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Vedova allegra...manon troppo (Una) - Married to the mob


Regia:Demme Jonathan

Cast e credits:
Sceneggiatura: Mark Burns, Barry Strugatz; fotografia (col.): Tak Fujimoto; montaggio: Craig McKay; scenografia: Kristi Zea; costumi: Cooleen Atwood; musica: David Byrne; interpreti: Michelle Pfeiffer (Angela DeMarco), Matthew Modine (Mike Downey), Dean Stockwell (Tony "The Tiger" Russo), Mercedes Ruehl (Connie Russo), Alec Baldwin (Frank De Marco), Joan Cusack (Rose), Oliver Platt (Ed Benitez), Paul Lazar (Tommy), "Sister" Carol East (Rita Harcourt), Ellen Foley (Theresa), O'Lan Jones (Phyllis), Anthony J. Nici (Joey De Marco), Nancy Travis (Karen Lutnik), Al Lewis (Joe Russo); produzione: Kenneth Utt, Edward Saxon per Orion Pictures; : Kenneth Utt, distribuzione: CDI; durata: 103 ; origine: USA, 1988.

Trama:
Frank 'Cetriolo' DeMarco appartiene al clan del capomafia Tony Russo ed è un inguaribile donnaiolo. Sua moglie, la bella Angela, si ritrova ben presto vedova e con un bambino perché Tony uccide Frank dopo averlo pescato con una ragazza che riteneva sua. Tony, che ha una moglie gelosissima, mette subito gli occhi su Angela. Non sa però che su entrambi ha centrato l'attenzione l'FBI che vuole incastrare il mafioso. Succede però che il poliziotto incaricato del pedinamento, Mike Downey, si innamori di Angela.

Critica (1):Tutte le recensioni di Married to the Mob (ci rifiutiamo di usare il titolo dato in Italia al film di Jonathan Demme per non avvalare l'insulto all'intelligenza dei distributori) hanno messo in evidenza la suggestione dei credits in chiusura, che mostrano spezzoni di riprese non entrate nell'economia del montaggio. Il rifiuto della parola "fine" c'era già però in Qualcosa di travolgente, dove la canzone di una cameriera si sovrapponeva ai titoli di coda in una sorta di riepilogo-rilancio della storia. Il cinema di Demme, testimone di un'epoca che non conosce più la "quadratura" dei generi e l'equilibrio dei caratteri, si dibatte in effetti tra un continuo aggiungere e levare: diventa irrilevante sfociare nell' happy end quando la natura vera e sottolineata del film sta nel non-finito, in una ridondanza che emerge già da quell'autentico puzzle che è la colonna sonora segnata dal gusto citazionistico di David Byrne e da continue contaminazioni.
La musica tuttavia per Demme non è mai tappezzeria, si fa sentire, è qualcosa di denso e sensuale che ha che fare spesso con la corporeità dei personaggi, vuoi per adesione mimica dell'interprete (pensiamo alla sintesi sonoro-gestuale con cui proprio il leader dei Talking Heads riusciva a far lievitare un rock-movie come Stop Making Sense), vuoi per netta contrapposizione fisionomica (ricordiamo le note stentate e commoventi della canzonetta infantile che il vecchio Jason Robards/Howard Hughes, logorato dai troppi soldi e dal disprezzo per ogni comunicativa, era spinto a intonare in Una volta ho incontrato un miliardario).
L'irresistibile "mambo italiano" - pronuncia: "italieno" - che apre Married to the Mob fa presa sul senso di deriva che la canzone esprime attraverso appunto la storpiatura linguistica: è l'Italia, vista dall' America, e l'America vista da un trentennio di distanza, sulle tracce di un esotismo anni Sessanta, da cui riemergono confusi ricordi di una Hollywood sul Tevere, di paparazzi e di balere. Insomma, l'artificio al cubo, ma l'impatto musicale nasce qui dal fatto che Demme non si sofferma su possibili scorci macchiettistici suggeriti dal motivo, ma tira via con la velocità di una fuga di rotaie riprese da un treno in corsa, facendo emergere la voce un po' stentorea della cantante in un vuoto da vertigine. Si fissano per un istante, sui molti percorsi a cui il succedersi vorticoso degli scambi ferroviari allude, i titoli di testa: perfetto controcanto di quelli di coda nell'indicare un inizio del racconto "aperto", scatenato a passo di danza e non disposto a farsi ingabbiare in un contesto narrativo troppo marcato. Certo i vezzi della rappresentazione in commedia della comunità italo-americana ci sono tutti, dalle mogli fisicamente stravolte dal sospetto di tradimento coniugale alle madri urlanti sulla tomba dei figli morti ammazzati, dagli uomini angosciati dal fantasma dell'impotenza sessuale all'ossessione generale per il cibo che trabocca nei discorsi anche nell'imminenza di fatti di sangue. Ma il regista non calca gli stereotipi in chiave grottesca, come avveniva in Stregata dalla luna; il suo è un "teatro" provvisorio, con momenti perfino di understatement. Valga per tutta la scena dell'omicidio sul treno, dove i killer, perfetti impiegati del crimine, si confondono con i pendolari diretti a Manhattan e discutono di appuntamenti conviviali e di banali impegni di famiglia. Piuttosto va detto che l'accentuazione di determinate tipologie sposta il film sul terreno di uno straniamento comico in cui prevale la connotazione fisica "mostruosa" e il gesto inconsulto rispetto alla battuta e all'azione parodizzate e quindi in tema. Le mogli dei mafiosi sovraccariche di trucco in attesa dal parrucchiere; Connie, sposata al boss Tony Russo, che in preda a raptus di gelosia stritola un pacchetto di uova al supermercato; la vecchia De marco che si lancia nella tomba del figlio; ancora Connie con andatura da zombie nella sparatoria a Miami; e poi le incredibili fisionomie dei componenti maschi della "famiglia", debitamente sottolineate da nomignoli come il Tigre, il Supercetriolo, il Verme, Faccia di cefalo: è il castig uno dei punti di forza dei film di Demme per la capacità di rintracciare un repertorio di volti ed espressioni che, anche quando repulsivi, sono comunque "autentici". Si sente in questo la predilezione per un cinema ancora ritagliato dalla vita e dalle sue asperità, fatto di corpi e di pregnanza gestuale, secondo un'ormai antica lezione cormaniana, e non di "presenze" tecnologiche o di protesi rambaldiane, secondo le mode più recenti. Un cinema di mutanti, qualcuno ha sostenuto, nel senso che proprio l'evidenza fisica rimanda a qualcosa d'altro, ovvero all'angoscia di una caduta dell'identità. Married to the Mob non sottolinea questa doppiezza in modo inquietante come Qualcosa di travolgente, dove, dopo un prologo metropolitano, Melanie Griffith viene svestita dei suoi attributi di finta vamp, addirittura trasformata fisicamente, e il film subisce un vero salto di ambientazione e di modi narrativi. Non ci sono questa volta false partenze, perchè fin dall'inizio ci si muove sul terreno dell'artificio e nei limiti della commedia; tuttavia la paura della castrazione che assilla Tony, il boss, fino a fargli uccidere l'amico che gli ha insidiato l'amante, cioè la virilità, la sua stessa ansia di perdere il controllo su Angela De Marco da lui resa vedova, l'ossessione di vedere replicati negli uomini della scorta persino i suoi gusti gastronomici, lascia intendere un rovescio fatto di smarrimento del ruolo e di dissolvimento dell'immagine. Non è casuale che l'unico attentato alla vita di Tony venga realizzato da killer travestiti da clown, uomini dall'incerta definizione sessuale.

Lodovico Stefanoni, Cineforum n. 284 maggio

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