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Ferie di Licu (Le)


Regia:Moroni Vittorio

Cast e credits:
Soggetto: Vittorio Moroni; sceneggiatura: Vittorio Moroni, Marco Piccarreda; montaggio: Marco Piccarreda; fotografia: Vittorio Moroni, Marco Piccarreda, Habib Rahman; musiche: Mario Mariani; effetti Angelo Caruso, Luciano Marzulli, Massimo Salvato, Luciano Vittori; suono: Maura Del Pero, Stefano Grosso, Paolo Frati; interpreti: MD Moazzem Hossain (Licu), Fancy Khanam, Giulia Di Quilio (Giulia), Khokan Miah, Anwar Khan, Andrea Wu, Syed Mohammed Alì, Mirco Tagliaferro, Arianna Marinazzo, Abdel Karim, Delowar Hossain Khan, Alessia Corazza, Rosa Marina Cavallo, Jakir Hossain, Moseur Rahman, Mizanur Rahman, Mejbah Uddin, Mrinal Uddin, Marco Piccarreda, Saiful Islam, Tahmina Aktar Nisha, Tamannah Aktar Tisha, Adip Hossain, Rahima Bagam, Babul Taluk Dhar, Samsur Nahar Mina, Shupon Taluk Dhar, Binapa Aktar, Monira Aktar Lima, Mirja Hossain Tipu, Samsur Nahar Shilpe, Luftor Miah, Helena Akter, Md Nazrul Islam Khan, Morjena Bagam, Prince Khan, Dina Khanam, Sweet Khan, Malek Khan, Chelsea Hossain, Luciana Di Tommaso, Marzia Burla, Anuka Hossain, Osman Goni, Habib Sarkar; produzione: 50N, Rai Cinema; origine: Italia, 2006; durata: 93’

Trama:Il 27enne Licu è arrivato a Roma da sei anni e da poco ha ricevuto il permesso di soggiorno. Musulmano di origine bengalese, Licu vive in un appartamento che divide con altre otto persone, e lavora dodici ore al giorno dividendosi tra il magazzino di un laboratorio tessile e la cassa di un negozio di generi alimentari. Licu si è integrato piuttosto bene, ma per rispettare le usanze del suo Paese accetta di sposare la ragazza che sua madre ha scelto per lui. Licu parte così per il Bangladesh dove avrà luogo il matrimonio con Fancy, una ragazza di 18 anni che lui ha visto solo in fotografia. Dopo vari contrattempi e complicazioni, il matrimonio viene celebrato e i due novelli sposi tornano in Italia dove inizieranno il difficile cammino per imparare a conoscersi e, se possibile, amarsi.

Critica (1):Delle persone che diventano personaggi. Ignorando la macchina da presa e partecipando a un'azione in cui non recitano ma vivono: i loro casi, i loro problemi, nei loro ambienti. Un esperimento che avrebbe approvato Zavattini ai tempi del "suo" neoralismo. Vi fa ricorso oggi un documentarista, Vittorio Moroni, apprezzato tempo fa anche per un suo film di finzione, Tu devi essere il lupo, tenendosi però questa volta alla rappresentazione diretta del reale. Il Licu del titolo è un giovane bengalese, interpretato da sé stesso, nome e cognome compresi (MD Moazzes Hossain Licu) che, emigrato a Roma, vive onestamente facendo di giorno il magazziniere in un laboratorio di tessuti e la sera il cassiere in un negozio di alimentari. Un giorno dai suoi, rimasti in Bangladesh, riceve la foto di una ragazza che gli destinano in moglie. Non l'ha mai incontrata, ma l'uso è quello e parte subito per sposarla. Prima si imbatte in qualche difficoltà perché i familiari della ragazza - che si chiama Fancy Khanam, il suo vero nome - avanzano delle riserve pratiche che non hanno niente da vedere con i possibili sentimenti dei due promessi sposi, poi tutto si accomoda, le nozze si celebrano e Licu, che per quell'occasione, ha ottenuto solo un mese di ferie, torna subito a Roma con Fancy, attesa adesso non da una nuova vita, ma esattamente dalle stesse obbedienze prima ai genitori ora al marito e così segregata e isolata che non può nemmeno andare a studiare l'italiano dovendo uscire solo e sempre scortata da Licu. Anche se attorno, ormai, ha un mondo, delle abitudini, una cultura distanti anni luce da quelli in cui è stata allevata... Il ritratto dal vivo di queste distanze. Obiettivamente, senza osservazioni negative, senza polemiche, solo per mostrarle. E non, appunto, fatte mostrare da attori, ma da quelli stessi che le accettano, sorpresi lì, dal principio alla fine, nella loro quotidianità più autentica. Con colori dimessi a Roma, nelle case, nelle strade, con colori accesi in Bangladesh a livello di quei numerosi familiari della ragazza che non tardano a occupare le immagini, anche di primo piano, a scapito di quella Fancy destinata solo a obbedire; prima a loro, dopo al marito. Riuscendo però, nel finale, a far intuire che in quell'unione voluta da antiche consuetudini riuscirà a farsi comunque avanti anche l'amore. Come conseguenza naturale. Un cinema insolito, un documento, una cronaca. Merita attenzione.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 10/5/2007

Critica (2):Sono tre i protagonisti di Le ferie di Licu. Al centro del secondo film del trentaseienne Vittorio Moroni non c’è solo Licu (Md Moazzem Hossain, nella parte di se stesso. Accanto a lui c’è la sua Fancy (Fancy Khanam), colma di una bellezza quieta e aggraziata. E con loro c’è però anche la macchina da presa, che li ha seguiti per più di due anni (poi condensati in 93 minuti), in parte come occhio neutro e oggettivo, e in parte come presenza attiva, quasi come compagna di viaggio.
È Licu, per altro, il primo che ci si mostri. Lo fa con una naturale leggerezza che vince del tutto l’artificio del cinema (certo anche con l’aiuto dell’ottimo montaggio di Marco Piccarreda, che è anche cosceneggiatore). Non recita, Licu. Ma neppure sta nell’inquadratura come puro elemento del racconto. Fin dalla prima sequenza, il trentenne bengalese immigrato a Roma fa del film di Moroni il suo film. Mentre la vicenda si sviluppa, ci è difficile decidere dove termini la vita “reale” che il cinema documenta e dove, invece, inizi quella che il cinema influenza e in qualche modo inventa.
Moroni e i suoi collaboratori sono stati incuriositi, nel senso migliore, da Licu, e hanno deciso di osservarne la storia. D’altra parte, già solo per il fatto che la osservano, quella storia si modifica. La cinepresa s’aggiunge a quello che, in precedenza, capitava che Licu vivesse, giorno dopo giorno, e diventa anch’essa parte della sua quotidianità. Alla fine il documentario diventa un film vero e proprio: un racconto che senza il cinema non esisterebbe, e che tuttavia e per paradosso coincide con la vita “vera” del suo protagonista. Non c’è mai preoccupazione didascalica, in Le ferie di Licu. Non c’è niente che Moroni debba o pretenda dire dell’immigrato Licu. Davanti ai suoi occhi non c’è un immigrato, appunto, ma un individuo nella sua irripetibile ricchezza umana. Sono le sue emozioni che lo emozionano, e che perciò emozionano anche noi.
Quando il bengalese telefona al suo padrone, per chiedergli i due mesi di ferie necessari a tornare in patria e sposarsi, una prospettiva meno attenta alla singolarità, avrebbe messo in risalto soprattutto l’ingiustizia che sta dietro a questa richiesta. Licu non fa ferie da due anni, e il suo padrone comunque non gliele pagherà. Tutto questo in platea veniamo a sapere, ascoltando la telefonata. Ma lo veniamo a sapere come “accessorio” rispetto al fatto davvero importante. E il fatto davvero importante è l’entusiasmo di Licu, la sua decisione coraggiosa di partire in ogni caso. Moroni non fa prediche, nemmeno prediche che pure sarebbero sacrosante. Al contrario, si lascia incuriosire dal suo protagonista, prende parte della sua gioia, e alla fatica che quella gioia gli costa.
Quando poi Licu arriva in Bangladesh, tra i suoi, nel film entra direttamente Fancy. Già l’abbiamo vista in fotografia, è già ci sembra di avere imparato a conoscerla attraverso Licu, attraverso la sua gioia e la sua fatica. Perciò condividiamo il suo disappunto di fronte alle difficoltà sollevate dai parenti di lei. Insomma, Fancy è già protagonista, per lui come per noi. E lo è con la stessa leggerezza e la stessa naturalità di Licu.
Più timida, più giovane, ma ugualmente sorridente, anche lei non soffre l’artificio del cinema. E nemmeno lo soffrono le loro due famiglie.
Moroni ottiene una sorprendente vicinanza di osservazione, mantenendo un altrettanto sorprendente rispetto delle distanze. La macchina da presa non invade il mondo dei due giovani, ma sa raccontarcelo dall’interno. Si comporta come un invitato attento e rispettoso, e proprio questa sua discrezione curiosa ne fa il terzo protagonista del film. Non a caso, appena arrivato al suo villaggio, Licu si volge verso la macchina da presa e la presenta ai suoi. Loro mi accompagnano dall’Italia, dice pressappoco, indicando gli autori e la troupe (che restano celati ai nostri occhi). E bene ha fatto il montaggio a mantenere questa inquadratura breve. Non ricordiamo di aver visto un “disvelamento” dell’obbiettivo tanto spontaneo e tanto felicemente narrativo.
Tornato in Italia, il cinema accompagna i primi mesi della vita insieme di Licu e Fancy. La cerimonia è lontana, e solo ne resta un piccolo film girato da un “regista di matrimoni” bengalese. Per il resto, tutto è incerto e aperto al futuro: la preoccupazione molto maschile di lui, che immagina di dovere e di poter guidare la vita di lei, e la dolcezza piena d’attesa di lei, che lo attende in casa sbirciando il nuovo mondo da una finestra.
Tutto può accadere, appunto. E noi, con un cenno di rimpianto, ci sorprendiamo a pensare che nessuna macchina da presa ce lo racconterà.
Roberto Escobar, Il Sole 24 ore, 20/05/2007

Critica (3):Il tuo film nasce da un soggetto che era stato segnalato al premio Solinas...
A seguito di quel soggetto ho cominciato a lavorare alla sceneggiatura di questo film ma non mi sentivo in grado di farlo perché la sceneggiatura prevedeva dei personaggi bengalesi di cui non mi sembrava di conoscere a sufficienza il modo di essere, i loro sogni e le loro motivazioni. Ho pensato che il modo migliore per avvicinarmi al loro mondo fosse quello di fare un piccolo documentario. Quindi ho cercato di entrare nella comunità bengalese – che si trova nel quartiere romano di Torpignattara – e lì ho cercato di approfondire la mia conoscenza di quella realtà. Ho incontrato persone piuttosto disponibili con storie più o meno interessanti, fino a che ho conosciuto Licu che aveva una storia simile a quella del personaggio che volevo raccontare. In particolare mi piaceva in lui il fatto che avesse questa doppia anima: da una parte la voglia di diventare romano e dall’altra un attaccamento molto profondo alle proprie tradizioni, un rispetto molto forte per la sua famiglia. Così ho cominciato a girare un documentario su di lui, pensando ad una durata di mezz’ora, cercando di descrivere le sue condizioni sociali, il suo lavoro, le sue difficoltà ad arrivare alla fine del mese e delle persone con cui condivideva l’appartamento per riuscire a pagare l’affitto.

A te interessava soprattutto descrivere l’integrazione, lo scontro tra le tradizioni e le culture...
Sì, a me interessava capire come in lui e nei suoi amici avvenisse questa continua transizione, tra la voglia e la necessità di rimanere quello che erano – cioè ragazzi musulmani nati in Bangladesh e venuti in Italia – e il bisogno di fare i conti con l’ambiente in cui vivevano, cercando di capire cosa prendere e cosa lasciare. Questa era la cosa in fermento dentro di lui e che determinava situazioni diverse.

Hai mantenuto uno sguardo oggettivo, senza esprimere giudizi...
Questa era la mia intenzione, cioè cercare di omettere nel documentario un mio possibile giudizio preconcetto sulle cose, se le scelte del protagonista fossero giuste o sbagliate. Volevo mettermi in ascolto, poi naturalmente mettersi in ascolto non significa aspettare che nell’obiettivo della cinepresa entrino le situazioni.

Guardare gli altri per capire se stessi...
Loro sono i nostri vicini di casa, il loro modo di rapportarsi a noi determina il modo in cui noi ci rapportiamo a loro. Questo era evidente durante le riprese, avevo spesso la sensazione che Licu fosse così disponibile, permeabile allo sguardo della camera per reazione alla mia curiosità, creando così uno scambio tra di noi.

Il tuo film è in divenire, assistiamo all’evolversi della storia di Licu in tempo reale: quali sono stati i tempi del film?
Due anni e otto mesi. Abbiamo cominciato pensando di fare un documentario tutto sommato breve, poi all’arrivo della lettera con la foto della sposa scelta dalla famiglia, Licu ha deciso entusiasta di partire per il matrimonio e noi lo abbiamo seguito in questo viaggio. Lui ha accettato, anche perché in qualche modo noi gli eravamo utili: lui apparteneva a una classe sociale inferiore a quella della sposa e il fatto che lui fosse seguito nel viaggio dalla troupe di un film, significava che lui era integrato in Italia e che era un uomo di successo.

Dopo la prima parte del film, è sorprendente questa sua accettazione del matrimonio combinato...
La scelta di Licu di sposarsi in quel modo mi ha spiazzato, perché io pensavo che lui volesse trovare una fidanzata italiana. Invece ha accettato di sposare una ragazza bengalese anche senza conoscerla, una decisione presa da altri. Ecco che tornava in gioco il rispetto che aveva per la sua famiglia, il pensiero che loro fossero più bravi nel capire quale era il migliore destino per lui.

Il film parla anche di amore...
Parla di amore, segnato da un grande punto interrogativo. Io appartengo ad una generazione che è stata educata a pensare che l’amore sia una scelta libera, romantica, spontanea, per cui prima viene l’amore poi le scelte successive. In questo caso tutto era saltato perché tutto avveniva per scelta altrui e l’amore, se mai, sarebbe arrivato dopo, come una casualità a posteriori. Il film ha un finale che lascia le domande su questo aspetto in sospeso, senza una risposta certa sul come evolverà il rapporto tra i protagonisti.

Sui matrimoni combinati mi ricordo un film di Zampa (Bello, onesto emigrato in Australia sposerebbe compaesana illibata) con la Cardinale e Sordi...
Loro però avevano avuto un po’ di tempo per conoscersi, mentre Licu e Fancy solo 15 minuti...

Non credi che questa scelta estrema dei matrimoni combinati, sia anche un modo per rivendicare le proprie tradizioni, le proprie radici?
Sì, assolutamente, tanto è vero che questa tradizione apparteneva anche alla nostra cultura. In questo periodo stiamo facendo delle ricerche per i contributi extra del DVD del film e abbiamo condotto delle ricerche sui matrimoni combinati documentandone alcuni, in particolare la storia di una donna che ha sposato un uomo scelto dalla famiglia con il quale ha poi vissuto per il resto della vita. Alla fine di una proiezione, Licu ha risposto affermativamente ad uno spettatore che gli chiedeva se lui desiderasse che i suoi figli nascessero in Italia, ma non voleva per loro un matrimonio combinato. Da parte di Licu c’è la consapevolezza di essere parte di una transizione, di vivere una fase di passaggio. Ho la sensazione che questo film possa essere importante, non solo per i bengalesi che attualmente vivono in Italia ma per i loro figli. Se sarà possibile vedere questo film fra una decina di anni, sarà una memoria, un documento molto importante per i figli nati e cresciuti in Italia, quindi in un contesto simile a quello in cui sono cresciuto io. Potranno così vedere da dove sono venuti i loro genitori e attraverso quali esperienze e decisioni sono passati.

Licu e Fancy sembrano vittime di una cultura in cui vivono da sempre, che non riescono a giudicare dall’esterno...
Credo che il film sia già un contributo, perché vedendolo in mezzo al pubblico formato essenzialmente da persone fuori dal contesto della comunità bengalese, loro si sono confrontati con codici e valori diversi, ricevendo degli stimoli molto forti.

Il matrimonio trasforma il carattere di Licu che diventa diffidente e autoritario...
Credo che sia dovuto a due fattori. Il primo è la gelosia che deriva dall’insicurezza di Licu perché il matrimonio imposto dalla famiglia non gli garantisce i sentimenti di Fancy che non ha mai avuto la possibilità di esprimerli, e questo lo fa sentire minacciato dagli altri eventuali pretendenti. Poi per Licu è molto importante il giudizio della comunità bengalese in cui vive, di cui sente la pressione esercitata attraverso gli sguardi, le parole, e i consigli che gli arrivano nella vita quotidiana, che lui non può ignorare.

In questo senso il discorso del padrone bengalese del negozio di alimentari sui pericoli della libertà occidentale è emblematico…
Sì, direi che racchiude tutta l’essenza di quel pensiero.

Fancy vive la sua vita romana in una sorta di reclusione, guardando la vita che scorre fuori dalla finestra...
In realtà anche lei ha molti sogni e desideri, che comunica a Licu e vorrebbe vederli realizzati, ma è stata educata a una sorta di sottomissione. Dalla fine del film è passato un anno, alcune cose sono cambiate e lei è diventata più forte di quanto immaginassi, più provocatoria riuscendo ad ottenere delle cose.

Non hai avuto la tentazione di proseguire il racconto?
Un po’ sì, anche se cercherò di dissuadermi dal farlo. Ad un certo punto ho dovuto mettere la parola fine al film e mi sembrava che il momento scelto fosse quello giusto, in cui erano state segnalate le speranze dei protagonisti, e gli ostacoli che dovevano superare e che quindi si potesse restare nella sospensione dell’ultima scena nella pista di pattinaggio. È un racconto della realtà e potrebbe risultare insufficiente per capire quale direzione prenderà la loro vita, ma è necessario trovare un compromesso con il tempo.

Le speranze di Fancy vanno incontro a continue delusioni ma lei non appare rassegnata...
Sì anch’io l’ho pensato, e ne ho avuto conferma in seguito. Fancy non era affatto rassegnata anche se non reagiva nel modo in cui ci aspettiamo che possa reagire una ragazza italiana. Dentro di lei c’è un profondo desiderio di cambiare le cose.

È il ruolo a cui è stata preparata dalla sua famiglia, quello della moglie sottomessa...
Fin da piccola, era stata educata al pensiero che sarebbe stata data in sposa a qualcuno che non avrebbe avuto modo di frequentare prima del matrimonio. Uno sconosciuto verso cui lei avrebbe dovuto dimostrare rispetto e sottomissione.

Lei cerca di cambiare la sua situazione cercando di iscriversi ad una scuola per imparare l’italiano...
In lei ci sono molte aspettative, molta solitudine e il desiderio di migliorare la sua vita. Tra l’altro aveva già studiato l’italiano in Bangladesh in previsione del suo viaggio in Italia e voleva approfondire questa conoscenza.

Le scene di Fancy chiusa in casa, mi hanno ricordato il film 40 mq di Germania, del regista turco Tevfik Baser...
Io non l’ho visto ma mi viene citato spesso.

È la storia di una moglie turca reclusa in casa dal marito, con la scusa di volerla proteggere da una vita esterna piena di insidie...
Questo discorso viene fatto anche da Licu, che dice che Fancy è arrivata da poco, non conosce la lingua e non sarebbe protetta nella vita all’esterno.

I due protagonisti sono molto commoventi e il loro entusiasmo nei confronti delle situazioni è coinvolgente...
Sono stato molto fortunato a trovare loro come protagonisti, nel vero senso della parola. Io ho visto Fancy nello stesso momento in cui l’ha vista Licu per la prima volta, quindi dopo aver già girato la prima parte del film. In quel momento poteva succedere di tutto: Licu poteva decidere di non sposarsi, scegliere un’altra moglie, potevano succedere un’infinità di cose. Ho avuto il privilegio di poter riprendere il loro primo incontro ed è quello che Olmi chiama “il salto della lepre”, la fortuna di essere presenti nel momento in cui accade qualcosa di unico.

Nella prima parte del film si ha la sensazione di essere guidati da Giulia nella scoperta di Licu...
Giulia è un personaggio molto importante. Era un legame di Licu al di fuori della sua comunità, con lei aveva rapporti molto vivaci, segnati dall’ironia al di fuori del politicamente corretto. Mi piaceva che tra loro ci fosse questo rapporto libero e sono stato molto attento perché mi sembrava che fosse un modo diverso per guardare Licu. Poi mi interessava osservare il rapporto di Licu con una donna, un soggetto dallo sguardo diverso, che mette in risalto le contraddizioni di Licu, tra il precetto musulmano di non guardare le donne e i suoi sguardi verso Giulia.

Credi di aver influenzato le reazioni delle persone con la presenza della telecamera?
La macchina da presa condiziona un po’ le situazioni. Il film è stato tutto ripreso mentre le cose accadevano e solo alcune situazioni sono state ricostruite con loro. Nelle scene in cui eravamo presenti era sorprendente scoprire come la nostra presenza fosse dimenticata dalle persone soprattutto nella parte in Bangladesh. Forse la parte più difficile da questo punto di vista è quella in cui riprendevamo Fancy nella sua stanza perché eravamo dentro la sua solitudine, eravamo solo noi e lei. Abbiamo dovuto mettere in atto un processo molto lungo, fino quasi alla noia per la nostra presenza, in modo che l’abitudine portasse alla naturalezza, in modo che riaffiorassero le sue abitudini quotidiane.

Poi c’è la fase del montaggio...
In fase di montaggio si scelgono le scene, la loro durata e quello è il mio sguardo sulle cose. La realtà non è uniforme e quello che si vede nel film è la mia sintesi. Ho voluto fare le riprese in macchina scegliendo gli angoli di ripresa, la durata delle scene, spostando l’attenzione su particolari all’interno delle riprese, perché sentivo che il raccontare passava spesso attraverso gli sguardi dei protagonisti, da piccole reazioni che ho cercato di descrivere attraverso dei primi piani.

Hai dovuto montare anche il video del matrimonio...
Era un video girato dai parenti che durava più di due ore e che io ho ridotto a quattro minuti.

Qual è stata la reazione di Licu e Fancy alla visione del film?
Lo hanno visto la prima volta insieme a me in DVD e si sono riconosciuti. Pensavo ad una reazione diversa, perché ogni volta che ci vediamo rappresentati o ascoltiamo la nostra voce registrata, si ha una reazione di sorpresa, di non identificazione. Al contrartio la loro reazione è stata positiva, come se avessero visto la loro memoria resa più nitida e narrativa. Ognuno dei due ha scoperto delle cose che non sapeva dell’altro, cose che avvenivano dietro le quinte del matrimonio. Le difficoltà che il film descrive nell’ultima parte sono situazioni di cui i protagonisti erano coscienti e sono state vissute senza forzature, come il passaggio di un percorso di crescita.

Nel tuo film hai usato unicamente fonti di luce naturale...
Sì, anche nei casi estremi ho usato luce naturale. L’idea era quella di essere il meno ingombranti possibile e di essere sempre presenti alle riprese in pochi minuti, nel momento in cui ci fosse qualcosa di importante da documentare. Io abitavo non lontano da Licu ed ero in contatto con lui. Capitava di dover fare delle riprese nel giro di mezz’ora e l’avere poche apparecchiature da preparare era determinante, con la parte fonica e video sempre pronte.

Hai scelto una musica molto particolare...
Ho grosse difficoltà a lavorare con la musica perché non ho una conoscenza tecnica della musica, della sua parte compositiva. Io lavoro con Mario Mariani con il quale mi trovo bene, anche grazie alla sua pazienza e al suo approccio sperimentale alla musica, che mi consente di avere molti suggerimenti sulla musica da scegliere. In questo film anche il montatore Marco Piccaredda ha dato il suo contributo. Quello che volevo era una musica minimale per evitare quelle musiche che ti estorcono i sentimenti, che te li indirizzano.

La produzione e la distribuzione del film meritano un discorso a parte...
La distribuzione del mio primo film era stata molto avventurosa, perché avevamo fondato la Myself, una associazione culturale, che distribuiva il film. La distribuzione funzionò creando un po’ di subbuglio nel paludato mondo distributivo italiano e fummo addirittura studiati da tre tesi di laurea. Stiamo riproponendo la stessa formula di autoproduzione per questo film, in cui le persone che vi hanno lavorato sono entrate a far parte della 50M e detengono delle quote produttive del film. Attraverso le prevendite dei biglietti ci siamo garantiti un pubblico per la tenitura nelle sale, poi il passaparola ha fatto in modo che il film uscisse in sette città.

Poi partirà il “Licu Tour”...
Questa è una novità rispetto al precedente film. Alla fine della tenitura nelle sale, ritorneremo alle origini del cinema, girando l’Italia a bordo di un pulmino con il film a bordo, fermandoci nelle città e proiettando il film nei cineforum, scuole e associazioni culturali. Accompagnando il film in questa tournee incontreremo il pubblico delle piccole città che normalmente non ha la possibilità di vedere questi film.
(Intervista realizzata da Mauro Donadelli il 16/05/07, dal catalogo "Accadde domani 2007", Comune di ReggioEmilia - Ufficio Cinema)

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