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Lacrime amare di Petra Von Kant (Le) - Bitteren Tränen der Petra Von Kant (Die)


Regia:Fassbinder Rainer Werner

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura
: Rainer Werner Fassbinder, dal suo dramma omonimo; fotografia: Michael Ballhaus; musiche: The Platters, The Walker Brothers, Giuseppe Verdi; montaggio: Thea Eymèsz; scenografia: Kurt Raab; costumi: Maja Lemcke; interpreti: Margit Carstensen (Petra Von Kant), Hanna Schygulla (Karin Thimm), Katrin Schaake (Sidonie von Grasenabb), Eva Mattes (Gabriele von Kant), Gisela Fackeldey (Valerie von Kant), Irm Hermann (Marlene); produzione: Tango Film - Filmverlag der Autoren; origine: Germania Occidentale, 1972; durata: 124'.

Trama:Separata dal marito, madre di una figlia adolescente, Petra disegnatrice di moda affascinante e intelligente vive con Marlene, factotum onnipresente e asservita. Quando incontra Karin, di estrazione proletaria, se ne innamora follemente, ma sei mesi dopo ne viene abbandonata. La lascia anche la devota Marlene.

Critica (1):Le lacrime amare di Petra von Kant è, nella sterminata filmografia fassbinderiana, il dodicesimo lungometraggio. È, soprattutto, il secondo film realizzato dal regista tedesco dopo la sua scoperta di Douglas Sirk e il conseguente avvio del "periodo dei melodrammi". Petra von Kant è il curioso contraltare del primo melodramma, realizzato l'anno precedente: Der Haendler der vier Jahreszeiten (Il mercante delle quattro stagioni), un film per molti versi complementare. In Il mercante il protagonista era un uomo, un piccolo - borghese che si muoveva in un ambiente sostanzialmente proletario. In Petra von Kant il personaggio principale è una donna, ricca e aristocratica che, anche se non abbandona mai la propria stanza, ha rapporti con Madrid, Miami, Parigi.
È perciò evidente fin dall'inizio una delle caratteristiche della poetica fassbinderiana: l'alternanza dei suburbi proletari con i milieu esclusivi dell'alta borghesia, dei fruttivendoli con le disegnatrici di moda - e l'alternanza di archetipi maschili e femminili. Lo sguardo del regista non è mai parziale, ma costantemente obiettivo, illuminando di volta in volta situazioni individuali che si iscrivono in una costellazione più generale: il disegno dei rapporti tra individuo e società (tra individuo e individuo) nella Germania degli anni settanta.
È pur vero che Petra von Kant rimane comunque un film di donne. Anzi, se uno dei numi tutelari del film è sicuramente Sirk, l'altro è senza dubbio Mankiewicz, capricciosamente citato da Fassbinder all'inizio del film come l'indirizzario di una delle lettere spedite da Petra (una lettera che parla di debiti!). Ma non è certo con le citazioni che Fassbinder ha costruito il suo cinema. In Petra von Kant egli tenta piuttosto di saldare ciò che ha imparato (un termine che lui stesso impiegava per spiegare i suoi rapporti con Sirk) dalla grande lezione hollywoodiana con le atmosfere e gli stilemi della serie dei film girati con l'Antiteater tra il 1969 e il 1970, Katzelmacher e Liebe ist kaelter als der Tod (L'amore è più freddo della morte) in particolare. Partito da una critica "europea" al cinema americano (critica che si trasformava inevitabilmente in un elegante ma glaciale metacinema), Fassbinder capisce che deve rivitalizzare i suoi film con il sentimento. Non ha paura di riconoscere che ciò che mancava al primo periodo della sua attività di autore era "l'ingenuità" (un altro termine da lui stesso rivendicato). Allora la claustrofobia intellettuale dei suoi primi film si dispiega nei toni enfatici del melodramma sentimentale. Fassbinder non mira più solo alla testa, ma anche al cuore. A partire dal 1971-72 egli trova la formula per rivolgersi a un pubblico variegato, dagli addetti ai lavori allo spettatore "medio". II che fa la differenza fondamentale tra una operazione come la sua e quella di un regista solamente intellettuale come Werner Schroeter. Fassbinder diventa "popolare", proprio come i grandi directors americani da lui amati; nondimeno il suo rimane un cinema "secondario", stilizzato, ma solo perchè - a differenza della "calda" società americana - la realtà stessa che si riflette nei suoi film è fredda e imitativa. È la realtà della società occidentale in generale, e quella della colonizzazione tedesca in particolare.
Così in Petra von Kant i personaggi sono tanto più credibili quanto più fingono di essere diversi da quello che sono; questo perché nella stessa vita vera le persone tendono a comportarsi come in un film. La via della verità (non necessariamente del realismo) passa attraverso l'artificio. E se nella colonna sonora la grande tradizione europea è presente con una romanza di Verdi, i dischi preferiti da Petra sono quelli dei Platters e dei Walker Brothers. Il melodramma artistico-popolare dell'Ottocento si incontra con il sentimentalismo dei 45 giri. Se la cifra di un simile incrocio culturale non può che essere il camp più sfrenato, la sostanza dell'operazione è disperatamente vitale e moderna. E personalmente confesserò che una seconda visione di Petra von Kant a distanza di tempo non fa emergere tanto un "discorso", quanto la forza tragica del pervertito amore di Petra e l'ineluttabilità dolorosa della solitudine. Quando nell'ultima inquadratura il buio si stende su Petra distesa nel letto e abbandonata da tutti, non si può non pensare alla desolata condizione in cui Fassbinder stesso ha finito i suoi giorni. E capiamo quanto la sua testimonianza di autore fosse intrisa di esperienza personale. Richiesto una volta se il nome della protagonista adombrasse qualche riferimento al famoso filosofo, Fassbinder rispose che, scrivendo la pièce su cui il film si basa, pensava piuttosto a Hegel. È infatti evidente che Petra von Kant è lo studio del funzionamento della dialettica servo-padrone applicato all'amore. Il ruolo dello schiavo è essenzializzato in Marlene al punto da renderla muta, una semplice presenza attiva, all'apparenza del tutto succube di quello che accade alla sua padrona. Ma il mutismo indecifrabile di Marlene non è tanto più minaccioso proprio perchè imprevedibile? Quando alla fine, dopo che Petra ha imparato la sua lezione ed è diventata saggia e disponibile verso di lei, è proprio Marlene a rifiutarla. È questo un grande tratto di regia: l'apparente liberazione di Marlene (e di noi tutti, che salutiamo come un amarognolo happy end il ritorno all'umanità della protagonista) viene ribaltata nel suo vero significato: nel momento in cui la padrona-Petra confessa di aver bisogno della serva-Marlene nega la sua stessa ragione di esistere agli occhi di Marlene. E Marlene se ne va, pronta a reiterare altrove la relazione di dipendenza. Non esiste "democrazia" nei sentimenti, ma solo un'applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo. Chi vede nel gesto finale di Marlene una sorta di emancipazione, non tiene conto del fatto che la donna è felice di essere schiava perchè è questo il suo modo di possedere Petra. "Non così", dice Petra quando Marlene le si inginocchia davanti, violando la regola profonda secondo cui la loro convivenza era possibile. Così Petra, abbandonata da tutti, completa la sua "educazione sentimentale". Un processo che, nel sistema-Fassbinder, ha un esito diverso che nel sistema-Hegel: i protagonisti dei film di Fassbinder, Petra compresa, si ritrovano alla fine più o meno nella situazione di partenza. Per questi personaggi non c'è progresso nè sintesi, ma un fatalistico ripiegamento su se stessi, molto spesso la morte. Secondo Fassbinder la funzione di questi finali è positiva perchè "se il film ha una conclusione terribile, un finale che non si può sopportare, bisogna trovare qualcosa d'altro. La morte è emancipatoria... non nel senso in cui comunemente si usa la parola, ma nel senso che il protagonista, che rappresenta il pubblico, comprende la necessità di un'utopia. Ne ha bisogno". E ancora: "Il film che ha un finale fatalistico crea nel pubblico il bisogno di cercare un'utopia. Più un film è fatalistico, più è ricco di speranze".
D'altra parte, quella che potrebbe sembrare la punizione a una ubris commessa dall'isterica e indisponente Petra non è del tutto giustificabile. Da un certo punto di vista Petra (ed è questo che ha fatto imbestialire i circoli femministi di mezzo mondo nel 1972) è una donna indipendente ed emancipata. Ha abbandonato un marito possessivo e prepotente bruciando ogni fascino nei confronti del maschio, di cui non ha più nemmeno bisogno sessualmente. Ma il fatto è che l'amore lesbico, lungi dall'essere una trasgressione liberatoria (come più tardi quello gay di Il diritto del più forte), ricade sotto le leggi generali dell'amore vampiristico nella società borghese. "Non l'ho amata veramente, ho solo cercato di possederla", dirà più tardi Petra di Karin. Il prezzo che si deve pagare per questa consapevolezza è il dolore senza fondo della solitudine, a patto che si sia abbastanza forti da sopportarlo. Quanto a Karin, anche se a prima vista ci può sembrare più spontanea e simpatica di Petra, si rivela anche una cinica profittatrice. Soprattutto, a differenza della sua amante, si dimostra ancora totalmente dipendente dalla misteriosa figura maschile del marito, alla cui chiamata accorre immediatamente. Anche l'invidiabile fascino che circonda l'irraggiungibile "oggetto amato" che ai nostri occhi è venuta ad essere, cade così miseramente. Il cerchio, dunque, si chiude con un perfetto, inestricabile equilibrio di torti e di ragioni. Potrebbe essere una constatazione ineffabile, se non fosse che i torti e le ragioni dell'amore urlano e graffiano per farsi sentire. (...)
Davide Ferrario, Cineforum n. 218, 1982

Critica (2):[...] L'anno successivo Fassbinder girò due film e un serial televisivo. In giugno uscì Die bitteren Tränen der Petra von Kant (il titolo italiano, che rispecchia l'originale, è Le lacrime amare di Petra von Kant riduzione di un lavoro teatrale scritto e messo in scena dal regista stesso a Francoforte un anno prima. Si tratta del più felice esempio di un dramma che, accettando tutte le più "impossibili" sfide della convenzione teatrale (pochi personaggi, lunghi dialoghi e recitazione "da palcoscenico", azione confinata per due ore in un'unica stanza - il film fu presentato come Kammerspiel -, assenza di colpi di scena), si trasforma in uno splendido, compiuto film. Il merito è dell'eccezionale abilità raggiunta da Fassbinder (e dal suo operatore Michael Ballhaus) nel definire la progressione drammatica attraverso la macchina da presa, soprattutto con continue, elaboratissime carrellate e panoramiche. In rapporto a tale ricchezza visiva, la trama in sé è scarna e, per chi non ha visto il film, riduttiva e traditrice. Richiesto una volta se il nome della protagonista adombrasse un qualche riferimento a Immanuel Kant, il regista rispose che, scrivendo il dramma, pensava piuttosto a Hegel. In effetti lo sviluppo della dialettica servo-padrone è uno degli assi principali lungo cui Le lacrime amare di Petra von Kant si svolge. La prima relazione di questo tipo è quella tra Marlene e Petra, ed è una relazione che, attraverso il dominio sentimentale, fa trasparire anche un dominio economico: è Marlene che fa tutto, compresi i bozzetti che dovrebbero essere le creazioni originali di Petra. Abituata a comandare Petra non si rende conto che, attraverso la passione per Karin, subisce una doppia nemesi: di tipo affettivo (attraverso un amour fou che la rende nevrotica e disperata) e di tipo sociale (Karin, ragazza popolare e concreta, sfrutta i soldi di Petra per guadagnarsi la propria indipendenza economica). Questo doppio movimento dovrebbe portare, sempre in termini hegeliani, a una sintesi. La sintesi del film è però rovesciata. Coincide con uno dei meccanismi tipici del melodramma fassbinderiano: la protagonista si ritrova nella situazione di partenza. Quella sorta di educazione sentimentale che Petra è costretta a compiere mina anche le basi del suo rapporto con Marlene. la quale, come ha sottolineato più volte Fassbinder, se ne va non perché si è emancipata, ma perché non può tollerare che la sua padrona non la tratti come schiava. Perciò, da una parte Petra si ritrova abbandonata come all'inizio (una condizione enfatizzata dal buio sul quale il film si apre e si chiude); dall'altra Marlene andrà a reiterare altrove la relazione servo-padrone. Tutto questo svela una dialettica più generale. Queste donne si vampirizzano a vicenda a causa del loro rapporto con gli uomini. Karin è fuggita dal marito per tornare obbediente quando lui glielo chiede; Petra pecca nei confronti di Karin perché assume un ruolo maschile. nella stanza di Petra, d'altra parte, campeggia sul muro l'enorme, fiammeggiante gigantografia di un Correggio di due uomini nudi e possenti. La vera dialettica servo-padrone sembra perciò essere quella dei sessi, una dialettica poi replicata in tutte le situazioni individuali. Per questo il personaggio di Petra, pur così sofisticato e "antipatico", non è negativo, o condannato in partenza. Il suo imperdonabile peccato consiste nel fatto che chi abbandona consapevolmente la gerarchia maschile non può però sfuggire alla trappola del sentimento. Soffrire e far soffrire è la condizione stessa dell'amore. Questa elementare verità, che Fassbinder ripresenta ossessivamente ad ogni film, ha il difetto di non essere immediatamente traducibile in prassi politica: per questo egli fu violentemente attaccato dai circoli femministi (la stessa cosa accadrà con i gay per Il diritto del più forte). L'amore lesbico non rappresenta per Fassbinder una trasgressione progressiva (si perdoni il bisticcio verbale), ma soltanto un'altra fatale attuazione della logica borghese delle passioni. Petra è talmente intrappolata da questa contraddizione che il suo "bel gesto" finale nei confronti di Marlene, invece di placare la sua anima (e la nostra) in una sorta di malinconica saggezza, innesta di nuovo la macchina sadomasochistica della punizione reciproca. L'amore è un'interazione sociale: chi compie da solo il processo della sua conoscenza è destinato all'annullamento. Il patetico fascino che emana dalla figura (altrimenti insopportabile) di Petra von Kant origina di qui. è un fascino che non sarebbe possibile senza l'interpretazione di Margit Carstensen, che fornirà spesso al regista il prototipo della donna borghese. La sua figura secca e raffinata si presta perfettamente al cambiamento di parrucca e degli irreali vestiti, che scandisce ciascuno dei cinque atti in cui è diviso il film.
Davide Ferrario Fassbinder, Il Castoro Cinema, novembre/-dicembre 1982

Critica (3):

Critica (4):
Rainer Werner Fassbinder
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