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Troppo forte


Regia:Verdone Carlo

Cast e credits:
Soggetto e sceneggiatura: Sergio Leone, Rodolfo Sonego, Alberto Sordi, Carlo Verdone; fotografia (Eastmancolor-Telecolor): Danilo Desideri; scenografia: Franco Velchi; costumi: Raffaella Leone; montaggio: Nino Baragli; musica: Antonello Venditti; interpreti: Carlo Verdone (Oscar Pettinari), Stella Hall (Nancy), John Steiner (il produttore), Mario Brega (l'uomo delle scommesse), Sal da Vinci (Capua), Alberto sordi (Pignacorelli); produzione: Augusto Caminito per la Scena Film; distribuzione: Titanus, Italia, 1986; durata: 110'.

Trama:Roma. Oscar Pettinari, chiamato affettuosamente dagli amici Troppo forte, è un giovane della periferia che frequenta Cinecittà e sogna di diventare attore cinematografico nei film d'azione, o almeno di avere dei ruoli da stuntman. Una mattina viene scartato ad un provino da un importante produttore cinematografico americano per il suo aspetto troppo bonario, ma conosce un avvocato decisamente estroso, il conte Giangiacomo Pigna Corelli Inselci. Con l'aiuto di questo strano personaggio, Oscar inscena un incidente in moto per incastrare il produttore che lo aveva scartato al provino, ma destino vuole che alla guida dell'auto che lo "avrebbe" investito non ci sia il produttore, ma Nancy, una giovane e bellissima attrice americana, nonché amante dell'uomo, la quale per questo perderà la parte.

Critica (1):Se Nando Mericoni si fosse sposato e avesse avuto un figlio, questo si sarebbe chiamato Oscar e poi, per esigenze cinematografiche, avrebbe cambiato il propria cognome in Pettinari. Come si comporterebbe a metà degli anni '80 "un americano a Roma", nato, al pari del precedente, non a Brooklyn, ma in borgata, sballottato tra due modelli cui ispirarsi, il grande Rambo del grande schermo e i piccoli eroi del piccolo schermo, ossia poliziotti, entertainers, ospiti eccellenti di contenitori ad altissima audience, protagonisti di videoclips e di spots pubblicitari? Ce lo dice Carlo Verdone, l'erede per elezione di Alberto Sordi, suo figlio legittimo come già abbiamo visto nel film diretto dal "padre", In viaggio con papà. Ce lo dice senza sorprenderci troppo, perché - a ben guardare, ce l'aveva già detto nei film precedenti, a cominciare dall'opera prima, Un sacco bello. Del resto, se non ci fossero stati tali precedenti, nessuno lo avrebbe eletto a figlio-erede di Sordi: al cinema le filiazioni si acquistano sempre sul campo e non per le legge dinastica, cioè per volontà del produttore. Di solito quando sono i produttori a decidere preventivamente, l'investitura porta male: pensiamo alla miseranda fine fatta da tanti "nuovi Garbo", "nuove Marilyn".
Che cosa fa allora Carlo Verdone? Crea una scissione tra l'abito e il linguaggio: il suo abito (costume indossato e gestualità) rimanda al cinema; il suo linguaggio alla televisione, nel senso che il suo romanesco, a differenza di quello di Sordi, è inquinato dall`italiese" che grazie al video sta trasformando per la prima volta la nostra terra da quella espressione geografica qual era, per dirla con Metternich, o da quella federazione di dialetti, in una nazione unitaria. Inoltre, Verdone, sia pure a fatica, tenta di tenere insieme i cocci della "commedia all'italiana": è l'unico comico della nuova generazione che si guardi intorno, anzichéspecchiarsi nel proprio ombelico. Certo, il suo non è propriamente lo sguardo dell'aquila: osserva solo le cose che stanno a distanza ravvicinata; in quest'ultimo film si dimostra anche un po' pigro. Attende che le cose arrivino a lui, piuttosto che andarle a cercare. Nella fattispecie, che varchino l'ingresso di Cinecittà portando un po' di realismo (minore) nel quartiere dei sogni: un quartiere reso familiare (non parliamo di smitizzazione, per carità!) dal recente programma televisivo di Vittorio Gassman. L'ambiente in cui Oscar Pettinari si muove e di cui dovrebbe essere il leader, è quello, infatti dei bulletti di periferia, dei "hell's angels" caserecci, che gravitano intorno alla nostra città del cinema, in cerca di "comparsate" e nella speranza che qualche produttore, possibilmente d'oltre Oceano, li noti perché in possesso della "faccia giusta", aprendogli così un imprevedibile futuro hollywoodiano. Abbiamo detto "dovrebbe essere il leader", perché egli - lo si scopre quasi subito - a conti fatti non lo è. Al contrario, rischia di essere continuamente un "loser", cioè un perdente, infinocchiato dagli stessi compagni di cordata che lo seguono e che dovrebbero essere i suoi secondi. Verdone porta a un grado di estrema sofisticazione quella che Maurizio Grande, nel suo saggio sulle istituzioni del comico e la forma-commedia (contenuto nel secondo volume sulla commedia all'italiana promosso dalla federazione italiana dei circoli del cinema), chiama la "commedia del travestimento alienato" ossia la "disponibilità troppo cedevole del soggetto alla adesione sociale", presente in tanti personaggi creati non solo dal Sordi prima maniera, ma anche da Manfredi e Tognazzi. Verdone fa addirittura qualcosa di più: "aliena" anche gli interlocutori, dimostrando in questo una notevole intuizione, questa sì di vista lunga, perché svela una delle caratteristiche principali del "nuovo italiano", cioè di un essere sul quale il vecchio proveabio, 'L'abito non fa il monaco", calza a pennello. Nelle parti migliori di tutti i suoi film, infatti, si ha sempre la sensazione, o il semplice presentimento, che i personaggi che ti trovi davanti, sullo schermo, non siano quello che vorrebbero rappresentare. Qui questa alienazione è attribuita anche a Nancy, la ragazza venuta d'oltre Oceano, presentata dall'inizio come una "diva" pagata a suon di milioni di dollari e che, nel prosieguo dell'azione, perde tutti i connotati di alterità per scoprirsi una casalinga viziata quanto inquieta, covante impossibili sogni hollywoodiani, che il marito tenta - probabilmente invano - di ricondurre alle cure, parentali (perché di mezzo c'è anche un figlioletto). E lo stesso può dirsi dell'avvocato Pignacorelli che si muove e agisce come un "principe del foro", capace di mettere nel sacco anche un Tycoon venuto da Los. Angeles con tutta la sua squadra di provetti legali e reggiborsa, mentre si tratta in realtà di un semplice mentecatto, soggetto a periodiche crisi di smemoratezza che lo costringono a cambiare mestiere. Personaggio, sia detto per inciso, interpretato strepitosamente da un Alberto Sordi, che da tempo non riusciva a sublimare con tanta fantasia la sua capacità di osservazione. Curioso: quando Sordi dirige se stesso e Carlo Verdone come in In viaggio con papà, è Verdone che risplende meglio; quando - come stavolta - si invertono le parti ed è Verdone a passare dietro la macchina da presa, il regista pare voglia ricambiare la cortesia e fa sì che Sordi lo sopravanzi di una buona spanna.
Callisto Cosulich, Paese sera, 31/01/1986

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Critica (3):

Critica (4):
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