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Venerabile W. (Il) - Vénérable W. (Le )


Regia:Schroeder Barbet

Cast e credits:
Sceneggiatura: Barbet Schroeder; fotografia: Victoria Clay; montaggio: Nelly Quettier; produzione: Les Films Du Losange, Bande A Part, in coproduzione con Arte France Cinéma, Rts-Radio Télévision Suisse, Srg Ssr; distribuzione: Satine Film; origine: Francia-Svizzera, 2017); durata: 100’.

Trama:In Birmania, il "Venerabile Wirathu" è un monaco buddista influente e rispettato. Tuttavia, quando lo si incontra si ha la sensazione di essere immersi nel cuore del razzismo, osservando come l'islamofobia e i discorsi basati sull'odio si trasformano in violenza e distruzione. Eppure ci si trova in un paese dove il 90% della popolazione è di religione buddista, un credo fondato su uno stile di vita pacifico, tollerante e non violento.

Critica (1):Potrebbe essere il protagonista di un suo film di finzione, il volto del monaco buddista Wirathu come quello di Jeremy Irons in Il mistero von Bulow o della coinquilina maniaca interpretata da Jennifer Jason Leigh in Inserzione pericolosa. Quali storie si nascondono dietro ogni volto? E soprattutto, quali atti criminali ci possono essere collegati? Sì, Le vénérable W. potrebbe essere considerato parte di una trilogia sul Male iniziata nel 1974 da Idi Amin Dada e proseguita nel 2007 con L'avvocato del terrore. Ma stavolta il documentario di Barbet Schroeder oltrepassa la mente del protagonista e lo allarga, come un'ombra inquietante, su tutto il Paese. Per chi non conoscesse la sua storia, l'inizio potrebbe apparire anche ingannevole. Wirathu viene filmato mentre parla, quasi nella sua indifferente oggettività. Però si scava proprio oltre quel volto, come se fosse un thriller.
Dall'aspetto apparentemente mite, come pacifica appare la fede di cui è influente predicatore. Poi, la sua storia personale (dall'arresto nel 2003 fino a quando viene rilasciato) si incrocia con l'odio fomentato dagli adepti della sua religione contro le minoranze musulmane. Sccorrono le immagini di case bruciate, foto di massacri. II profilo documentaristico progressivamente si sfalda, sulle immagini dell'archivio e dei video sui cellulari. E, accanto alla voce off di Bulle Ogier con cui Schroeder cerca di mantenere l'imparzialità nel racconto, gli cresce il demone sotto le sue immagini. Innanzitutto Wirathu appare un mutante, quasi come una creatura da film horror. Il cineasta non ha più bisogno di creare una "giusta distanza", perché Le vénérable W. finisce per essere sovrastato dal ritmo del montaggio dei propri documenti. Incalzante, ossessivo nel mostrare l'ondata di violenza e distruzione di un genocidio di massa, con la velocità impazzita di uno dei suoi film statunitensi più sottovalutati, Prima e dopo. La difesa della famiglia, la difesa della comunità della religione buddista, a ogni costo, con ogni mezzo, con immagini anche rubate, filmate in condizioni proibitive., che annegano progressivamente il documentario come in una zona sempre più oscura dove non c'è via d'uscita.
Ma c'è anche un altro aspetto, profondamente inquietante, che Schroeder mette in atto in Le vénérable W., il modo in cui l'immagine di Wirathu sembra moltiplicarsi. Uno degli aspetti più riconoscibili dei documentari di Schroeder (ma anche di suoi molti film di finzione) è che sono formati da un doppio livello. II primo più razionale (la vita del personaggio e il contesto storico e ambientale in cui agisce), il secondo più irrazionale, profondamente onirico. Proprio per questo si ha l'impressione di vedere, come in un'ipnosi, il volto di Wirathu in dissolvenza sulle immagini delle violenze dei buddisti sui musulmani. Non solo: il metodo del racconto, soprattutto nella parte conclusiva, segue la linea di quelli della narrazione dei regimi dittatoriali, con una metamorfosi del personaggio chesembra anche fisica. Sembra cambiare l'espressione degli occhi, sembra cambiare anche la sua voce. E si diffonde, attraverso i dvd, i social, e la copertina di «Time», quasi un doppio, e al tempo stesso contrario, dell'intervista iniziale. C'è sempre la sua immagine; ma, dietro, tutto è profondamente cambiato.
Simone Emiliani, Cineforum n. 566, luglio 2017.

Critica (2):“Nella mia vita ho perso progressivamente tutte le mie convinzioni politiche e religiose. L’ultima è che il buddismo è una religione come tutte le altre e contiene in sé anche il male”.

Parola del regista francese Barbet Schroeder che oggi ha presentato il suo film Il venerabile W. (Wirathu) su un monaco buddhista altamente influente in Birmania che ha incitato i suoi seguaci all’islamofobia conducendoli verso l’odio e la distruzione.
“L’idea di questo film nasce da lontano – spiega il regista -. Due anni fa rilessi The Historical Buddha di Schumann e poi mi trovai di fronte a un rapporto della Yale University Law School che richiedeva pubblicamente l’intervento delle Nazioni Unite in Myanmar. Vi erano elencati tutti segnali che lasciavano presupporre nel Paese l’inizio di un genocidio contro la minoranza musulmana dei Rohingya e si sottolineava il ruolo svolto da un movimento buddhista estremista. Volevo saperne di più: mi recai a Mandalay, la città più buddhista del mondo, e lì incontrai Wirathu e gli proposi questa avventura”.
Come è riuscito a coinvolgerlo? “Lo incontrai poco prima delle elezioni in Francia e gli dissi che Marine Le Pen condivideva molte delle sue idee e che probabilmente avrebbe fatto applicare delle leggi molto simili a quelle che lui era riuscito a far votare in Birmania. Volevo parlare dei problemi dell’Occidente avvicinandomi a un personaggio per il quale il buddhismo era intriso di nazionalismi e populismi. Non volevo esprimere un giudizio, ma alla fine è venuta fuori la verità”.
“Il venerabile Wirathu” è una contraddizione in termini: un buddhista che predica l’odio. In generale le religioni predicano la pace. C’è anche però chi le usa per veicolare parole d’odio che dopo un periodo di incubazione possono portare alla violenza e alla discriminazione. Come è successo in Birmania, dove sono riusciti ad annientare quasi la metà di questa piccola minoranza, costringendo più di 700mila persone ad andarsene, di cui tanti a rifugiarsi nel vicino Bangladesh.
Ma dietro questi incendi, arresti, torture, stupri di massa, esecuzioni e dietro tutte queste persecuzioni che hanno privato i Rohingya della nazionalità birmana e dei propri diritti costringendoli a scappare c’è qualcun’altro oltre al “Venerabile Wirathu”?
“Nel film c’è un’intervista al giornalista spagnolo Carlos Sardina Galache, che da anni segue da vicino l’attualità birmana. Lui fa capire che ci sono soldi che provengono da persone vicine alla dittatura militare. D’altronde nei monasteri si possono fare donazioni anonime. Ho cercato delle prove concrete su questa connivenza con i militari, ma purtroppo non sono riuscito a trovarle. Inoltre non penso che i militari stiano preparando dei campi per rimpatriare i Rohingya e non credo neanche che i Rohingya tornerebbero in Birmania se non protetti dalle Nazioni Unite”.
Una figura importante in Birmania è ovviamente quella di Aung San Suu Kyi, attiva da anni nella difesa dei diritti umani sulla scena nazionale del suo Paese, oppresso da una rigida dittatura militare, una politica che si è imposta come capo del movimento non-violento, tanto che nel 1990 le è stato assegnato il Premio Nobel per la pace.
“Aung San Suu Kyi ha fatto una sorta di patto con i militari accettando che andassero al potere e che fossero presenti alla Camera e nei ministeri. Non si è mai interessata alla minoranza musulmana dei Rohingya e, visto la posizione che occupa, avrebbe dovuto quantomeno farsi delle domande. Sul suo sito si parla di fake news rispetto agli stupri commessi dai militari e scrive che sono i musulmani ad appiccare il fuoco nelle città. Il suo comportamento non è corretto, è abietto. Si è servita della sua leggenda ed è riuscita a manipolare il Papa e Kofi Annan. Parla tanto per non dire nulla, ma prima o poi dovrà rispondere di questa sua condotta di fronte a un tribunale”, dice il regista. (...)
Giulia Lucchini, cinematografo.it, 15/3/2019

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