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National Gallery


Regia:Wiseman Frederick

Cast e credits:
Fotografia: John Davey; montaggio: Frederick Wiseman; suono: Frederick Wiseman; produzione: Frederick Wiseman, Pierre-Olivier Bardet Per Gallery Film Llc And Idéeale Audience con la partecipazione di Canal +, Planete +, Le Fresnoy; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Francia-Usa, 2014; durata: 173’.

Trama:Uno sguardo dietro le quinte della National Gallery di Londra, un viaggio nel cuore di un museo ricco di capolavori dell'arte che vanno dal Medioevo sino al XIX secolo. Ritratto di un luogo e del suo modo di lavorare, delle relazioni con il mondo, dello staff e del pubblico, ma soprattutto dei capolavori esposti.

Critica (1):Frederick Wiseman è un regista affascinato dalle istituzioni. La sua macchina da presa studia, indaga, analizza i funzionamenti di diversi microcosmi per studiarne le implicazioni, i meccanismi palesi e sotterranei, i rapporti tra individuo e sistema sociale. Il suo è un cinema per cittadini oltre che per spettatori, i film sono testimonianze preziose sui panorami umani, sulle interazioni che si generano, sul senso profondo della relazione tra singolo e collettività. Un cinema umanista e intimamente civile – mai arreso a una superficialità engagé – che negli anni ha visitato carceri e licei, ospedali e corpi di ballo, strutture civili, campi militari e università. Wiseman entra nei luoghi, si immerge e osserva, accumula centinaia di ore di girato che attraverso il montaggio assumono una struttura narrativa fatta di frizioni e confronti, analogie e analisi, non sovrapponendo nulla alla materia bollente del suo oggetto – né interviste, né voci off, né didascalie – per raggiungere un grado di coesione limpido e purificato della realtà raccontata.
Dopo la ricognizione di At Berkeley, che attraverso la descrizione del funzionamento quotidiano di uno dei campus più prestigiosi degli Stati Uniti costruisce una riflessione sul senso civile di un sistema educativo pubblico nell'America di oggi, Wiseman ha scelto la National Gallery come luogo della sua ultima indagine. Il film si snoda nelle stanze del museo alternando il racconto dell'attività puramente didattica a quella dell'incessante lavorio che si svolge dietro le quinte: laboratori di restauro, riunioni decisionali sul ruolo – e sul senso – di un'enorme istituzione culturale pubblica, confronti sul quotidiano impegno di curatori e impiegati per il funzionamento di una struttura che travalica il suo valore strettamente artistico. In National Gallery lo sguardo di Wiseman si sposta continuamente dall'uomo all'opera d'arte mettendo in relazione oggetto storico e soggetto contemporaneo, osservando ogni quadro come corpo vivo che continuamente si rinnova perché impegnato in un rapporto – quasi un corpo a corpo – con il pubblico e con gli addetti ai lavori. Wiseman rifugge ogni approccio didascalico proprio perché è interessato al valore concreto ed epistemologico dell'arte, tratta la conservazione come ricerca di una relazione fisica e contingente più che come semplice omaggio riverente alla creatività umana. Insomma, riesce a costruire un film su un museo rifiutando la musealità, scandagliando la contemporaneità dell'opera d'arte attraverso l'impegno quotidiano di chi se ne occupa.
Attraverso ogni scena Wiseman ci introduce in un mondo solo apparentemente conosciuto svelando particolari altrimenti inconoscibili, rinnova le opere dando loro un tempo e un senso presente: le nozioni artistiche delle guide si alternano ai minuziosi lavori di restauro concretizzandosi in un disegno che è superiore alla somma delle parti. Lo sguardo di Wiseman è orizzontale e profondo e affronta il rapporto tra arte e collettività aiutandoci a capire l'esperienza individuale del godimento artistico e la struttura sociale che quell'esperienza permette: due valori legati in maniera indissolubile che miracolosamente si trasformano in narrazione, in analisi, in comprensione del testo. Un quadro che, come nelle opere degli impressionisti, nasconde nell'insieme un'infinita concentrazione di dettagli, colori, colpi di pennello.
Federico Pedroni, Cineforum n. 535, 6/2014

Critica (2):Era il pittore Camille Corot a sostenere che in pittura non bisogna cercare ma semplicemente si deve aspettare. Nell`ultimo lavoro di Fred Wiseman si entra ancora una volta, come già in anni recenti ad esempio nel teatro dell’opera di Parigi, all’interno di una struttura istituzionale, qui la National Gallery di Londra, uno dei musei più importanti del mondo, che presenta un intreccio inestricabile tra bellezza, produzione di pensiero e struttura economica. La mdp di Fred Wiseman si muove nella National Gallery con la stessa pazienza gentile necessaria a far affiorare gli strati diversi di un sito archeologico. Esiste tra l’altro un intreccio, sempre presente nel lavoro di Wiseman, e qui particolarmente insistito tra il lavoro vivo (la manovalanza operaia mostrata mentre smonta o monta le varie mostre all’interno del museo, oppure i vari addetti alle pulizie che lucidano i pavimenti, con i quadri che vi si specchiano, nitidamente, ma capovolti) messa a confronto con le parole degli storici dell’arte che rivolgendosi a piccoli gruppi di visitatori oppure a chi partecipa alle conferenze, entrano nel vivo della straordinaria condensazione narrativa di alcuni dipinti particolarmente problematici, come ad esempio un Rembrandt che letto verticalmente mostra il ritratto di un uomo a cavallo, e che, se viene fatto ruotare di 180 gradi, rivela sotto le molteplici velature a olio un altro dipinto, un autoritratto anch’esso a cavallo. Oppure alcuni Velasquez o Vermeer che continuano ad interrogare chi li guarda perchè avviene talvolta che il vero soggetto del dipinto non si riveli fino in fondo o che alcuni dettagli raccontino una storia diversa da quella che appare a prima vista. Lezioni di vero che lavorano in profondità sull’incertezza, sull’ambiguità, sulla ricchezza inesauribile che si apre a un’interpretazione interminabile di alcune immagini, e sui modi di rappresentazione che ribadiscono come i quadri non siano mai presenze innocenti perchè guardati, ricambiano il nostro sguardo, ponendoci in silenzio delle domande. Wiseman si affianca qui al Sokurov di Arca Russa nel riconoscere che la grande pittura continua a porci dei problemi, mettendo di fronte ai nostri occhi, oltre alla bellezza, spesso insostenibile, delle forme, degli enigmi da sciogliere. Leonardo, Tiziano, Vermeer, Rembrandt, Turner, Holbein non a caso sono le presenze più ricorrenti nel film, in quanto tutti pittori che hanno saputo proteggere fino in fondo il mistero della propria opera proprio nel momento in cui veniva presentata al mondo.
E poi come sempre in Wiseman, la presenza vertiginosa dell’inatteso, di cui vale la pena segnalare almeno due momenti nelle tre ore del film: il primo che riguarda la lettura tattile delle riproduzioni dei quadri da parte di un gruppo di persone non vedenti, che imparano a vedere un dipinto facendo scorrere le dita sul foglio che lo riproduce, ricostruendo uno spazio fisico e mentale che trasforma l’invisibile in visibile, e, verso la fine del film, durante la visita di un gruppo nell’ala del museo dedicata a Cezanne e alla pittura impressionista la presenza di un visitatore mutante con un obiettivo-zoom montato al posto di una lente degli occhiali. Un film che Jacques Lacan avrebbe sicuramente amato per quell’intenso soffermarsi sul problemi dello sguardo e dei suoi scarti; il tempo della pittura messo in acuta tensione dal tempo filmico, un museo sottratto all’istituzione e proposto con il calore di una cosa viva.
Se il precedente capolavoro At Berkeley insisteva a costruire sottotraccia l’utopia di una tensione artistica dell’istituzione stessa, qui l’arte è talmente ‘alta’ da non poter essere istituzionalizzata. Ed ecco allora che Wiseman si rivolge all’opera incerta dell’occhio (col continuo rilancio di sguardi dai volti dipinti a quelli dei visitatori) e a quella incertissima della parola che cerca di ridire (con metafore, racconti, analogie, semplici esempi e puri rilanci del desiderio) ciò che forse è stato fatto per sfuggirle. Con tutta la sua sapienza di romanziere ancora prima che cineasta, avanza spedito laddove apparentemente il mondo richiede lentezza e osservazione, ma che invece, sottoposto così a un trattamento di frasi brevi e mai indulgenti, rigorose su tutto e curiose di tutto, (totale del quadro e dettaglio, volto, totale della stanza, primo piano di mani al lavoro, nudità dell’opera e studio del nudo, restauro del corpo malato di una tela o della sua cornice, rimessa in scena e ulteriore studio dell’intreccio fra luce e oscurità), arriva a misurare, intorno al dipinto, il peso dell’aria e del pensiero stesso, fra vita e morte, resistente nonostante tutto.
Daniela Turco e Lorenzo Esposito, filmcritica.net, 18/5/2014

Critica (3):Che sia il più grande documentarista vivente pare pacifico. Che Frederick Wiseman però, a più di 80 anni, continui a sfornare grandi opere a getto continuo un po’ meno. Il nuovo lavoro, National Gallery, presentato alla Quinzaine des Realisateurs di Cannes 2014, continua il percorso intrapreso negli ultimi anni da Wiseman, che dopo aver cambiato storia e senso del documentario con Titicut Follies, Hospital e Domestic Violence ha intrapreso un percorso che guarda all’arte, alla cultura, a quell’umanesimo che la dittatura dell’economia e la sua crisi hanno portato a rinnegare.
Così dopo La danse, Crazy Horse o At Berkeley, Wiseman racconta dal di dentro la National Gallery, con lo stesso metodo di sempre: entrare nei luoghi dove si decidono le sorti di un’istituzione, osservare, non intervenire né commentare mai, mostrando i meccanismi decisionali prima e il lavoro concreto poi intorno al famoso museo londinese, tra i più grandi del mondo. E come sempre in Wiseman, soprattutto nell’ultimo periodo, la capacità di tirare fuori il senso politico delle immagini è straordinaria.
Mostrando quasi in parallelo le riunioni del consiglio di amministrazione in cui si decidono le attività e si risolvono i problemi organizzativi ed economici e il lavoro delle guide nel raccontare ai bambini o ai disabili, la preparazione delle opere da parte dei curatori e le esposizioni vere e proprie, National Gallery mette in mostra cosa rappresenta l’arte in questo preciso momento storico e socio-culturale, come poterla salvare e comunicare al mondo, rendendo cruciale la questione dell’opera come racconto e messinscena (bellissime le discussioni sulle cornici, le luci, i riflessi), facendo di riflesso quindi anche un film sul cinema, la cui condizione si specchia in quella dell’arte tout court.
Come sempre, Wiseman abbatte le barriere tra ciò che è di pubblico dominio e ciò che non si potrebbe sapere, tra il dietro e il davanti le quinte, tra lavoro e risultato e lo fa su una materia tanto più affascinante quanto più affine, in senso estetico, ontologico ma anche politico, alla settima arte. E il finale, con i due ballerini che danzano tra i dipinti del museo, fonde non solo le varie anime dell’arte, ma i vari elementi del cinema (immagine, movimento, dettaglio sonoro, musica) e il percorso di Wiseman da qualche anno a questa parte. (…)
Emanuele Rauco, Il Mucchio selvaggio-ilmucchio.it, 17/5/2014

Critica (4):
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