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49° Parallelo - Gli invasori - 49th Parallel


Regia:Powell Michael, Pressburger Emeric

Cast e credits:
Sceneggiatura: Emeric Pressburger; dialoghi: Rodney Ackland; fotografia: Frederick Young; operatori: Skeets Kelly, Henry Creer; scenografia: David Rawnslev; musica: Ralph Vaughar. Williams; suono: C.C. Stevens; montaggio: David Lean; interpreti: Eric Portman (tenente Hirth), Richard George (comandante Bernsdorff), Raymond Lovell (tenente Kuhnecker), Niall MacGinnis (Vogel), Peter Moore (Granz), John Chandos (Lohrmann), Basil Appleby (Jahner), Laurence Oliver (Johnnie il cacciatore), Finlay Currie (il fattore), Ley On (Nick l’esquimese), Anton Walbrook (Peter), Glynis Johns (Anna), Charles Victor (Andreas), Frederick Piper (David), Leslie Howard (Philip Armstrong Scott), Tawera Moana (George l’indiano), Eric Clavering (Art), Charles Rolf (Bob), Raymond Massey (Andy Brock); produttori associati: Roland Gillett, George Brown; produzione: Michael Powell per Ortus Film, Ministero dell’informazione; origine: Gran Bretagna, 1941; durata: 123’.

Trama:1940. Un sommergibile tedesco viene affondato nella baia dell’Hudson. I nazisti sopravvissuti, guidati da un fanatico ufficiale, il tenente Hirth, attraversano il paese nel tentativo di lasciare il Canada per entrare negli Stati Uniti, all’epoca ancora neutrali.

Critica (1):Powell e Pressburger sembrano aver fatto una scelta difficile: un film di propaganda destinato a celebrare la partecipazione del Canada alla Seconda Guerra Mondiale, il che implica un aspetto dimostrativo, e a rendere omaggio a questo paese, il che implica un aspetto didattico. Tali costrizioni narrative e formali, che hanno rovinato più di un film, stimolano a tal punto il regista e lo sceneggiatore che si potrebbe considerarle un incentivo necessario alla loro attività creativa, dato che si ritrovano all’origine della maggior parte dei loro film. 49° parallelo, 1941, è un esempio perfetto della disinvoltura con la quale riescono a metterle a profitto.
La struttura è semplice e sembra imposta dal soggetto: un gruppo di sommergibilisti tedeschi affondati nella baia dell’Hudson tentano con mezzi diversi (idrovolante, automobile, treno, marcia forzata) di raggiungere gli Stati Uniti, all’epoca ancora neutrali. Alcune grandi tappe fanno loro attraversare paesaggi reali e sono occasione di incontro con personaggi di finzione non meno tipici, interpretati da attori essi stessi caraterizzati: un cacciatore di pelli franco-canadese (Laurence Olivier), il capo di una comunità di hutteriti (Anton Walbrook), un perfetto gentleman (Leslie Howard), un fattore arruolato nell’esercito (Raymond Massey).
Ciascuna delle tappe principali fornisce lo spunto sia di una avventura che di una lezione sul nazismo, mentre gli episodi intermedi rientrano nell’ambito dell’avventura non senza implicazioni riguardo al nazismo.
Via via, il numero dei fuggitivi si riduce finché non rimane che il loro capo, il luogotenente Hirth (Erich Portman) nazista intelligente e coerente. La narrazione ripropone un paradosso che Powell e Pressburger hanno impiegato a partire da
La spia in nero (The Spy in Black, 1939), la loro prima collaborazione: mentre i nazisti sono di fatto i nemici, in particolare il loro capo, noi spettatori proviamo partecipazione nei loro confronti in quanto sono dei fuggiaschi.
Fin dal tentativo di decollo dell’idrovolante desideriamo che ce la facciano, pur senza smettere di essere consapevoli della disumanità di Hirth, che si esercita anche a detrimento dei suoi stessi uomini.
Molte peripezie non sarebbero diverse se Hirth e i suoi uomini rappresentassero dei valori positivi, come gli eroi di
L’avventura impossibile (Desperate Journey, Raul Walsh, 1942) ai quali si pensa più di una volta (e non soltanto a causa della presenza di Raymond Massey). Questo punto di vista lo si ritrova in La battaglia del Rio della Plata (The Battle of the River Plate, 1956), dove, di fronte alla flotta inglese, l’eroe è proprio il comandante nazista, per il suo spirito di resistenza, per la sua preoccupazione verso i propri uomini e per la sua dignità.
Al contrario (siamo nel 1941) Hirth rimane sempre uguale a se stesso: padrone di sé, di una freddezza totale fondata sulle sue convinzioni razziali e sul suo spirito militare, sacrifica ai suoi scopi, senza remissione, tutti quelli che costituiscono un ostacolo, uomini, donne… e lattanti. Eric Portman è eccellente nel rendere la formalità di superficie del personaggio e il fanatismo di fondo senza limiti. Si vuole che lui fallisca in ciascuna delle sue imprese, ma che ne sarebbe allora del racconto e dei suoi intenti dimostrativi? Una delle forze più grandi del film sta nel fatto che la disumanità di Hirth si rivela ogni volta per quello che è. Gli incontri sono tante circostanze diverse che dimostrano che niente può renderlo umano, sia che si tratti di un uomo, di una popolazione, di un gruppo religioso, di opere letterarie o pittoriche. Esse finiscono per condensare in lui e nei suoi uomini, apparentemente a caso, tutti gli aspetti del nazismo: dal razzismo e dall’odio per la democrazia alla reazione di avversione violenta che può provocare un concetto o una parola (come il nome di Churchill, per coincidenza quello di una città canadese). Come in
L’occhio che uccide (Peeping Tom, 1960), la narrazione con il suo paradosso mantiene una distinzione tra l’eroe della fiction e l’eroe in senso morale; senza manicheismo, tuttavia, perché gli avversari dei nazisti non incarnano subito il bene o valori positivi, dato che Powell e Pressburger utilizzano questa distanza per i loro fini. Tre di questi sono molto caraterizzati: il primo, il cacciatore di pelli (il francese di Laurence Olivier è troppo incrociato con l’inglese per… un orecchio francese), vestito di una camicia a quadretti, poco dotato d’immaginazione, indifferente alla guerra, candido e coraggioso, certamente ardimentoso, ma che il candore e l’indifferenza a ciò che non fa parte del suo universo conducono eroicamente al fallimento (e forse alla morte). L’ultimo, Brock (Raymond Massey, nato a Toronto, interpreta un nativo di Toronto), individualista e indifferente al suo dovere, per pigrizia e mitezza, brontolone che impreca contro lo stato ma buon cittadino, se dimostra molto bene come, lungi dall’opporsi, i due aspetti si coniugano, non facilita certamente il compito del nazista con la sua trasgressione alla regola militare e con la sua ingenuità che tira fuori all’ultimo momento. Il ritratto più satirico, il terzo, è quello di Philip Armstrong Scott; egli ha l’apparenza di un ritratto alla Jerome K. Jerome e la ferocia di tratto di un dipinto di Swift.
Dilettante che si offre una partita di pesca in condizioni di grande confort (vasta tenda ammobiliata, domestici) dal fairplay indefettibile, tanto limitato quanto Blimp nei suoi principi, non può campeggiare senza la sua biblioteca dove troneggiano Hemingway e Thomas Mann, dove espone il suo Picasso e il suo Matisse. Rifiutando qualsiasi violenza, è necessaria la violenza perché lui passi all’azione. E quale violenza! Quella che colpisce le opere. E quale azione! Egli arriva a dare un sacco di botte al suo avversario, in fondo ad una grotta dove l’altro ha trovato rifugio. Powell fa l’ellissi di questo pestaggio come se non potesse mostrare un gentleman che si comporta tanto volgarmente. Con il suo eloquio perfetto, il suo accento impeccabile e la voce dolce, Leslie Howard riesce ad incarnare il personaggio e a farne la caricatura. L’episodio è allo stesso tempo un autentico sketch di humor e una dimostrazione efficace, perché, per quanto il personaggio dell’inglese sia caricaturale, non fa del nazista un essere da difendere.
Il secondo avversario occupa l’episodio centrale, il più complesso del film: è Peter, il capo degli hutteriti. L’episodio mette a confronto tedeschi e nazisti. Mescola tre azioni differenti. La prima è la rivolta progressiva di una ragazza molto giovane che si manifesta con i mezzi alla sua portata (nel modo di filmare Glynis Johes, della quale questo fu il primo ruolo, si riconosce il gusto di Powell per i giovani volti femminili; si vedano Duello a Berlino, 1943; Narciso nero, 1947). La seconda racconta la metamorfosi del soldato Vogel, o la ricomparsa dell’uomo sotto il nazista. Esso si conclude con un momento intenso, quello dell’accettazione sottomessa della giustizia militare; la sua esecuzione all’alba, in una breve sequenza sobria, precisa e luminosa, manifesta di nuovo la disumanità di Hirth e quella che rimane in colui che fu nazista.
La terza azione consiste nello scontro diretto tra Peter (Anton Walbrook, prima di
Duello a Berlino, già meritevole di elogi) e Hirth. Preparata con silenzi e reticenze, prende la forma dello scambio verbale organizzato così comune nell’opera di Powell e Pressburger (Scala al Paradiso - A Matter of Life and Death, 1946). Come in quest’ultimo film, esso si svolge davanti ad un uditorio attento, ma invece che in una gara animata, gli argomenti si oppongono uno ad uno, ciascuno degli oratori espone nel silenzio i suoi argomenti senza fermarsi. Vi sono poche sequenze più dense. Innanzitutto per la sua verosimiglianza: l’inquadratura, la situazione, i personaggi giustificano il fatto che ci sia stato un cambiamento di discorso, che tutti ascoltino. E poi per la natura degli argomenti: l’esposizione di Hirsch è rigorosa, chiara, precisa in funzione dei suoi principi, e totalmente insostenibile per le sue ragioni di fondo e per la sua forma; la risposta di Peter è impeccabile, imparabile e definitiva per le medesime ragioni. È una vera lezione di eloquenza e di riflessione politiche. E non sarebbe così coinvolgente senza la sua qualità letteraria, aspetto fondamentale e costante dei dialoghi di Pressburger.
Ogni tappa possiede la pienezza di un film completo. Ciascuna è costruita coi mezzi appropriati: scenografie reali o ricostruite in studio, costumi, complesso di comparse con un aspetto dispendioso che è un piacere per lo sguardo. Viene alla mente la taverna tedesca di Duello a Berlino. Dall’una all’altra e nelle sequenze intermedie, Powell unisce e mescola senza contrasto generi e registri espressivi, forme convenzionali e stili, muovendosi agevolmente fra tutti. L’inizio così come gli episodi dei protagonisti in marcia appartengono al film d’azione e di guerra: giochi di prospettive, distribuzione rigorosa dei corpi nello spazio, ritmo sostenuto, per esempio nel passaggio dal sottomarino alla terraferma, dalla terraferma all’idrovolante. L’epilogo ritrova questo registro, in quanto approfitta allo stesso tempo del faccia a faccia in uno spazio ristretto (un vagone) e della spettacolarità (un treno su un ponte che attraversa il Niagara).
Lirico nello sfruttamento degli spazi naturali, soprattutto le rive del mare, Powell diviene descrittivo ed ellittico quando suggerisce la vita notturna di una città. Nell’azione, non trascura mai l’aspetto umano: l’arrivo dei fuggiaschi in città, la loro sosta davanti a una pasticceria, filmata dall’interno della vetrina della quale divorano con gli occhi il contenuto, fanno sentire la solitudine e allo stesso tempo la fame.
Il metodo documentaristico, molto frequente nella sua opera, si manifesta – per quanto riguarda gli uomini – nella pittura degli Esquimesi (e si pensa a
The Edge of the World, 1937). È perché sono stati mostrati con la preoccupazione di rispettare ciò che sono che il massacro fatto dai nazisti e il commento di Hirth sono così difficili da sopportare. Per quanto riguarda le cose, la vita nel sottomarino, le difficoltà incontrate nel pilotare l’idrovolante fanno capire quanto la vita degli uomini dipendesse già allora dalla meccanica. L’episodio della preparazione del pane presso gli Hutteriti è la più caratteristica di questo modo di operare con l’inquadratura, l’illuminazione, il montaggio: esso esprime allo stesso tempo il gusto di Powell per l’oggetto (le campane, come ha fatto notare Yann Tobin), l’attrezzo o la macchina (avvertibile fin dal 1935, in The Phantom Light, di cui costituisce uno dei risultati meglio riusciti), il piacere che Vogel prova nel portare a termine un compito di natura non bellica (il lavoro nei campi in A Canterbury Tale, 1944), che simboleggia anche il contrario della guerra, e l’attesa di tutti, che, grazie a questo vero fornaio, potranno mangiare del buon pane. È d’altra parte l’episodio che mescola il maggior numero di elementi diversi, dalla commedia al lirismo, dal didattismo al dramma umano.
Infine, da una sequenza all’altra, tra i piani che hanno innanzitutto una funzione narrativa, ecco quelli nei quali la disposizione dei personaggi, i controluce, la penombra possiedono un’intrinseca bellezza plastica.
Questo film di circostanza dimostra attraverso la varietà dei suoi aspetti la levatura di Powell, che non si potrebbe limitare a un film, a un soggetto, a uno stile. In se stessa, questa varietà si rivela uno degli elementi costanti della sua opera che esprime una padronanza e una fiducia totali nel mezzo cinematografico.
Alain Garsault,
Positif n. 532, 6/2005 (traduzione Angela Cervi)

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Michael Powell
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