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In nome del popolo italiano


Regia:Risi Dino

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Age e Scarpelli; fotografia: Sandro D'Eva; musiche: Carlo Rustichelli - le musiche sono dirette dall'autore e da Gianfranco Plenizio - la canzone "Non dovrei" di Phersu e Rizzati è cantata da Franco Morselli; montaggio: Alberto Gallitti; scenografia: Luigi Scaccianoce; arredamento: Bruno Cesari; costumi: Enrico Sabbatini; interpreti: Ugo Tognazzi (Giudice Mariano Bonifazi), Vittorio Gassman (Lorenzo Santenocito), Yvonne Furneaux (Lavinia Santenocito), Michele Cimarosa (Maresciallo Casciatelli), Ely De Galleani (Silvana Lazzorini), Pietro Tordi (Prof. Rivaroli), Simonetta Stefanelli ('Giugi' Santenocito), Franco Angrisano (Colombo), Renato Baldini (rag. Cerioni), Pietro Nuti (avvocato di Santenocito), Checco Durante (Pieronti, l'archivista), Maria Teresa Albani (Signora Lazzorini), Enrico Ragusa (Riziero Santenocito, il padre), Edda Ferronao (cameriera di Santenocito), Franca Scagnetti (la portinaia), Vanni Castellani (Sirio), Franca Ridolfi (Doris, l'attrice), Gianfilippo Carcano (Signor Lazzorini), Giò Stajano (Floriano Roncherini), Paolo Paoloni (primario della clinica psichiatrica); produzione: International Apollo Film; distribuzione: Cineteca Nazionale; origine: Italia, 1971; durata: 103’.

Trama:Indagando sulla morte di una giovane tossicomane, Silvana, avvenuta in circostanze che fanno pensare a un delitto, il giudice istruttore Bonifazi scopre che nella sua fine può in qualche modo essere implicato l'industriale Lorenzo Santenocito, un ricco e spregiudicato speculatore edile che, sotto l'etichetta delle "pubbliche relazioni" si serviva di Silvana per intrattenere i suoi clienti altolocati. Dopo aver cercato di bloccare sia con le minacce che con le lusinghe l'inchiesta di Bonifazi e dopo aver fatto rinchiudere in manicomio il vecchio padre, che non si è voluto prestare a inventargli un alibi per la sera della morte di Silvana, l'industriale riesce finalmente a procurarsi una falsa testimonianza, che dovrebbe scagionarlo definitivamente. Bonifazi però lo smaschera e soltanto in una calda giornata estiva, in una Roma impazzita per la vittoria dell'Italia sull'Inghilterra, scoprirà la verità. Forse i veri colpevoli sono il 'sistema' e la società e anche l'integerrimo giudice dovrà chinare la testa...

Critica (1):Da una parte un magistrato probo, integerrimo, ostinatamente teso a imporre il rispetto della legge ovunque e comunque, facendo piazza pulita di quanti la trasgrediscono; e facendolo, a volte, anche con un briciolo di polemica sociale, forse persino un po’ politica; dall’altra un industriale alla moda, arrivato, protetto, uso a sfiorare il Codice penale, ma uso anche a cavansi sempre d’impaccio grazie ad avvocati di grido ed anche ad amicizie potenti. L’industriale, un giorno, si trova, senza colpa reale, immischiato nella morte di una squillo di lusso che a lui era soprattutto servita per rallegrare e addolcire i suoi soci in affari; vorrebbe togliersi subito da quell’intrico, ma, di fronte a lui, contro di lui, si erge adesso il magistrato che, sospettando a torto della sua colpevolezza, ma, soprattutto, considerandolo, in generale, un vero e proprio nemico pubblico da abbattere, non gli dà più tregua, lo tallona, lo perseguita, per far finalmente giustizia di lui e di tutto quello che ai suoi occhi egli rappresenta; fino al momento in cui, pur avendo raggiunto le prove della sua innocenza, volutamente le ignora: per poterlo condannare, distruggere.
Una storia dura che Dino Risi, sulla scorta di una sceneggiatura di Age e Scarpelli ha però cercato di vestire anche di toni discorsivi, né troppo accigliati, né troppo superficiali. Rivelando in taluni momenti certe contraddizioni (il personaggio dell’industriale, ad esempio, proposto all’inizio come “antipatico” finisce, a poco a poco, per diventare simpatico quando si trasforma in una vittima), non trovando in altri momenti tutte le giustificazioni necessarie per la logica interna dei personaggi (il magistrato infatti decide di agire ingiustamente dopo una specie di balletto-apologo in cui il suo antagonista non vien presentato come quel pericolo sociale che dovrebbe essere, ma come uno dei tanti esponenti, agitati ma innocui, di una folla sportiva domenicale); riuscendo in genere, però, a dar vita, con efficacia, a un interessante scontro di caratteri, disegnati, e l’uno e l’altro, con garbo, con pazienza, a volte persino con finezza; con l’analisi non frettolosa anche dei personaggi secondari e con un gusto preciso, e serio-faceto, dell’ambientazione. Felicissime, in questo senso, le pagine dedicate, anche simbolicamente, alla fatiscenza del Palazzo di Giustizia romano e al coloratissimo mondo di uscieri, di imputati, di testimoni e di avvocaticchi che lo popola. Certo, da una vicenda in cui, ancora una volta, si prospetta il tema tanto grave della crisi della giustizia, ci si poteva attendere anche qualcosa di più, soprattutto nell’ambito di posizioni meno contraddittorie ed ambigue, il film, comunque, anche là dove l’ironia e la commedia leggera sostituiscono all’impegno un’allegria solo immediata, dà prova egualmente di serietà e di solidità; può accoglierlo ed aderirvi, così, anche il pubblico esigente.
I due avversari, al suo centro, sono Ugo Tognazzi nel riserbo, nell’asciuttezza, nei risentimenti spesso umorali del magistrato (esatto, interiore, tormentato fin quasi al trauma, al complesso) e Vittorio Gassman in uno dei suoi personaggi abituali dal Sorpasso in poi, abilissimo, penò, nel trasformare a poco a poco l’euforica tracotanza del vincitore a tutti i costi, nelle ansie, nelle esitazioni, nei timori di quello che, invece, sente via via franargli il terreno sotto ai piedi.
Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 19/12/1971

Critica (2):Quanti delitti si compiono in nome del popolo italiano? Un altro ancora, ma se vogliamo a fin di bene, è commesso proprio da un integerrimo giudice istruttore romano, Mariano Bonifazi, nel film scritto da Age e Scarpelli, e diretto da Dino Risi, che merita di essere visto per la serietà dell’assunto, nonostante l’arguta facciata, e la vivacità dello stile. Per non sciupare la sorpresa finale, non diremo come e perché l’inflessibile magistrato passi dalla ragione al torto; l’avvio e l’intreccio sono bastanti a tener desta la curiosità ove si pensi che il nostro Bonifazi, indagando sulla morte di una ragazza, scopre che era una squillo di alto bordo, e ha motivo di rivolgere tutti i sospetti su un ricco industriale che se ne serviva per le sue «relazioni pubbliche». L’uomo, infatti, ci è dipinto come una carogna della più bell’acqua: fascistoide, trafficone e arrogante, è nella vita pubblica e privata (arriva a far rinchiudere suo padre in manicomio perché non deponga contro di lui) l’esempio vivente della mascalzonaggine: nessuno si stupirebbe se fosse anche un’ assassino. Su quest’ipotesi, cui l’animosità del giudice porta continue conferme, si snoda l’inchiesta che si conclude con il rinvio a giudizio del principale indiziato e dei suoi complici. Alla fine solo lo spettatore viene a sapere che essa avrebbe potuto e dovuto avere un esito diverso. La giustizia farà il suo corso, e non è detto che, seppure ha sbagliato tragitto, abbia mancato il bersaglio.
In nome del popolo italiano è, sotto la maschera del «giallo brillante», un film che riecheggiando attraverso le citazioni di un usciere romanesco il mondo di G.G. Belli, si affianca con accenti personali ad altri prodotti del nostro ultimo cinema intesi all’amara analisi d’una realtà sociale dominata dall’ipocrisia e dalla diffidenza. Alla denuncia, un po' convenzionale, dell’imprenditore che specula, inquina e corrompe, qui si aggiunge infatti quella degli umori d’una magistratura che sopperisce con la volontà politica, ma non sai mai quanto faziosa, alla sfiducia nell’autorità della legge. Fedele ai modi della commedia grottesca, Risi non giunge ad offrirci un vero e proprio confronto tra potere e ideologia, ma lo suggerisce tra le righe, in modo sufficiente a dire la novità del film è a restituirci, soprattutto nel felliniano finale, l’atmosfera confusa e minacciosa che ci ha tutti alienati.
Oltre a ciò, In nome del popolo italiano si raccomanda per la spigliata fattura (benché qualche colpo di forbici gli ci vorrebbe) e per la cura messa nei contrapposti ritratti dei due protagonisti:l’uno, affidato ad un Vittorio Gassmann in gran vena, tutto inciso in alto rilievo, con quello spassoso ricorso a difficili parole di moda; l’altro su toni obliqui e sfumati manovrato da Ugo Tognazzi con ammirevole sobrietà. Le musiche di Rustichelli, la presenza Yvonne Fourneaux, la fotografia e una anche troppo folta galleria di macchiette dialettali procurano al film i consensi del pubblico largo.
Il Corriere della Sera, 22/12/71

Critica (3):(...) Il tema è quello dell'amministrazione della giustizia e può riassumersi in ciò che Bonifazi dice ad un certo punto di se stesso, qualificandosi come « difensore di leggi che proteggono una società che fa schifo». Va, cioè, al di là della semplice critica di carattere socialdemocratico alle disfunzioni del sistema giudiziario, né si ferma alla denuncia dell'astratta divisione di poteri su cui dovrebbe basarsi il sistema democratico-parlamentare e che invece lascia largamente posto alle prevaricazioni del potere politico-economico. Santenocito può prendersi gioco delle leggi non tanto o non solo perché è ricco e perché conta su influenti amicizie, quanto e soprattutto perché le leggi stesse sono fatte per conservare l'«ordine» di cui egli è uno dei più tipici esponenti.
Che gente come lui, in altre parole, riesca normalmente ad evitar di fare i conti con la giustizia, non è un fatto patologico, ma fisiologico (naturale, regolare), in quanto quella che si chiama giustizia è in realtà pura e semplice difesa dell'ordine costituito, esercizio degli strumenti «legali» che il potere s'è dato per conservare se stesso e per mantenere la società così com'è. Il dramma di Bonifazi è appunto quello del magistrato che si rende conto d'essere addetto a tale funzione e che è quindi costretto a rinnegare se stesso (il proprio ruolo, la propria etica professionale), diventando «ingiusto» per poter fare giustizia nel senso autentico e non formalistico dell'espressione. In questo senso, il film è più radicale di quanto non sembri e allarga opportunamente il discorso dall'amministrazione della giustizia all'intero sistema di cui questa è espressione: un sistema che, essendo fondato sulla legge del profitto, non può avere altro che codici, e strumenti di applicazione dei medesimi, coerenti con quella matrice di fondo. Niente di più naturale, quindi, che veri e propri crimini come gli inquinamenti, la distruzione dell'ambiente naturale, lo sfruttamento della prostituzione, il furto pianificato in termini di evasione fiscale, la repressione psichiatrica e, per uscire dal film, gli omicidi bianchi, rimangano impuniti, in quanto sostanzialmente giustificati dalla loro rispondenza alla logica del profitto ed anche formalmente legittimati, dietro i veli ipocriti di una teorica punibilità, dall'infinita serie delle scappatoie offerte a chi abbia soldi a sufficienza per mantenersi degli avvocati in pianta stabile. Ed è altrettanto naturale, al contrario, che le leggi si rivelino rigorosissime e le procedure diventino di un implacabile dinamismo, quando ci sono di mezzo reati che colpiscono il sacro diritto di proprietà (i famosi «furti aggravati» di tre arance o di un paio di calzini) od azioni che si configurino in qualche modo come una minaccia alla stabilità del sistema (dallo sciopero e dal picchettaggio al vilipendio delle istituzioni ed alle notizie che diventano tendenziose se differiscono dalle versioni ufficiali).
È evidente, insomma, che dalle contraddizioni in cui si dibatte il pretore Bonifazi emerge un problema che non è giuridico, ma politico, in quanto risale dai giudici ai legislatori per arrivare al potere come tale, nei termini strutturali e ideologici in cui si pone attualmente nel nostro paese: per arrivare, in una parola, al capitalismo quale responsabile di un certo tipo di « giustizia» come di ogni altro intervento istituzionale che possa apparire deviante o abnorme rispetto all'etichetta « democratica » appiccicata su questa società, ma che in effetti è perfettamente consequenziale al carattere classista delle istituzioni stesse. (...)
Ciò non toglie che tali suggerimenti vi siano e possano essere rafforzati attraverso il dibattito sul film, anche perché Risi ha avuto il merito di non sommergerli entro gli ammiccamenti consueti della commedia all'italiana (particolarmente significativa, a questo riguardo, la misura che è riuscito una volta tanto ad imporre a Vittorio Gassman, contrapponendolo ad Ugo Tognazzi, per suo conto misuratissimo ed efficace com'è d'abitudine, in modo tale da attenuare l'inevitabile e deviante effettismo dello scontro fra « buono» e «cattivo») e di organizzare con notevole equilibrio i molti spunti offertigli dalla solida sceneggiatura di Age e Scarpelli.
Due dati, in particolare, emergono da una lettura che non si fermi agli aspetti semplicemente «appassionanti » della partita aperta fra Bonifazi e Santenocito. Il primo deriva dalla struttura narrativa del film, che, pur rispettando in apparenza gli schemi del «giallo» (l'indagine, le incertezze sulla vera fine della ragazza, il coinvolgimento dello spettatore nel lavoro di raccolta e di verifica degli indizi e delle prove, ecc.), gioca solo in minima parte sugli interrogativi tipici del genere circa la colpevolezza o meno del maggior indiziato per quanto riguarda il caso in esame, volgendo invece maggiormente l'attenzione sulle sue già scoperte responsabilità in altri campi. Più che di un'indagine, cioè, si tratta di un processo in cui l'imputato è già noto in partenza e ad essere in discussione sono i capi d'accusa. E questi portano al di là dello stesso Santenocito, chiamando in causa tutto il sistema che rende possibile l'esistenza di simili personaggi e, più ancora, che ne difende le prevaricazioni. Un processo, quindi, che investe l'amministrazione della giustizia e, più in generale, il funzionamento classista delle istituzioni in una società di classe, come s'è osservato in precedenza.
Il secondo dato esce dalla psicologia del protagonista, utilizzata per smantellare il mito della « neutralità » della magistratura. Bonifazi è consapevole di non poter essere neutrale, rifiuta di esserlo perché sa che si tratterebbe di una finzione destinata ad assicurare l'impunità a Santenocito. Con ciò stesso, paradossalmente, risulta meritevole delle reprimende lanciate dal procuratore Guarnera e da altri come lui, nei discorsi d'inaugurazione dell'anno giudiziario, contro i magistrati che «fanno politica». Il film corre, a questo riguardo, sul filo del rasoio, perché il carattere «vendicativo » che prende in certa misura la decisione finale di Bonifazi può sembrare adatto a dar ragione ai predicatori di cui sopra. Un più ampio e approfondito sviluppo degli argomenti con cui Bonifazi ribatte al Guarnera della vicenda sarebbe indubbiamente servito a chiarire meglio il fatto che tutti i magistrati fanno politica, a cominciare da quelli che si dichiarano apolitici. Siamo ad uno di quei discorsi lasciati a mezzo di cui si diceva all'inizio, per la difficoltà di uscire dallo schema spettacolare della sfida a due dando maggior peso ad altri personaggi. Ciò non toglie che, comunque si giudichi il comportamento di Bonifazi e qualunque sia la sensazione derivantene, esso sta a dimostrare una cosa: che nell'applicazione delle leggi c'è sempre un margine di discrezionalità, in cui il magistrato si muove in base alla sua visione del mondo e della società, ai suoi convincimenti circa il fine delle leggi stesse, al suo giudizio sull'«ordine» che le leggi debbono salvaguardare, in una parola alle sue valutazioni politiche. E la cosa non contraddice la parallela affermazione di principio circa il fatto che le leggi sono di per sè volte a «proteggere una società che fa schifo»: è chiaro, infatti, che tale inevitabile finalizzazione, benché più forte della volontà del singolo magistrato e del suo orientamento soggettivo a favore di una giustizia autentica, può essere tradotta in pratica con maggiore o minor entusiasmo, diciamo. Fino al punto che certe leggi possono essere lasciate nel dimenticatoio per anni o addirittura per decenni, ma anche rispolverate di punto in bianco, come è accaduto per tutta una serie di articoli fascisti e perfino borbonici dei nostro codice, rimessi in auge non appena la conflittualità sociale è apparsa difficilmente contenibile con altri mezzi. Il discorso sul carattere classista della «giustizia» si salda quindi a quello sul classismo congenito di chi deve applicarla, con tutte le contraddizioni e le eccezioni (i Bonifazi, i membri di determinate correnti della magistratura) magari anche numerose che questo comporta, ma con una chiara e definitiva smentita alla tesi della «neutralità» e dell'«apoliticità».
Sandro Zambetti, Cineforum n. 110-111, 1-2/1972

Critica (4):
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