per via degli imbarazzi e della repressione delle proprie pulsioni...

Critica (1):Bleak Moments (Momenti neri) costa pochissimo (solo una quarantina di milioni); ciò nonostante è molto difficile trovare un produttore disposto a finanziarlo. Alla fine è Albert Finney che viene in aiuto di Mike Leigh e del suo partner, il produttore Les Blair: l'attore, con le percentuali che continuano ad arrivargli dagli incassi di Tom Jones, ha costituito una piccola compagnia di produzione, la Memorial Enterprises, che ha finanziato nel 1968 il film diretto dallo stesso Finney, Charlie Bubbles (L'errore di vivere) e If... di Anderson, e nel 1971 Gumshoe, il primo film di Stephen Frears. Con l'aggiunta di un piccolo contributo del British Film Institute. Mike Leigh "progetta e dirige" il suo primo atroce ritratto della mentalità e del comportamento inglese. La formula "devised and directed", escogitata in assenza di una sceneggiatura scritta, caratterizza il lavoro di Leigh fino alla fine degli anni Ottanta: un comprensibile riconoscimento del ruolo attivo sostenuto dagli interpreti, sottoposti ad uno sforzo intenso e finissimo. Bleak Moments è fatto di silenzi, pause, balbettii, di colloqui dove le parole nascondono invece di rivelare, di solitudini incolmabili e ininterrotte. I cinque personaggi della piccolissima borghesia suburbana riescono ad incontrarsi senza spartire mai un attimo vitale. Caratteristicamente, non si toccano mai (a parte due momenti), non superano mai la barriera di timidezza e riserbo che li separa, usano gli oggetti e i convenevoli quotidiani come unico possibile tramite, ovviamente inefficace. Il solo discorso lungo e intellegibile è sulla comunicazione, o meglio sulla teoria della comunicazione di McLuhan; viene dal personaggio che ha il dono della cultura, Peter il professore, naturalmente al momento meno opportuno, per sciogliere la tensione di un probabile approccio amoroso. È inutile, vacuo, un po' supponente, come tutto il gioco gestuale di Peter, un ritratto retto al confine della parodia con un miracoloso equilibrio di sfumature. Non è solo la parola, tuttavia, ad essere denudata nella sua impossibilità comunicativa, ma tutto l'universo dei segni, che pare aver perduto tragicamente d'efficacia. Tazze, bicchieri, piatti passano di mano in mano, nel tentativo di stabilire un primo contatto, ma il gradino successivo è comunque insormontabile. Solo la musica conserva una quantità minima di immediatezza emotiva. Come scrive Jean-Paul Török, il critico francese che si accorse di Bleak Moments, fin dalla sua uscita, «Digressione imprevedibile e discreta, la musica, sotto forma di frammenti di un pop scalognato o di una sonata storpiata al piano appare come l'unico brandello di messaggio lanciato in direzione degli altri e deformato dalla distanza, ma comunque il solo che riesca a passare attraverso l'inutilità dei gesti e delle parole». Un film sulla incomunicabilità, talmente rigoroso da saper rinunciare alla parola e, soprattutto, a qualsiasi spiegazione, enunciazione, metafora insistita; è talmente efficace e, in un certo senso, masochistico, da porre lo spettatore nella stessa, scomoda posizione dei personaggi. Il senso di impotenza di certi momenti, tirati fino alle estreme conseguenze dell'imbarazzo e della maldestrezza, è insostenibile e doloroso. Siamo con Sylvia chiusi dentro quel décor preciso e triste, senza possibilità di evoluzione narrativa o di alibi intellettuali, costretti ad un percorso a vuoto che si (e ci) rifiuta qualsiasi autocompiacenza. Fa venire in mente la situazione in cui viene posto lo spettatore da un film diversissimo sul piano propriamente filmico e immaginario, ma molto simile su quello della progressione (o non progressione) narrativa Two Lane Blacktop (1971) di Monte Helhnan, dove vorremmo tanto suggerire parole, gesti aperture reciproche ai personaggi, ma dove finiamo per accorgerci di essere incastrati come loro in un movimento inerziale. Naturalmente, un risultato del genere è molto più di una questione di attori (tutti straordinari). Qui è la regia ad esercitare un ruolo fondamentale di costruzione e controllo. Vale la pena di citare ancora Török: «ogni personaggio è chiuso, classificato in una porzione di spazio descritta minuziosamente e delimitata rigorosamente, e in questa porzione si dispone con la stessa disciplina, la stessa necessità opprimente delle stoviglie in una natura morta di Morandi. Oppressione dell'inquadratura, che accentua contemporaneamente la fissità dei piani e la leggerezza delle inquadrature, che non fanno che controllare degli abbozzi di gesti lasciando che poi si infrangano sulle barriere invisibili che li contengono. Oppressione dell'uniformità dei colori, tutti nelle gamme dei marroni, dei verdi pallidi e dei grigi lividi, che assorbe i movimenti in una sorta di armonia metafisica. Oppressione, infine, della bellezza, dove ogni immagine è portata, dalla sua composizione meticolosa e dall'ammirevole fotografia di Manoochehri, ad un livello di equilibrio, di completezza e di perfezione che rende ancora più insostenibile il fallimento dei personaggi, il loro abbandono, la loro miseria mentale e affettiva. Tutto è fatto per materializzare e far percepire in maniera acuta la soluzione di continuità tra gli esseri». Bleak Moments viene presentato al London Film Festival del 1971 ed ha un buon successo critico. Nel '72, vince il primo premio ai Festival di Chicago e di Locamo, ma, uscito a Londra, viene smontato dopo tre settimane di programmazione. Probabilmente, è troppo aspro e troppo poco gratificante per il pubblico di allora. Rivedendolo oggi si ha la curiosa sensazione che sia un tipico prodotto di quegli anni (con la sua disperazione programmatica, la sua distanza fragile, il suo minimalismo narrativo) e, contemporaneamente, sia in netto anticipo sui tempi (non è didascalico, sfugge a qualsiasi griglia ideologica e al naturalismo). L'osservazione di Mike Leigh non è, quella partecipe "calda" di Loach, ma ha l'acume freddo dell'entomologo. E il realismo minuzioso serve soprattutto per trasmettere informazioni sulla condizione interiore dei personaggi, che non sarà mai esplicitata dalla storia impossibile. Il che non significa che l'autore non sia commosso dal dramma sottile delle sue creature, o che non ci comunichi questa commozione, per esempio con quei campi lunghi del paesaggio suburbano attraverso il quale Sylvia e Hilda tornano a casa, o con quel pugno che Hilda dà a Sylvia e quel bacio abbozzato e subito ritratto tra Sylvia e Peter. Probabilmente la presunta "distanza" di Leigh e soprattutto quella pudica e acuminata della vena satirica che già appare esplicitamente in Bleak Moments, ma che guadagnerà spazio e spessore nel corso dei lavori successivi. [...]
Emanuela Martini, dal catalogo del Bergamo FilmMeeting, 1993

Critica (2):La swinging London, il beat, la "controcultura" degli anni Sessanta, la "rivoluzione" sessuale: fantasmi. Il primo film di Mike Leigh marca immediatamente la frattura e il distacco rispetto all'immagine ufficiale quali condizioni necessarie per uno sguardo attendibile sulla realtà, fatta di esistenze insignificanti, di gesti ripetuti quotidianamente senza convinzione, di silenzi che sovrastano le (poche) parole, di risibili equivoci, di sofferenze senza grandezza, di sentimenti senza abbandono. A guardarlo ora, contestualizzandolo nel periodo storico in cui viene realizzato, Bleak Moments ci appare come un messaggio in bottiglia, pienamente consapevole della sua diversità, della sua estraneità rispetto al "clima" culturale attribuito con consumistica faciloneria a quegli anni: e non è per nulla contradditorio che tale estraneità venga addirittura rafforzata dalla presenza di elementi che a quel "clima" sembrano a prima vista ricondurre. Non meraviglia certo che, pur premiato in manifestazioni cinematografiche internazionali, il film non abbia retto alla prova del pubblico e sia sparito dalla circolazione: la sua crudeltà è radicale e coerente fino alle estreme conseguenze. Come poteva essere ben accolto dal grande pubblico, che tutt’al più si divideva tra sostenitori dei buon tempo andato (esattamente il mostro che il film rappresenta in azione, intento a divorare le vite dei suoi inermi protagonisti) ed entusiasti proseliti del nuovo (di cui nel film non è questione, se non per qualche traccia che sembra portare dritta nel vuoto)?
Al centro del microcosmo di disadattati o di repressi cronici che costituisce il paesaggio umano di riferimento sta la figura di Sylvia, posta sotto il segno evidente della malinconia. Su di lei convergono le linee di forza lungo le quali si muovono gli altri personaggi, ma la sua impossibilità ad agire è evidente e sottolineata in modo anche più feroce da quegli indizi che ci comunicano la sua insofferenza colma di autoironia, la sua consapevolezza di muoversi nella direzione sbagliata del vicolo cieco in cui si trova. La sua paralisi esistenziale è tanto più angosciante quanto maggiori sono le prove della coscienza che ne ha; e da questa angoscia (che è sua e nostra grazie alla calibratissima messa in scena operata da Leigh) non sembra esserci via d'uscita.
Intorno a Sylvia stanno sparsi i gesti, gli oggetti, le frasi di una ritualità su cui ha finito per fondarsi, prendere forma e consistenza l'identità dell’essere Inglesi": un'eredità pesante e attrezzatissima a fornire percorsi sicuri per attraversare la vita senza porsi domande inopportune, nella convinzione che tutto sta comunque andando per il meglio perché tutto va nell'unica direzione possibile. Ma la coerenza dell'insieme è frantumata, spacciata; i singoli elementi ne sono appunto sparsi tutti attorno, consegnati all'inservibilità. Si ha un bel cercare di farne ancora uso, nel tentativo di ricomporre il modello di partenza. Basta un attimo e tutto inizia a girare a vuoto: gli oggetti che passano imbarazzati di mano in mano, i gesti che non sanno più esprimere intenzionalità riconoscibili, le parole dirette soltanto a guadagnare tempo come se ce ne fosse una disponibilità inesauribile. C'è nel film una sequenza formidabile, in cui si concentra tutto ciò a un livello di densità insostenibile: quella del tè pomeridiano «con i protagonisti schierati nel soggiorno» e la m.d.p. che stacca sui primi piani di costoro, per un totale di 24 inquadrature silenziose: «una storia psico-emotiva che nessun dialogo sulla terra riuscirebbe mai a catturare».(...)
A differenza di quanto si vede negli sviluppi successivi del suo lavoro, dove a poco a poco finisce per trovare respiro sempre maggiore il registro della commedia, con ciò che ne deriva per quanto riguarda l'uso dell'umorismo, dell'ironia anche (transitoriamente) liberatoria, in Bleak Moments si respira un'aria certo più cupa. E probabile e comprensibile che si tratti di una reazione dell'autore agli eccessi di euforia del periodo e al timore di una più facile strumentalizzazione del tono leggero in funzione riconciliatrice e intellettualmente soporifera. Un film "maledetto"? Se si pone attenzione a certi guizzi appena accennati (e subito ripresi, ma non soffocati) che lo punteggiano, si può azzardare una corrispondenza tra il film e la sua protagonista: una sorta di scelta, ineluttabile eppure intenzionale, presiede al loro destino; sia il primo che la seconda sono talmente consapevoli della propria situazione da non poter fare altro che consegnarsi inermi alla condizione di "sotterraneità". Per fortuna, se i tempi sono tiranni, a volte il tempo sa anche rendere giustizia: da un'oscurità durata quasi 25 anni, Bleak Moments riemerge ora (almeno per quanto riguarda il circuito culturale italiano) a rendere ragione della coerenza e fecondità del percorso artistico di uno dei più interessanti cineasti inglesi in circolazione.
Adriano Piccardi, Cineforum n. 339, 11/1994

Critica (3):

Critica (4):
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