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Sussurri e grida - Viskningar och rop


Regia:Bergman Ingmar

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Ingmar Bergman; fotografia: Sven Nykvist; montaggio: Siv Lundgren; scenografia: Marik Vos (Marik Vos-Lundh); costumi: Marik Vos (Marik Vos-Lundh); interpreti: Harriet Andersson (Agnes), Kari Sylwan (Anna), Ingrid Thulin (Karin), Liv Ullmann (Maria), Anders Ek (Isak, il pastore), Inga Gill (narratore), Erland Josephson (David, il dottore), Henning Moritzen (Joakim, marito di Maria), Georg Årlin (Frederik, marito di Karin), Lena Bergman (Maria bambina), Lars-Owe Carlberg (spettatore), Rosanna Mariano (Agnes, bambina), Monika Priede (Karin, bambin), Linn Ullmann (Figlia di Maria), Anna Karin Johannson, Greta Johansson; produzione: Cinematograh Ab, Svenska Filminstitutet; distribuzione: origine: Svezia, 1972; durata: 91’.

Trama:In una villa immersa nei colori autunnali di un parco alla periferia di Stoccolma, la quarantenne Agnese sta morendo di cancro. Al suo capezzale sono accorse le sorelle, Karin e Maria, da tempo lontane. Sposata con un uomo più anziano di lei, Karin è una donna impietosa, che odia il prossimo e ha un forte disgusto per ogni contatto fisico. Maria, più giovane, è un'estroversa preoccupata solo di sè e della sua bellezza. Nell'ombra, silenziosa e trepida, si muove Anna, la governante, che per aver perduto una figlia è la più vicina alla sofferenza della sua padrona. Agnese muore, ma durante la veglia funebre le sorelle odono levarsi dal suo cadavere grida disperate di invocazione. Sia Karin, però, chiusa nel suo egoismo, sia Maria, che fugge terrorizzata, non hanno più nulla da dare ad Agnese, ed è ancora Anna a prendere tra le sue braccia quel povero corpo e a consegnarlo placato al riposo eterno. Dopo un tentativo di comunicare fra loro, nel quale sono state per un attimo vicine, Karin e Maria si dividono per sempre. Nella casa vuota, e che dovrà abbandonare, Anna sfoglia il diario di Agnese, ritrovandovi le immagini di un passato in cui le tre sorelle, ancora unite, godevano della loro fragile felicità.

Critica (1):(…) Il film è ambientato all'inizio del secolo. Agnes (Harriet Andersson) è la proprietaria della casa nella quale vive dopo la scomparsa dei genitori. Non ha mai voluto abbandonarla, a differenza delle due sorelle che si sono trasferite altrove. Ha vaghe ambizioni artistiche: dipinge, suona il pianoforte, ma tutto in modo alquanto patetico. Nessun uomo è mai entrato nella sua intimità. Agnes soffre di una malattia incurabile e trascorre gran parte della giornata a letto, pregando Dio. Karin (Ingrid Thulin), di due anni maggiore, è sposata con un uomo ricco molto più vecchio di lei. Il suo matrimonio è un fallimento. Il marito non riesce ormai che a ispirarle disgusto. Nonostante abbia avuto cinque figli Karin non sembra aver risentito della maternità, così come non vuole far trasparire la tristezza del suo matrimonio. Il suo aspetto esteriore ne fa una donna arrogante e poco comunicativa. Questo apparente autocontrollo dissimula un odio impotente contro il marito e la vita. La sua disperazione si manifesta solo nei sogni d'incubo che sovente la assalgono.
Maria (Liv Ulmann) è la beniamina delle sorelle, ricca e sposata con un uomo di bell'aspetto e di ottima condizione. Ha una bambina, e lei stessa è rimasta una fanciulla viziata, sorridente, curiosa e sensuale. Ma non ha la minima idea del mondo che la circonda e non si fa turbare da contrasti morali di sorta. Sua unica regola è di piacere. Anna (Kari Sylwan) è la cameriera. Da giovane ha avuto una figlia che è stato molto curata da Agnes. Questo fatto (poi la bambina è morta) ha creato uno stretto legame fra le due donne. Anna non parla, ma è onnipresente, sa tutto e tutto ascolta.
La malattia di Agnes improvvisamente peggiora e il medico diagnostica la sua fine imminente. È a questo punto che il film ha inizio. Le sorelle giunte per la circostanza e la cameriera Anna si alternano al capezzale della sofferente. Attraverso queste giornate “alle soglie della morte” Bergman illustra i rapporti delle quattro donne tra loro, mentre in drammatico crescendo echeggiano nelle stanze le urla dell'ultima crisi e i bassi rantoli dell'agonia. In una terrificante metafora Agnes, già morta, piange e tende le braccia alle sorelle perché la aiutino nel trapasso; ed esse fuggono in preda alla nausea e allo sgomento. Solo Anna accetta di cullarla pietosamente perché essa accetti la sua “seconda nascita”, fondendo vita e morte in un abbraccio di calda, carnosa, possente dedizione. La morte agogna alla vita, come se non l'avesse mai vissuta. E la vita consola la morte come una nutrice saggia e immortale.
Né saggezza né dedizione eviteranno che dopo le esequie le sorelle, partendo, liquidino la serva con una parola cortese e aprendo fuggevolmente il portafoglio. “Qui Bergman ristabilisce la distanza tra le classi che la sventura sembrava accomunare” (Casiraghi). Poi tutte lasceranno la loro casa di un tempo, quel Posto delle Fragole che non hanno saputo o voluto riconoscere. Con un tocco di lieve rimpianto Bergman finisce il film nel vasto giardino, mentre le sorelle, tutte vive, si dondolano sull'altalena; quando il mondo era ancora verde per loro, e non occorreva fuggire al rosso incubo delle pareti di casa. Tutti gli interni di Sussurri e grida sono in rosso cupo, smorzato e rituale.
La spiegazione di questa scelta cromatica è stata data da Bergman stesso in una lettera inviata ai collaboratori mentre scriveva la sceneggiatura. “Gli interni saranno in diverse gradazioni di rosso – avvertiva –. Non chiedetemi il perché, non lo so. Ho cercato io stesso di trovarne il motivo e mi sono dato spiegazioni una più comica dell'altra. La più ottusa, ma anche la più difendibile, è che deve trattarsi di qualcosa di interiore, perché dall'infanzia mi sono sempre immaginato l'interno dell'anima come un'umida membrana tinta di rosso”.
Dal vicariato della prima giovinezza tornano ancora una volta le immagini ossessionanti di Bergman: si veda anche la sequenza della lanterna magica (…) e si noti il silenzio delle sorelle, che gravò sempre sulla casa paterna del regista (il padre e la madre non si parlarono mai, per cinquantadue anni di seguito; lo confessò a Ingmar la madre stessa prima di morire). Ma c'è di più: nel suo sforzo di comprensione qui Bergman non solo si rifà ragazzo, ma si fa donna. Si strappa dalla sua natura maschile per meglio realizzare, con affanno, l'atto di offerta amorosa che è al culmine del film, ma che si compirà, per un momento, solo dopo varcata la misteriosa soglia della morte. Il sussurro in Bergman è grido, il grido è sussurro. Entrambi invocano una cosa sola, che non è la felicità, ma che le assomiglia, perché è la pace. (…)
Tino Ranieri, Ingmar Bergman, Il Castoro Cinema 12/1974

Critica (2):La prima immagine ritornava sempre: la stanza rossa con le donne vestite di bianco. Succede che alcune immagini ritornino in modo ostinato, senza che io sappia che cosa vogliono da me. Poi scompaiono, ritornano di nuovo e sembrano sempre le stesse. Quattro donne vestite di bianco in una stanza rossa. Si muovevano, si sussurravano qualcosa l'un l'altra, con atteggiamento molto misterioso. [...] Tutti i miei film possono essere pensati in bianco e nero, eccetto Sussurri e grida. C'è scritto anche nella sceneggiatura, io ho sempre immaginato il rosso come l'interno dell'anima.
Ingmar Bergman, dal sito della Cineteca di Bologna.

Critica (3):"Con questo film Bergman torna a quei temi che improntano di sé tanta parte della sua opera: il significato della morte e della vita. Il silenzio di Dio, la comunicazione tra gli uomini. Quattro donne si ritrovano a confrontarsi con la morte. È, per ciascuna, il momento della verità. EÈ dal significato che hanno dato alla vita che dipende la loro risposta alla morte. Agnes, la morente, ha creduto che la vita fosse felicità di stare insieme, di godere delle stagioni e dei loro colori, di toccarsi, di comunicarsi il calore dei corpi. Ha paura del gelo della morte, della solitudine della carne, della corruzione cui questa è destinata. Composta sul letto funebre, torna a invocare le sorelle, quasi volesse portarle con sé. Si placa solo tra le calde accoglienti braccia di Anna. Karin odia la morte perché odia la vita ('un tessuto di menzogne'): con un coccio di bicchiere si lacera il grembo, simbolo appunto della vita. Non dà, né vuole ricevere. Vorrebbe non esistere. Maria ha un'altra specie di aridità: vive della propria immagine, riflessa da uno specchio o da occhi maschili. Nel suo egoismo infantile, dà solo il suo corpo, per averne piacere (talvolta, è anche capace di aprirsi al prossimo, ma per poco). Odia la morte, come odierebbe uno specchio mostruoso, che le rinviasse deformati e corrotti i suoi bei lineamenti. Anna, l'umile, silenziosa, ubbidiente cameriera di Agnes, è la sola ad accettare la morte, poiché ha accettato la vita, di cui possiede il segreto che la rende sopportabile: viverla donandosi, amando, avendo pietà, mentre per chi si rinchiude nella gabbia dell'egoismo e dell'indifferenza, il silenzio di Dio è riempito soltanto dagli urli agghiaccianti della morte. Tra i più alti di Bergman e del cinema in genere, questo film è di una eccezionale sapienza stilistica. Tutti i suoi elementi – dalle immagini di estrema bellezza, alla perfetta scansione dei 'tempi' e alla impeccabile fusione tra realtà e brani onirici – concorrono a farne un'opera di vera e propria poesia. Assecondato perfettamente da grandi interpreti, Bergman raggiunge risultati straordinari soprattutto nel ritratto delle quattro donne, frugate in ogni risvolto psicologico." Segnalazioni Cinematografiche, vol. 75, 1973

Critica (4):
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