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Djomeh - Djomeh


Regia:Yektapanah Hassan

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Hassan Yektapanah; montaggio: Ali Loghmani; interpreti: Rashid Akbari (Habib), Jalil Nazari (Djomeh), Mahmoud Behraznia (Agha Mohmoud), Mahbobeh Khalili (Setareh), Valiollah Beta, produzione: Behnegar; distribuzione: Mikado; origine: Francia, 2000; durata: 94'.

Trama:Djomeh è un giovane afghano che lavora in una cascina nella campagna iraniana, ogni mattina accompagna M. Mahmoud, la proprietaria della proprietà, nei paesi intorno per acquistare il latte da rivendere. Nonostante sia straniero, Djomeh non ha paura di parlare apertamente agli iraniani, e quando si innamora di una ragazza del posto il giovane afghano, trasgredendo ogni frontiera culturale, domanda a M. Mahmoud di fare da tramite.

Critica (1):Emigrato temporaneamente in Iran dove ha trovato lavoro presso una fattoria, il giovane afgano Djomeh cerca di inserirsi nella nuova realtà senza rinnegare le tradizioni del suo Paese, per le quali un giovane è mal considerato se non ha preso moglie entro i ventuno anni di età. Ingenuo e determinato, egli inizia un corteggiamento serrato, non privo di risvolti comici, nei confronti della figlia del bottegaio locale, dimenticando che la sua spregiudicatezza in fatto di sentimenti lo aveva già reso inviso ai suoi compaesani. Il confronto tra due culture, quella iraniana e quella afgana, seppure non troppo approfondito, è alla base del soggetto di Djomeh ed è quasi tutto affidato ai dialoghi tra il protagonista e il suo datore di lavoro, il dolce e comprensivo signor Mahmoud. Il resto è delegato ai volti immobili, ai silenzi e ai paesaggi brulli della campagna iraniana, nel segno di uno stile ormai riconoscibilissimo che discende dal cinema di Kiarostami, di cui l’esordiente Hassan Yektapanah è stato aiuto regista per Il sapore della ciliegia (e lo è stato anche per Lo specchio di Jafer Panahi).
Assai più semplice e diretto di quanto non lo sia il suo Maestro (e per questo meno interessante), Yektapanah chiude con una nota amara e realistica un film che conferma la stagione felice che sta attraversando ormai da diversi anni il cinema iraniano e che le Giurie dei festival internazionali continuano a registrare: Djomeh ha conquistato la Camera d’Or per la migliore opera prima all’ultimo Festival di Cannes.
Alberto M. Castagna, kwcinema

Critica (2):Scenari desolati e polverosi. Strade sterrate e villaggi punteggiati di abitazioni bianche. Uomini dai visi rugosi e donne avvolte in abiti che nascondono le linee dei corpi. La campagna collinosa dell’Iran è l’ambientazione scelta da Hassan Yektapanah, per la sua opera prima di cui ha curato regia, sceneggiatura e montaggio. Al centro della narrazione c’è Djomeh, giovane sensibile e timido che ha lasciato l’Afghanistan dopo una storia d’amore con una donna più grande di lui di dodici anni che ha "disonorato" la sua famiglia. In Iran, Djomeh lavora duramente nell’allevamento del signor Mahmoud. Con lui, nonostante le differenze culturali e sociali che li separano, riesce a stabilire quel rapporto di confidenza e fiducia che invece manca con il rude conservatore Habib, l’altro iraniano che vive nella fattoria. A Mahmoud racconta il suo passato e i sogni che vorrebbe realizzare. Al primo posto c’è l’amore, il desiderio di avere accanto qualcuno con cui condividere tutto e in grado di colmare la sua solitudine. Mahmoud ricambia la simpatia del ragazzo ed è colpito dalle sue riflessioni sulle differenze tra la cultura afgana e quella iraniana.
Differenze che appaiono forse impercettibili agli occhi degli occidentali abituati a vedere il mondo arabo come un insieme omogeneo e indistinto, ma che nel film affiorano distinte. Djomeh in Iran è uno straniero. Il forestiero di cui i bambini del villaggio si prendono gioco e che gli adulti apostrofano con freddezza. Quando si innamora di una ragazza del luogo, il razzismo sottile nei suoi confronti si rivela un ostacolo insormontabile. Su questi temi si posa lo sguardo delicato di Hassan Yektapanah, un nuovo talento della produzione iraniana che dagli anni Ottanta fino ad oggi ha aperto nuovi territori al cinema d’autore esplorati da registi come Abbas Kiarostami da Mohsen Makhmalbaf e sua figlia Samira. Nei loro film, come in Djomeh, la macchina da presa e la recitazione scompaiono per lasciare spazio alla vita quotidiana, ad una realtà frugale ma complessa nei sentimenti che la animano. Qualcuno ha chiamato "minimalismo neorealista" lo stile di Kiarostami e questa definizione si addice anche a Yektapanah che, non a caso, è stato il suo aiuto regista in Il sapore della ciliegia. "Kiarostami mi ha insegnato a guardare il mondo e a pensare. Da lui ho imparato a osservare le reazioni della gente in momenti e occasioni diverse. Lavorare con lui è stata un’autentica benedizione", dichiara il regista esordiente che ammette "Non posso e non voglio dire che Djomeh non sia stato influenzato in qualche maniera da lui". Ad accomunarli è l’oscillazione tra il documentario e la fiction. Entrambi esercitano una critica sottile ma efficace della tradizione islamica e danno vita a personaggi che colpiscono con la forza della loro tenerezza e della melanconia. Diomeh è senz’altro tra questi.
Miriam Tola, Cinemazip

Critica (3):

Critica (4):
Hassan Yektapanah
(Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di); (Progetto editoriale a cura di) Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet; Redazione Internet (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di); (Contenuti a cura di) Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema; Ufficio Cinema
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